martedì 31 luglio 2012

Le differenze spiegate ai bambini: quali linguaggi possibili?

Ogni essere umano è "strano" (o straniero) fuori dal proprio contesto.
Colore della pelle, lingua, cultura, cibo, abitudini... e poi idee, fissazioni, stranezze, disabilità, disagio.
I bambini sono auto-centrati (in modo sano, autentico e inconsapevole, non come alcuni adulti - che spesso peggio dei bambini - sono ego-centrati) e faticano a capire queste differenze.
Che strumenti possono aiutarci a spiegare loro che il "diverso" in realtà è solo "differente" da noi?
E che quando il contesto cambia i diversi potremmo essere noi?
Il linguaggio della favola può correrci in aiuto...
Le favole sono la metafora della vita quotidiana ma il linguaggio fantastico ci può aiutare a superare ciò che nella "lingua dei grandi" sembra impossibile da spiegare.
Basta avere un po' di fantasia e chiarirsi quale obiettivo si vuole raggiungere.

Ecco ad esempio la favola scritta da Sara.

Bruno e Bianca

C’era una volta un orsa di nome Bianca che viveva al Polo Nord, in mezzo ai ghiacci con i suoi amici. Trascorreva tutto il suo tempo giocando con loro a prendere i pesci, a rotolarsi nella neve e a scherzare le foche e i pinguini per la loro goffaggine.
Questo era per Bianca il divertimento più grande: in quanto orso metteva paura agli altri animali per la sua forza fisica … e questo la faceva sentire davvero importante.
Un giorno, mentre con i suoi amici era intenta a scherzare le foche monache, Bianca  vide apparire in lontananza un orso che spiccava sui ghiacci per il colore del pelo.
Era nero, grosso quanto lei e cercava di fuggire da un branco di lupi affamati che lo avevano attaccato.
L’operazione risultava particolarmente difficile perché l’orso non riusciva a nascondersi tra le nevi e i lupi continuavano ad inseguirlo.
Quando l’orso vide i suoi simili bianchi si diresse verso di loro in cerca di aiuto.
- Ecco degli orsi – disse – se riesco a raggiungerli mi daranno certo una mano -. E così via, di corsa verso di loro.
I lupi, vedendo così tanti orsi si spaventarono e decisero di abbandonare la preda.
Bianca fu la prima ad avvicinarsi all’orso straniero: - Chi sei? Cosa fai da queste parti? –
- Mi chiamo Bruno – disse lo straniero – e volevo ringraziarvi per l’aiuto che mi avete dato -.
- Nessuno di noi voleva aiutarti, sei tu che ti sei avvicinato. Noi non ti vogliamo perché sei scuro: se stai con noi tutti i lupi ci salteranno addosso perché non riusciremo più a nasconderci tra la neve. Vattene, torna a casa tua – disse seccamente Bianca. Rinforzato da Bianca tutto il branco urlò in coro “Vattene!” a Bruno.
- lasciatemi spiegare amici: mi sono perso mentre cercavo il cibo per il mio branco. A casa mia il cibo scarseggia e ogni giorno dobbiamo allargare il nostro giro per poterci sfamare. Io l’ho allargato troppo e mi sono perso. E poi quei lupi … -
bruno fu bruscamente interrotto da Bianca.
- Ti ho detto di andartene, le tue spiegazioni non ci interessano. Tu sei diverso. Non ti vedi? Sembra che sei caduto nel fango. –.  Tutti gli orsi risero sonoramente e Bruno, sconsolato, girò su se stesso e cominciò a camminare cercando la via di casa.
Dopo qualche anno Bianca, ormai diventata grande, stava cacciando per sfamare il suo branco.
 Un giorno, mentre inseguiva la scia di un grosso pesce che avrebbe assicurato pasti per un po’ di giorni, la lastra di ghiaccio su cui era improvvisamente si staccò e andò alla deriva.
La lastra si allontanava sempre di più dal polo nord sciogliendosi piano piano. Quando ormai il ghiaccio si era quasi completamente consumato Bianca riuscì ad aggrapparsi al ramo di un albero che sporgeva.
Si trovò davanti ad un paesaggio a lei sconosciuto: non c’era più il bianco della neve, tutto era scuro perché gli alberi alti e fitti coprivano il sole.
Non sapeva dove andare, qual era la strada per tornare indietro e, spaventata cominciò a gironzolare senza meta.
Improvvisamente si sentì circondata: un branco di lupi stava per attaccarla e lei non poteva nascondersi. Come mimetizzarsi se non c’era niente di bianco?
I lupi avevano la bava alla bocca pregustando la cena, e si preparavano ad attaccare, aspettando soltanto il segnale del capobranco.
Il primo lupo spiccò il suo balzo verso la preda … ma una possente zampata lo stese a terra.  Un gigantesco grizzly, imponente sulle zampe posteriori, lanciò un grande ruggito facendo fuggire tutti i lupi.
Bianca era ancora spaventata e tremante.
- Come stai? – le chiese il grizzly .
- Bene, sei arrivato appena in tempo. Grazie. – rispose Bianca
- Non puoi stare da sola nella foresta, sei una preda troppo facile. Io so cosa si prova a non potersi mimetizzare. Ma adesso stai tranquilla, hai un amico che ti aiuterà. -
- Bruno? – chiese timidamente Bianca.
- Come fai a conoscere il mio nome? -

- Io ti conosco, sono quella che ti ha cacciato dal polo nord, rifiutandoti l’aiuto che tu invece non hai esitato a darmi. Oggi la diversa sono io. –
- Stai facendo ancora lo stesso errore: tu non sei diversa, tutti gli orsi sono semplicemente orsi -.
- Io sono stata semplicemente una stupida: mi sono fermata al colore del pelo senza chiedermi chi fossi veramente. Scusami -
- Anch’io ancora non so chi sei, non mi hai nemmeno detto come ti chiami. -
- Io sono Bianca, Bruno. - 

lunedì 30 luglio 2012

Il gioco: piacere o lavoro?

In letteratura si definisce gioco quell'attività che possiede due aspetti essenziali:

  • la dimensione del piacere, della gratuità dell'esperienza fine a sé stessa, fatta esclusivamente per il proprio piacere;
  • la dimensione dell'improduttività, poiché non è un'attività finalizzata, non produce nulla nel senso che noi di solito attribuiamo al termine risultato o prodotto. Esce dalla logica della produzione nel senso sociale ed economico del termine.

Il bambino gioca perché gli piace farlo, fa ciò che immediatamente lo attrae e ha senso per lui ciò che suscita piacere e interesse.
Al gioco però appartiene anche una dimensione formativa e culturale: non è solo esercizio o addestramento poiché mediante il gioco si trasmettono conoscenze e modelli culturali.
L'attività ludica assume un'importanza fondamentale per un corretto sviluppo socio-affettivo e intellettivo dei bambini e si caratterizza mediante i concetti di creatività - intesa come capacità di combinare diversamente i dati, le informazioni che già si possiedono o di ricavarne di nuovi - e di possibilità come forma delle categorie interpretative. E' nel giocare che fin da bambino l'uomo sperimenta con successo la possibilità di intervenire attivamente sugli elementi che lo circondano, nel senso di trasfigurarli e di modificarli. Il gioco assume dunque la caratteristica di un'attività orientata verso la creatività, il cambiamento e verso la categoria del possibile.

Ecco perché i bambini adorano giocare, ed ecco perché gli educatori amano progettare giochi, laboratori ed attività.
La difficoltà sta nel trovare l'equilibrio tra il gioco "strutturato", progettato e il gioco "libero": il primo è pedagogicamente orientato e permette il raggiungimento di obiettivi stabiliti a priori, mentre il secondo lascia più ampia scelta ai bambini e gli permettere di sperimentare ciò che più lo incuriosisce.

domenica 29 luglio 2012

Immigrati di seconda generazione: una questione ancora aperta

Questo è un post particolare: uno dei ragazzi che ho seguito in comunità (tanti, tanti, tanti anni fa) mi ha segnalato che fa parte del blog "Rete G2 - Seconda Generazione"
Da educatore so bene cosa significhi essere un "immigrato di seconda generazione" ed è con piacere che linko qui il loro sito.
Ho chiesto a lui (e di riflesso a tutti i suoi "compari") di partecipare al mio blog perché le loro storie - oltre ad essere molto interessanti dal punto di vista umano e personale - sono illuminanti dal punto di vista professionale.
Spero che la partecipazione (di G2 e di italiani di qualsiasi generazione) sia alta e proficua.

Io e gli altri: chi siamo? L'autobiografia come strumento di auto-formazione.

Non viaggio mai senza il mio diario. 
Si dovrebbe avere sempre qualcosa di sensazionale da leggere in treno.
(Oscar Wilde)



Chi di noi non ha mai scritto un diario o ha pensato di farlo? Quante volte raccontiamo la nostra storia alle altre persone per presentarci o per rappresentare la nostra immagine? La domanda principale dovrebbe essere "Chi siamo?" mentre in realtà ogni volta che raccontiamo di noi la domanda a cui vorremmo rispondere è "Chi vogliamo rappresentare?"
L’elemento più problematico del concetto di identità è costituito dal fatto che con un’unica parola si fa contemporaneamente riferimento a ciò che è uguale (a sé) e ciò che è diverso (da altri): noi riconosciamo unicità ed identità ad una persona in quanto essa ha delle componenti proprie che la rendono differente da altre persone. L’identità, quindi, nasce da un rapporto dell’individuo, della sua soggettività e della sua storia con gli altri e non si costruisce soltanto intorno alla domanda “Chi sono io?”, ma anche intorno alle domande “Chi sono io in rapporto agli altri?” e “Chi sono gli altri in rapporto a me?”.
L’uomo fa capo a quattro grandi aree concentriche di appartenenza:
1.   alla prima, che potremmo definire area dell’individualità, afferiamo in quanto soggetti che cercano di realizzare dei fini personali;
2.    nello stesso tempo siamo anche inseriti nella rete della socialità primaria (principalmente la famiglia) che incide fortemente sul nostro comportamento e sulla nostra identità;
3.   ognuno di noi è poi membro di un macrosoggetto collettivo (cittadino di una nazione, membro di una comunità religiosa): le identità etniche, religiose, politiche, nazionali afferiscono a quella che definiamo socialità secondaria che si sovrappongono a quelle specifiche della socialità primaria;
4. infine, tutti siamo inseriti in una parte del mondo (una cultura, un continente) e siamo membri della specie umana.
La formazione della nostra identità nasce dalla rappresentazione che noi abbiamo degli altri perché noi “siamo qualcuno” solo in confronto a quello che gli altri vedono di noi.
Da ciò ne consegue che la nostra identità - in realtà - è rappresentata principalmente dal nostro ruolo. 
Per esemplificare il concetto prendiamo ad esempio la nostra rappresentazione di Io/figlio: noi siamo figli in relazione all'esistenza dei nostri genitori (presenti o assenti, viventi o deceduti che siano), perché senza di loro non saremmo mai figli.
In quest'ottica risulta evidente il fatto che la nostra identità esiste solo in relazione con quella di qualcun altro.
Come educatori - quindi - che tipo di rappresentazione abbiamo di noi stessi? Che tipo di "identità" presentiamo agli altri?
Siamo perennemente nel binomio identità/ruolo senza sapere che identità e ruolo - in realtà - sono strettamente connesse una all'altra.
L'educatore ha la propria identità (che deve conoscere, senza la quale non può essere "strumento" di sé stesso) ed il proprio ruolo (costituito dall'apprendimento accademico, dall'esperienza, dalla progettazione, dal rapporto con i colleghi e con l'istituzione): solo riuscendo a fondere l'una con l'altro può essere davvero Educatore.
Uno degli strumenti principali per poter affrontare questo binomio è proprio l'autobiografia: raccontare di sé a sé stessi. Il racconto di sé, la scrittura e la rilettura del proprio diario, sono uno strumento che ci permette di "conoscere come gli altri ci conoscerebbero se ci raccontassimo a loro".
Chi vuole far parte di questo esperimento?

L'educatore... primo strumento di sé stesso!

"In un contesto educativo tutti gli interventi, anche quelli che all'apparenza sembrerebbero banali e scontati, sono invece carichi di significati. Importante è che l'educatore coordini la regia educativa creando numerose opportunità di apprendimento. Non bisogna tanto considerare i saperi, quanto promuovere le condizioni per la loro conquista"
(Jerome Bruner)



Già, perché l'educatore altro non è che un facilitatore di processo. Un veicolo attraverso cui il processo educativo passa... senza poter prescindere dalla qualità dell'educatore, dalle sue caratteristiche, da sé.
L'educatore è il primo strumento che l'educatore ha a disposizione per effettuare i suoi interventi; per progettare, agire, valutare, verificare ciò che sta facendo.
L'educatore non può prescindere dalla persona, da sé... e come fa a valutare ciò che sta facendo? 
Attraverso la valutazione di sé stesso... il metodo autobiografico è uno strumento.
Chi ne sa qualcosa?
Ne parleremo nel prossimo post...

sabato 28 luglio 2012

La progettazione dei servizi e degli interventi educativi: un processo circolare

Il tema della progettazione è stato studiato, dibattuto ed ampiamente analizzato da professionisti, pedagogisti, psicologi ed educatori.
Ed è giusto che sia così perché la progettazione è una delle fasi fondamentali nella pedagogia.
Per questo vorrei dire la mia! 
Principalmente perché quasi sempre si parla di questo tema come di una fase precedente all'avvio di servizi e all'attuazione di interventi educativi, in più perché (ebbene si, lo ammetto!) mi piace dire quello che penso in merito alle cose.
Come prima cosa farei una distinzione fondamentale tra progettare un servizio educativo (una comunità per minori, un micronido, un centro estivo, un tempo famiglia... o qualsiasi altro servizio) e progettare un intervento educativo.
Un servizio educativo ha bisogno di una progettazione "preliminare" perché è fondamentale stabilire quali sono gli obiettivi che si vogliono raggiungere, che tipo di utenza accogliere, quali e quanti strumenti educativi si possono utilizzare. Ma questo significa semplicemente disegnare la cornice del setting.
Creare la cornice del setting è il momento in cui si stabilisce il contenitore all'interno del quale l'agire educativo dovrà essere orientato.
Non è però possibile progettare in maniera rigida un servizio (oltre al contenitore) in quanto gli atti educativi che vi si svolgeranno dipendono da una serie di variabili che non possono essere stabilite a priori: la tipologia e le caratteristiche individuali dei fruitori del servizio, il carattere degli operatori che vi lavoreranno, come le relazioni tra gli utenti e tra gli educatori influiranno sull'evoluzione del servizio, i progetti educativi individuali (che non si possono stabilire a priori) che si costruiranno all'interno dell'équipe.
Poiché tutte queste variabili potranno essere verificate solo successivamente all'avvio del servizio e - comunque - in itinere (perché non si tratta di variabili fisse in luoghi educativi che hanno come obiettivo l'evoluzione e il cambiamento) occorrono sempre dei momenti di verifica e di eventuale rimodulazione di alcuni aspetti della cornice del setting.
Le verifiche e gli eventuali "aggiustamenti" fanno quindi parte del processo circolare che io identifico come "progettazione": un movimento dinamico, mai terminato e sempre fondamentale.
La differenze tra la progettazione di un servizio e di un intervento educativo sta in una caratteristica fondamentale: costruire la cornice del setting di un servizio può essere definito come un "processo di pensiero in assenza di azione" (cioè un pensiero che si fa in una sorta di "laboratorio" dove l'azione in sé è momentaneamente sospesa); agire un intervento educativo presuppone invece cuna progettazione in fieri in quanto è un atto in cui pensiero e azione si svolgono quasi nello stesso momento, in un continuum incatenato dei due aspetti.
Certamente - anche nel caso di un intervento educativo - l'educatore può contare sulla cornice del setting entro cui si muove, gli obiettivi che vuole raggiungere e una serie di strumenti che ha a disposizione. Ma l'evoluzione dell'intervento in sé è un percorso assolutamente dinamico ed imprevedibile perché caratterizzato dall'interazione tra educatore ed educando. Ed evidentemente non è possibile prevedere che tipo di reazioni avrà l'educando.
Occorre quindi che l'educatore possieda una caratteristica molto importante (da tenere in costante allenamento) che è la flessibilità, pur nella fedeltà della cornice e degli obiettivi da raggiungere.
Anche in questo caso la fase di "progettazione" deve quindi intendersi come un processo circolare fatto di sollecitazioni, valutazione delle retroazione e riprogettazione (immediata) dell'interazione successiva. Un educatore che ha a che fare con un minore disagiato, con un disabile, con un tossicodipendente, con un malato psichiatrico nel momento in cui agisce il suo intervento educativo deve essere pronto a cambiare strada, strategia e strumenti in tempi molto brevi rimanendo però fisso sull'obiettivo da raggiungere e nel rispetto delle regole del setting.
Sicuramente altri "luminari" avranno già esplicitato in modo più esauriente questo aspetto della progettazione, ma - poiché nel corso della mia professione - mi confronto tutti i giorni con la difficoltà e la fatica di restare all'interno di questo complesso processo ritengo importante tenerlo sempre a mente e aprire un possibile canale di discussione di riflessione in merito.
Qualcuno ha qualcosa da aggiungere?

venerdì 27 luglio 2012

Regola numero 1 dell'educatore: essere educato. (Ovvero: ciò che non ti insegnano all'università)

Ieri mi è accaduto un fatto strano che mi ha lasciato un po' perplesso e sconcertato.
Ho scritto il mio post (come sempre), l'ho pubblicato sul blog e ne ho condiviso il link (come sempre) sulla mia pagina in un social network.
In quel social network (ovviamente uno dei più utilizzati, non c'è bisogno che dica quale) sono iscritto ad un paio di gruppi di educatori e pedagogisti.
Sempre con lo stesso intento: cercare confronto, stimoli e riflessioni sulla mia professione.
Con lo stesso obiettivo già più volte dichiarato: crescere.
Ebbene: ogni volta che pubblico un nuovo post lo linko anche in quei due gruppi, ipotizzando che possano interessare a qualcuno (come alcune volte è successo) e sperando di ricevere qualche commento o qualche nuovo spunto (come - purtroppo - poche volte è successo).
Tornando a verificare le retroazioni al mio post... sorpresa: i miei post sono scomparsi dalla pagina!
Penso ad un errore del mio pc (ormai vecchio, che qualche volta perde i colpi), ma una nuova guardatina alla pagina conferma la prima impressione.
Ipotizzo allora che il gestore della pagina non abbia gradito la mia "intrusione" e - per esserne certo - invio un messaggio chiedendo se i miei link non fossero graditi.
Un'altra successiva sbirciatina alla pagina e non vedo risposta alla mia domanda.
Lo so: sono un po' cocciuto! Infatti la mia testardaggine nel voler andare in fondo alle cose mi ha obbligato a ripostare il link.
Riapro il social network dopo un po' e che ti scopro? Che sono stato estromesso (forse è meglio dire "buttato fuori") da quel gruppo.
Senza una spiegazione, una risposta, un commento!
E sono certo che il gestore di quella pagina abbia letto la mia domanda perché - purtroppo o per fortuna - il sistema ti informa di quante e quali persone hanno visionato ciò che hai scritto.
Ecco quello che mi ha lasciato basito: il non ricevere nessuna comunicazione in merito.
Matrici culturali, paradigmi pedagogici, paradossi educativi, pragmatica comunicativa, progettazione diagnostica... tutti termini fondamentali e ultrautilizzati ma che dovrebbero appoggiarsi a delle fondamenta solide costituite dalla buona educazione.
E allora mi chiedo: come può un educatore/pedagogista (cioè colui che è specializzato nelle "scienze dell'educazione") dimenticare il concetto base della buona educazione?
Non è la didattica ma la saggezza popolare che - in questa occasione - mi è venuta in soccorso con un vecchio detto "Il figlio del calzolaio ha sempre le scarpe bucate".
Che è come dire che le colpe dei padri ricadono sempre sui figli. E a me questo non va: ognuno si assuma le proprie responsabilità.
E allora ho deciso: da oggi la mia nuova saggezza popolare ha leggermente variato il vecchio detto.
Il calzolaio - troppo spesso - ha le scarpe bucate! 

giovedì 26 luglio 2012

Chi è l'utente? La complessità sistemica negli interventi educativi.

L. ha 9 anni. Fisicamente ne dimostra almeno 13 (un colosso di 65 kg con due mani che sembrano badili) ma mentalmente solo 5 (e sono stato generoso).
Seguo il suo caso da più di quattro anni, quindi posso dire di conoscerlo abbastanza.
Ha un ritardo cognitivo definito "gravissimo" dalla diagnosi funzionale (e in questo caso non è - come normalmente succede per avere qualche ora di sostegno in più - un'esagerazione) e vive in una comunità per minori da 2 anni.
La sua famiglia... beh... il suo sistema familiare è quanto di più vicino ai casi da manuale io abbia mai incontrato nella mia professione. O meglio: quasi tutte le possibili alternative che si trovano in un manuale sul disagio sociale si concentrano nella sua famiglia. 
Immaginate tutto ciò che potrebbe venirvi in mente e gettatelo in una sola famiglia.
Una madre con un disturbo psichiatrico conclamato, in passato dedita all'uso di sostanze stupefacenti (non dipendente per fortuna, se non dall'uomo che gliele forniva).
Una sorellastra in affido.
Un fratellastro in una comunità per disabili mentali.
Una sorellastra nata da pochissimo e inserita in comunità (con la madre) non appena uscita dal reparto di neonatologia.
(Per un totale di 4 figli avuti da 3 padri differenti).
Un padre mai visto né conosciuto, "non era violento, solo quella volta che gli ho detto che aspettavo un figlio da lui mi ha preso la testa e me l'ha sbattuta sul cofano dell'auto e se n'è andato".
Uno zio con un disturbo psichiatrico che ha subito almeno un paio di TSO a causa di tentati suicidi (anche lui con 4 figli avuti da 3 madri diverse).
Un nonno sospettato di alcolismo (e certamente dedito ad un buon uso di alcol che se alcolismo non è ci si avvicina parecchio).
Una nonna con una menomazione fisica alla mano e la tendenza a voler accentrare su di sé tutte le dinamiche familiari per poterle gestire meglio (la sua frase preferita è "Stai zitto!" rivolta a qualsiasi componente del suo nucleo).
E poi innumerevoli problemi economici, sfratti esecutivi, traslochi e relativi trasferimenti di residenza, fughe di casa, episodi di violenza e di aggressività, convivenze di tutto il nucleo in "case" senza riscaldamento, con la bombola del gas (quasi) sempre vuota, con la dispensa paragonabile ai negozi polacchi del dopo guerra...
L. quindi è nato e cresciuto in un contesto familiare che - con un complimento - definirei "disadattato".
E ad un certo punto arriva l'educatore.
Che obiettivo aveva l'intervento?
Per il servizio sociale riuscire ad entrare in quel mondo e dare tutto il supporto possibile.
Per la famiglia gestire il bambino (di 5 anni) che loro tutti insieme non sapevano gestire.
E per il bambino? Boh... lui così abituato a fare tutto ciò che voleva, quando voleva, con chi voleva (si, perché già da piccolo era in grado di far girare sulle dita tutti gli adulti che aveva intorno, come un mago che gioca con le palline colorate, alla faccia del suo ritardo cognitivo!) non sapeva - ovviamente - chi e cosa facesse l'educatore.
Come si fa? Si procede per piccoli passi.
Si cerca di costruire la relazione con il bambino (e a quell'età il difficile non è farlo giocare, quanto fargli introiettare le piccole e basilari regole di educazione che nessuno mai gli ha insegnato)
Si tenta di costruire un percorso di fiducia con il nucleo familiare.
Insomma: si prendono in carico tutti, si porta sulle spalle il peso di una situazione così ingarbugliata (che - naturalmente - nel corso degli anni si è ulteriormente complicata, visto che ha portato all'inserimento in comunità) e si cerca di "educare" tutti secondo le loro possibilità di apprendimento.

L'utente (come a me non piace mai chiamarlo) non è solo il minore, ma tutto il sistema familiare. 
E con ogni individuo occorre utilizzare un linguaggio diverso, porsi degli obiettivi differenti ma progressivamente raggiungibili (grandi o piccoli che siano) tenendo sempre a mente le possibili retroazioni che ogni singolo può portare nel sistema. Bisogna anche tenere le fila di tutti i soggetti sociali coinvolti (il Comune, la scuola materna, la psicomotricista e poi la scuola elementare, gli operatori della comunità, la famiglia, il Servizio Tutela Minori, il Tribunale per i Minorenni).
Questo è il compito trasversale di un educatore sistemico: porsi come riferimento per tutti i soggetti coinvolti, che parlano delle lingue diverse (e quindi non sempre riescono a capirsi), che hanno obiettivi differenti (e non sempre tutti congruenti tra loro, pur nella bontà della specificità di ognuno) e che utilizzano strumenti disparati.
Senza però mai dimenticare che al centro sta il minore.

mercoledì 25 luglio 2012

L'educatore solitario: nuove prassi di supervisione

Il mio è un lavoro solitario, nel senso che i miei interventi educativi li svolgo in autonomia, ma è anche un lavoro che necessita di confronto, di scambio, di nuove idee e risorse.
Di solito questo compito viene svolto dalla supervisione d'équipe, questo insegnano gli accademici e questo succede normalmente nelle organizzazioni.
Io faccio incontri con gli altri educatori che lavorano "con" me (anche loro in solitaria, perché così è negli interventi domiciliari) ma - in quanto coordinatore ed educatore anziano - mi occupo principalmente di supportare loro, di stimolare loro alla ricerca di nuove idee o risorse, di facilitare il loro processo di scambio comunicativo.
Lasciando poco spazio alla supervisione sui miei casi, sui ragazzi che io seguo...
E quindi come si fa? 
Una parte della mia personale supervisione viene svolta da mia moglie ("paziente" educatrice anche lei, chi si somiglia si piglia!) ma non si deve esagerare: dopo un'intera giornata di lavoro (per entrambi) non si può passare la cena o il momento della sigaretta parlando di lavoro! Certo, lo si può fare in un momento di particolare difficoltà o di crisi. Ma questo non sempre basta.
E allora?
Allora per far quadrare il cerchio (o per far "cerchiare il quadrato", come direbbe un bravo sistemico) ci si inventa altri modi come scrivere un blog con l'obiettivo di condividere con altri professionisti e ricevere da loro supporto o stimolo,  leggere (libri, altri blog di "luminari" che magari hai conosciuto all'università, articoli), cercare nelle pieghe del tempo il contatto con gli altri educatori (sui social network - se questi non sono esclusivamente deputati a disquisire di contratti, riconoscimento degli inquadramenti, lauree universitarie parificate e non... - o nelle conversazioni quotidiane) o con i propri colleghi, partecipare (quando è possibile) a corsi di formazione esterni...
Questo processo è complesso, irto di difficoltà ma - a mio parere - deve essere percorso, altrimenti l'educatore rischia di annegare nella complessità del suo operato, di annaspare nelle vecchie prassi educative che devono con costanza essere aggiornate affinché siano al passo con i tempi (nostri, degli educandi, della società), di soccombere di fronte alla caparbietà con cui il mondo, la società e i bisogni cambiano.
Ma c'è anche un'altra possibilità (complementare) di supervisione: arrivare a casa, spegnere il cellulare (quelli che riescono a farlo, io non ho ancora imparato!), guardare in faccia la propria compagna (o compagno) e i propri figli, condividere con loro momenti di gioia e serenità e "staccare" la spina.
Tanto noi educatori un contatto con la supervisione e la formazione l'abbiamo in ogni momento e in ogni contesto.
Questione di deformazione professionale o di forma mentis?

martedì 24 luglio 2012

Un tributo alla persona, perché la malattia non abbia il sopravvento

"Chi parla è la persona non l'ammalato, ciò che la definisce non è la malattia, ma la propria storia. L'individuo rimane agganciato all'immagine di sé nel rapporto più corrispondente al proprio benessere"
(da "Il grande campo della vita" - F. Cavallari
Lindau 2011)

Non voglio essere monotematico e continuare a citare questo libro (peraltro molto bello e fonte di grandi spunti di riflessione), ma oggi è una ricorrenza: il compleanno di una cara amica.
Ed è a lei che dedico la citazione, e questa riflessione, perché deve combattere ogni giorno con la malattia ma - cosa che a mio parere più la sfianca - è obbligata a lottare per non essere definita tramite la malattia.
Questo succede troppo spesso: nel caso di malattia fisica, mentale, disagio sociale.
Anni fa (più o meno quando si prendeva il dinosauro al posto del tram) sostenendo un esame all'università scivolai su una definizione e, in una frase, definii il soggetto come "il tossicodipendente" ricevendo come risposta uno sguardo severo e accigliato del docente. Mi corressi immediatamente cambiando la mia frase con un più corretto "il soggetto affetto da tossicodipendenza" cercando di giustificarmi con il fatto che non ero solo uno studente, ma anche un operatore e quindi ero abituato ad usare termini 'poco accademici' perché facenti parte del linguaggio quotidiano.
Mi sbagliavo.
E di quell'esame ricordo solo questo aneddoto, null'altro mi è rimasto in mente. Quello è stato l'apprendimento più radicale.

Oggi difendo questo apprendimento non solo perché sono più maturo (e non uso più il dinosauro pubblico per recarmi in università) ma anche perché credo nella peculiarità della persona, dell'essere umano.
Nella mia pratica quotidiana l'insegnamento accigliato di quel docente (con il suo sguardo severo e nessuna parola in aggiunta) mi risuona costantemente nelle orecchie perché se davvero voglio entrare in una relazione autentica devo farlo con l'individuo e non con ciò che lo caratterizza come patologia, malattia, carenza, handicap o come altro lo si vuol chiamare.
La relazione educativa deve essere tra individui, tra soggetti portatori di valori e risorse, perché è attraverso queste che si può tentare di promuovere il cambiamento e migliorare il proprio stato di ben-essere. Altrimenti rischia di essere un legame sterile con un oggetto su cui è difficile intervenire.

Grazie alla mia amica che (molto più carina e accigliata di quel - non me ne voglia - arcigno docente) mi ricorda costantemente una lezione imparata tanto tempo fa.
E ovviamente auguri di buon compleanno!

lunedì 23 luglio 2012

Entrare nelle "camere" altrui

"Entrare nelle camere degli ospiti ci costringe ogni volta ad avere un rapporto con la verità più assoluta. Tutto questo non ci esime dalla fatica, non ci sottrae dal tormento, ma ci permette di imparare la vita. L'incontro con il paziente si compie come dato positivo che poi diventa esperienza e guida per il vissuto quotidiano. Ho imparato anche in prima persona a trattenere il giudizio quando sono coinvolta in una vicenda dolorosa, ciò richiede ampia cautela e percorsi non programmabili."
(da "Il grande campo della vita" - di F. Cavallari
Lindau 2011)

Ho letto questo libro qualche giorno fa, un libro che racconta di un Hospice in cui le vite dei malati terminali, dei volontari e degli operatori si incrociano.
Non voglio trattare dei malati terminali, ma ho trovato delle analogie, delle metafore e dei richiami agli interventi educativi individuali.
E il brano che ho appena citato può tranquillamente essere traslato nella pratica educativa quotidiana mia e di chi - come me - lavora in questo campo.
Ovvio, occorre non pensare agli "ospiti" ma agli "utenti" (o "ragazzi" - come preferisco chiamarli io) e le "camere" rappresentano metaforicamente la loro vita, il loro sistema familiare, le loro abitudini alle quali noi educatori accediamo.
E questo entrare è sempre connotato da fatica: di comprendere in quale luogo ci si addentra, di capire con chi e come costruire una relazione, di non dimenticare che non stiamo entrando "in camera nostra" e quindi dobbiamo sospendere le nostre abitudini, i nostri linguaggi, le nostre caratteristiche senza però rinnegarle o spogliarcene completamente. Perché sono proprio le nostre abitudini, i nostri linguaggi e le nostre caratteristiche che ci contraddistinguono e che sono il primo vero strumento educativo.
Intraprendere un percorso educativo in un contesto che non è il nostro non deve però essere connotato solo dalla fatica ma anche dalla curiosità che è l'unica vera via per cercare nuove strade, per proporre alternative, per facilitare il cambiamento.
Per lavorare nell'educativa domiciliare, dunque, non occorre avere un copione prestabilito, ma una trama flessibile che ci dia spazio al cambiamento, all'improvvisazione, al tentativo.
E attraverso il processo di facilitazione del cambiamento altrui non possiamo esimerci dal nostro cambiamento, che deve essere osservato, contestualizzato ma mai assolutizzato.
Tutto questo ovviamente non può avvenire se non in assenza di giudizio o di pre-giudizio: una gabbia che poco spazio lascia alla curiosità.
Occorre sempre ricordare che le "altrui camere" sono già arredate, abitate, vissute... l'educatore che vi ha accesso deve entrare in punta di piedi e - pur nel disordine - porre attenzione a non calpestare nulla.
Poi si cercherà di fare ordine...

domenica 22 luglio 2012

Il sapore della sconfitta: separazioni, divorzi e bellicosità varie

In Italia le separazioni e i divorzi stanno aumentando; al contempo la discussione sull'accettazione delle coppie di fatto si fa sempre più accesa; infine - già da anni peraltro - Chiesa, opinione pubblica e talk show pseudoilluminati ragionano sulla crisi dei valori famiglia.
Coppie, famiglie, nuclei, sistemi sociali... Si parla sempre di gruppi ma mai di individui.
Cosa succede ai minori in questo caos? Cosa accade e come vive il bambino (proprio quel bambino lì, il figlio di quella coppia che conosci e che si sta separando) il disfacimento del legame che univa i suoi genitori, i due adulti che per lui avrebbero dovuto essere guida, sicurezza e affetto?
Ho lavorato diverse volte con minori appartenenti alla così detta sfera delle "separazioni conflittuali" e per prima cosa sostituirei il termine "conflittuale" con il ben più calzante "bellicose". Perché di vere e proprie guerre si tratta: combattute a suon di denunce reciproche (dalle più classiche alle più fantasiose), caratterizzate da violenze fisiche e verbali delle più varie, condite di squalifiche reciproche e portate avanti a suon di colpi bassi.
E i bambini in tutto questo dove sono? Purtroppo - sempre più spesso - sono seduti in prima fila a godersi lo spettacolo.
Se sono fortunati!
Peggio accade se sono direttamente coinvolti nella guerra dei "grandi" e devono arrabattarsi a mediare la comunicazione tra i genitori o arrangiarsi a chiamare le forze dell'ordine per sedare le risse più violente o addirittura (eh si, credetemi, l'ho visto con i miei occhi) a scimmiottare i messaggi squalificanti che un genitore vuole inviare all'altro.
Purtroppo nessuno ricorda che il risultato delle guerre è sempre lo stesso: nessun vero vincitore e tanti cadaveri sul campo di battaglia!
E i cadaveri, la storia ce lo insegna, sono sempre dei più deboli. In questo caso i figli. Che escono da questi conflitti squarciati nell'animo, distrutti nella loro identità e sfiancati nel fisico e nella mente.
E perché succede questo?
Perché i "grandi" (che virgoletto non per lasciare spazio a diverse possibili età dei soggetti) dimenticano - o dimostrano di non aver mai conosciuto - le priorità dell'essere genitori.
O meglio: LA priorità dell'essere genitori.
Cioè tutelare, difendere, proteggere, educare, crescere, accudire il proprio figlio. Una creatura sprovvista degli strumenti intellettivi e logici di un adulto. Un soggetto scevro di strumenti emotivi di difesa.
E quando ad un educatore tocca il compito di intervenire in queste situazioni, per quanti risultati positivi possa raggiungere, sente già il sapore della sconfitta.
Quindi personalmente poco mi importa se le separazioni e i divorzi aumentano, non mi tange la diatriba sulle coppie di fatto, non sono interessato a sapere quali e quanti valori familiari resistono o tentennano.
Una cosa sola mi piacerebbe: che gli adulti smettessero di fare i bambini e si assumessero le loro responsabilità.
E lasciassero ai bambini la possibilità di fare i bambini.

Perché vorrei si leggesse il mio blog?


Perchè in questo blog pubblico le mie riflessioni e le mie esperienze sul campo di cui mi occupo: la Pedagogia.
Ma soprattutto perché mi piacerebbe che le riflessioni e le esperienze diventassero fonte di discussione con altre persone che condividono la mia professione e la mia passione.
Per stimolare in me nuove riflessioni ed esperienze così che io - da educatore - possa continuare ad essere anche educando, senza smettere mai di crescere e di imparare.

venerdì 20 luglio 2012

80 km, 2 caselli autostradali, 75 minuti di auto


-         Mamma, è arrivata la lettera. Devo partire. –
-         Dove vai? –
-          A Portovaltravaglia… vado a vedere sull’atlante dov’è –
Alessandro aspettava quella lettera da cinque mesi, tutti i suoi amici ne avevano ricevuta una. Era curioso, come lo si può essere a ventuno anni, ma preoccupato. La famiglia, l’università, gli amici. Doveva prendersi una pausa dal mondo che conosceva. Per quel viaggio.
-       È sul lago Maggiore mamma. Tutti i miei amici sono andati vicino, a Milano, gli basta usare la metro. E io invece… dove me ne vado? In un posto che nemmeno conosco, che devo cercare sull’atlante! –
I loro dialoghi erano sempre così: fatti di poche battute, spesso mentre mamma faceva qualcosa e spesso da una stanza con l’altra. Sua mamma doveva sempre essere in movimento: le pulizie, lavare, stirare… instancabile.
-         Stai tranquillo – disse lei. Lapidaria, concreta e in un certo qual modo anche rassicurante.

Preparare un viaggio non significa soltanto preparare le valigie, scegliere i vestiti, non dimenticare gli oggetti personali. Bisogna abituarsi al cambiamento, aprirsi al nuovo orizzonte, ricordare tutte le esperienze precedenti per rinnovarle nel nuovo viaggio.
Alessandro si preparava ogni volta così: predisponendosi a ciò che di nuovo o di diverso avrebbe trovato, scegliendo un libro o una playlist che facesse da sfondo al viaggio, con la curiosità di incontrare altre persone, altri mondi.
Le altre volte era stato diverso: i viaggi erano stati emozionanti e pieni di sorprese ma scelti,  programmati, condivisi con gli amici o con la famiglia.
Il Muro di Berlino smembrato nel 1990 leggendo “1984” di Orwell.
Sdraiato a contemplare le stelle sulla spiaggia di Finisterre parlando con gli amici di cosa ci possa essere dopo la vita terrena.
L’abazia medievale in Austria condivisa con mamma, papà e fratello.
La Casa di Anna Frank ad Amsterdam dove le misure di vivibilità erano assurde rispetto ai canoni normali.
La biciclettata fino in Polonia per rimanere deluso davanti ad un’icona minuscola in un luogo privo di spiritualità.
La carbonara cucinata in un campeggio della Spagna, condividendola con chi vi metteva sopra il ketchup.
Ma questa volta c’era qualcosa di diverso. Un viaggio solitario in un luogo sconosciuto, senza preparazione, senza meta.

-         Ci vediamo tra una settimana, credo – disse Alessandro.
-        Va bene, mi raccomando: vai piano –.
La mamma sigillava sempre così la partenza per un viaggio. “Vai piano”. Ma non si riferiva solo alla velocità di guida, pensava anche all’indole di suo figlio e “Vai piano” significava anche “Non ti ci buttare”, “Proteggiti”, “Stai attento a non farti coinvolgere troppo”. La mamma lo sapeva: suo figlio viveva ogni cosa con trasporto, con passione, buttandosi anima e corpo in ogni esperienza, in ogni situazione.

“Vai piano” ripensò Alessandro, limitandosi ad archiviarlo come la solita raccomandazione di mamma, e salì in macchina.

Due caselli, ottanta chilometri, settantacinque minuti di macchina lo separavano dal luogo.
Arrivò sul lago Maggiore alla ricerca della sua meta. Mentre percorreva una strada in salita incontrò un ragazzo e gli chiese indicazioni.
-        Ci sto andando anche io, se mi dai un passaggio ti accompagno –.
-         Sali. Mi chiamo Alessandro – .
-         Io sono Marco – rispose laconicamente il ragazzo.
Ancora poche centinaia di metri ed arrivò: un cancello elettrico verde, un parcheggio spazioso, quattro ville immerse in un parco.
-         Ciao Alessandro, benvenuto – lo accolsero porgendogli la mano – Se vieni dentro ti presento tutti –.

Un giro di presentazione veloce e il vortice cominciò: storie, nomi, volti, ruoli. Tutto girava velocemente, senza lasciare il tempo di metabolizzare. “Arriverà questa sera ed avrò il tempo di ragionare su tutto” pensò Alessandro, ma non fu così.
Arrivò la sera e il vortice continuò.
Una fuga, quattro ragazzi ubriachi che ritornano, una doccia gelata per evitare il coma etilico, gente che va, gente che viene… e la percezione che per gli altri fosse la normalità.
“Ma dove sono capitato?” ebbe appena il tempo di pensare Alessandro, prima di trovarsi a dover portare di peso un ragazzo sotto la doccia, per poi correre a verificare se un altro stesse vomitando, per poi fiondarsi a controllare che tutti fossero al loro posto, per poi tornare immediatamente alla doccia e verificare che avesse fatto effetto sui fumi dell’alcol.
Fino al tanto ricercato momento di calma e di tranquillità.
Indossare il pigiama, fumare l’ultima sigaretta della giornata in tranquillità, lavarsi i denti, sprimacciare il cuscino: erano le due del mattino quando Alessandro, esausto, poté finalmente accasciarsi in un letto tentando di riflettere su quanto gli era accaduto, su quale giostra fosse salito, su quale viaggio stesse intraprendendo suo malgrado.
Ma la stanchezza lo prese.
Poche ore di sonno.
E poi la giostra ricominciò.

-        Ragazzi cosa volete fare questa sera? Ognuno di voi dica cosa vuole fare –.
-         Io guardo la televisione – rispose Maurizio
-         Io vado in camera a studiare – disse Daniela
-         Io vado nella macchina di Ale a sentire la musica – sussurrò Marco
-         Hai chiesto ad Ale se a lui va bene? La macchina è sua, è lui a dover decidere –
-         Per me va bene –  Ale anticipò la richiesta di Marco.
-        Perché tutte le sere chiedi di metterti nella mia auto per ascoltare la musica’ – domandò Ale sedendosi in auto a fianco di Marco.
-         Non lo so. Mi sento tranquillo qui. –
-       Cosa vuol dire che ti senti tranquillo?  Potresti senza problemi  ascoltare la musica dallo stereo di camera tua. –
-      Boh… qui mi sento tranquillo. Sono solo e posso fantasticare di viaggiare. Sono su una macchina, potrei andare ovunque –
-        Che ha questa macchina di particolare? Dove vorresti andare? –
-        È la tua macchina. Tu sei come il mio fratello maggiore che mi dice cosa devo fare e io lo ascolto. Lo faccio. Anche gli altri mi dicono cosa è giusto e cosa no per il mio futuro, ma io non lo faccio. Con te è diverso. Tu me lo dici perché ci credi. –
-         E dove vorresti andare? –
-         Da nessuna parte. È qui che voglio stare. Questo è il mio posto –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quando andò a dormire Alessandro si mise a riflettere su quanto era accaduto. Marco non voleva stare in quel posto, avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì perché quel luogo per lui significava sofferenza e diversità, ma quando era in macchina si sentiva bene, si sentiva in viaggio, si sentiva di poter andare ovunque.
“Che strana cosa –  pensò Alessandro –  Marco andrebbe ovunque, scapperebbe verso qualsiasi luogo tranne questo, ma quando è in macchina starebbe fermo, per sempre. Perché solo l’idea di avere uno spazio solo per sé e da condividere solo con chi vuole lo fa stare bene.”

-     Pronto? Pronto??? – urlava Diego nella cornetta. – Mamma? Mammaaaaa??? Guarda che arrivo tardi, prendo il treno dopo! Hai capito? Hai capitoooo??? –
-          Perché urla così tanto al telefono? – chiese Alessandro
-      I suoi genitori sono sordomuti – rispose Silvia, la collega di quel giorno – vedono che il telefono squilla perché è collegato ad una luce che lampeggia ogni volta che squilla. –
-         E perché lui telefona allora? –.
-        Qualche volta risponde sua sorella. Ma con lei non parla.  – concluse Silvia.
Una volta in macchina, in viaggio verso la Stazione Nord di Laveno, Alessandro chiese a Diego perché urlava al telefono.
-        Vorrei che mi sentissero. – rispose tristemente.
-        Sono sordomuti, come fai ad aspettarti che ti sentano? –.
-      Lo so. Ma con mia sorella è diverso. Con lei leggono le labbra. La guardano in viso quando parla. Io ho bisogno di urlare, di sbattere le cose o di rompere i mobili perché mi guardino. Non mi guardano mai… -
Il resto del viaggio continuò nel silenzio.
Diego urlava, non per essere ascoltato, ma per essere guardato. E in macchina, una volta guardato anche solo di sottecchi nel retrovisore, si godeva il silenzio.
Tutta la strada in silenzio. Un lungo viaggio nel silenzio che entrambi si erano goduti.

-         Qual è il tuo vero nome? Dove sei nato e quando? – chiese Alessandro.
-         Mi chiamo Almir e sono nato in Yugoslavia. Ma non chiedermi quando, non lo so. –
-         Che vuol dire che non lo sai? – incalzò Alessandro.
-        Nel mio paese non registrano il giorno in cui sei nato, non importa a nessuno. –
-         E i tuoi genitori non te lo hanno detto? Non festeggiavi con loro il tuo compleanno? –
-       I miei genitori? Mi hanno venduto agli zingari quando ero piccolo. Ti pare che gli importasse festeggiare il mio compleanno? Erano interessati solo a quanto potevano guadagnare vendendomi… –
-         E come ci sei arrivato in Italia? –.
-         Con gli zingari. –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quando a notte fonda Alessandro si sdraiò sul letto ripensò ad Almir, ad un viaggio verso un nuovo paese con persone sconosciute, con l’angoscia di essere stato venduto. Dai propri genitori.
Forse il viaggio era stato il minore dei mali, forse Almir non si era nemmeno accorto del viaggio. O forse il viaggio era stato la sua salvezza: andare quanto più lontano possibile da chi ti ha partorito e poi venduto.
Forse quel viaggio lo aveva salvato.

-         Pronto mamma? –
-         Ciao Ale, come stai? – 
-       Bene mamma. Devo dirti una cosa. Ho deciso che questo posto mi piace. Voglio farlo diventare il mio lavoro. -
-         Sei sicuro? È passato così poco tempo. – La voce della mamma era traballante. Percepiva che la decisione era irrevocabile, come lo erano spesso le decisioni di suo figlio. Ma questa volta sperava di sbagliarsi.
-       Ho cominciato questo viaggio e lo voglio portare a termine. Passami papà… Ciao papi. Hai sentito quello che ho detto a mamma? –
-          Si Sandro. Ho sentito. Sono contento. Fai quello che devi fare. –
-          Grazie papà. –
Suo padre era sempre così: di poche parole ma molto chiaro. Sempre dalla sua parte. Forse coraggioso come lui. Forse avventato come lui.

Finalmente un giorno di riposo. Alessandro era nel suo monolocale tranquillo, godendosi il rientro dopo il pic nic di pasquetta. Il ritorno a casa era sempre fonte di gioia.
Ritornare al proprio caricabatterie da tavolo. Si, perché la sua nuova casa era poco più grande di un tavolo, ma lo ricaricava.
Suonò il citofono. Alessandro non aspettava nessuno.
-         Sono la Laura, disse una voce da bambina, sono qui sotto con Cristian e la mamma. Puoi scendere? –
-         Arrivo subito –.
Trovò i due bambini confusi tra un misto di vergogna e di sofferenza, la madre era scesa dalla macchina ma aveva lasciato il motore acceso, pronta ad un nuovo viaggio, una nuova fuga.
-      Scusi Alessando, domani devo andare a lavorare e non avrò tempo di riportarli. Ecco li ho riportati oggi. Arrivederci. – disse tutto d’un fiato la donna.
Non attese una risposta, non salutò i suoi figli, risalì velocemente in macchina e partì subito, verso una qualsiasi meta purché lontana dai propri figli.
-     Venite, saliamo in macchina e andiamo, torniamo in comunità – disse Alessandro con tono volutamente sereno ai due bimbi che si stropicciavano le mani.
Dopo aver messo a dormire i due bambini, una volta che il sonno li aveva finalmente avvolti, si mise a leggere un libro.
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quella volta non aveva voglia di riflettere e di analizzare quanto accaduto. Quella volta provava solo una gran rabbia.

-      Alessandro, voglio andarmene da qui. Se non me ne vado subito impazzisco. – disse fermamente Valerio.
-      E dove vuoi andare? –.
-      Non lo so. L’importante è che io me ne vada. –
-      Ma… io sarò preoccupato per te. Vorrei sapere dove vai e cosa farai. –
-     So che sarai preoccupato. Ma io devo partire. Ho passato qui quasi tutta la mia vita. E non ce la faccio più. Ho bisogno di andare altrove. – 
-       Fammi sapere almeno quando sarai arrivato –
-       Lo farò. – rispose con un mezzo sorriso Valerio.
Il viaggio di Valerio è un viaggio lungo, forse senza ritorno, alla ricerca di sé stesso e delle proprie origini. Alla ricerca di una motivazione per la malattia mentale di sua madre, alla scoperta di un padre violento che ha avuto l’ardire di morire prima che lui potesse dirgli tutto ciò che pensava, alla ricerca di sé stesso.
“Buon viaggio” gli augurò mentalmente Alessandro.
“Speriamo davvero che sia buono…”

-   Allora Thomas, ascoltami bene. Questo è un nuovo progetto. Una delle attività del laboratorio autobiografico è il racconto del proprio viaggio, tutto ciò che hai fatto da quando sei partito da casa a quando sei arrivato in Italia. È chiaro Thomas? –.
-        Dovrò raccontare tutto io o mi farai delle domande tu? –.
-     Ti farò delle domande io, stai tranquillo. Dobbiamo ripercorrere il tuo viaggio dalla Romania all’Italia, con quale mezzo sei partito? –
-         Con la macchina –
-        E come li hai salutati mamma e papà? –
-        Non li ho salutati. Sono salito in macchina e basta. –
-        Non li hai salutati? Nemmeno quando sei salito in macchina? –
-         No. Non mi sono voltato indietro per guardarli. Sono salito in macchina e ho pensato “Andiamo!” –
Il resto del racconto aveva meno importanza per Alessandro. Le emozioni, le sensazioni, le paure provate durante il viaggio erano state tante: i colori, i suoni, le strade, i palazzi e le grandi città così differenti tra l’Italia e la Romania, la vista del mare.
Alessandro di quel viaggio aveva colto l’importanza di quell’”Andiamo”, lo aveva sentito come lapidario, come atto del coraggio e della sofferenza di Thomas.
“Andiamo. Subito. Prima che cambi idea”.

-         Che lavoro faceva tuo padre? – chiese Alessandro.
-        Capo ufficio in una fabbrica di caffè – rispose Iliass.
-        In Marocco quanto guadagna un capo ufficio? –
-         Boh… non lo so. –
-         Di più o di meno di un muratore? –
-    Molto di più. Fai conto che noi abitavamo sul Belvedere, una casa singola con giardino. Mia sorella fa l’università e io ho fatto una scuola superiore privata. Solo i primi due anni però –.
-       E allora perché sei venuto in Italia? Perché hai affrontato un viaggio così difficile e pericoloso se non ne avevi bisogno? Perché sei stato chiuso in un camion per quasi ventiquattro ore? –
-          Lo facevano tutti i miei amici. Ho deciso di farlo anche io. –
-          Come sarebbe stata la tua vita se fossi rimasto al tuo paese? –
-         Sicuramente meno faticosa. Ma non mi pento. In questo viaggio ho imparato molte cose e conosciuto molte persone. Se anche dovessi ritornare sarei felice. –
Quando Iliass venne rimpatriato Alessandro era sereno. Non aveva sofferto una decisione altrui che decretava il suo ritorno a casa. Aveva affrontato bene il viaggio. Aveva scoperto un mondo diverso e se lo portava dentro ritornando al suo mondo.

Alessandro chiese a Ahmed se fosse partito dalla Libia.
-         Si –.
-         E quanto è durato il viaggio?  –
-         Quattro giorni –
-         In quaranta su un gommone per quattro giorni?? –
-      Quattro giorni e quattro notti. Con il mare in tempesta. Avevo con me solo una bottiglietta da mezzo litro d’acqua. E il passaporto nascosto nelle mutande, rinchiuso in un sacchetto di plastica perché non si bagnasse. Vicino a me un uomo vomitava, altri uomini piangevano, una donna incinta ha perso i sensi. Un ragazzo è caduto in mare. Era buio e nessuno ha allungato il braccio per riportarlo sul gommone. –
-          Tu cosa hai fatto per tutto quel tempo? –
-      Ho continuato solo a sperare di non morire. Ti giuro che ho avuto paura di morire. Ero quasi sicuro di morire. Quando sono arrivato a riva, in Italia, ho baciato la terra. Non riuscivo più a rialzarmi. Non ero felice di essere arrivato in Italia. Ho solo pensato “Non sono morto”. –
-           In quanti siete arrivati in Italia? –
-           Credo diciassette. Credo. –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quella sera Alessandro non ripensò ai ventitré che non ce l’avevano fatta, ai due mesi di carcere che Ahmed aveva passato in Libia perché non aveva il permesso di soggiorno, alle successive difficoltà che aveva affrontato per il viaggio da Lampedusa a Milano o a ciò che aveva lasciato a casa.
Riuscì a pensare soltanto al ragazzo caduto in mare, e alla disperazione di quelli che gli stavano intorno che non erano nemmeno riusciti a muoversi per aiutarlo.
Un viaggio della speranza si era trasformato in un viaggio della morte.

-         Robert, a quanti anni sei partito dall’Afghanistan? – .
-       A undici anni circa, nel nostro paese non sappiamo esattamente quanti anni abbiamo. Non esiste un ufficio anagrafe. –
-         E sei arrivato a sedici… È durato così tanto il tuo viaggio per l’Italia? –
-     Non sapevo che sarei arrivato in Italia. Sono partito dal mio paese perché là c’è la guerra e non sai se il giorno dopo ti sveglierai oppure no. Non sapevo dove sarei arrivato. Sono stato due anni in Iran, un po’ in Pakistan, due anni in Turchia e un anno in Grecia. In ogni paese cercavo lavoro e cercavo di guadagnare soldi. Poi quando mi sentivo in pericolo partivo. –
-         Ti piace l’Italia?  –
-         Non lo so. Non la conosco abbastanza ma qui, per la prima volta nella mia vita, non ho paura. Per la prima volta nella mia vita vado a dormire sereno, spengo la luce e sono certo che domani mattina ti troverò sveglio e berrai il caffè con me. –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: qualche volta andare a dormire aspettando con gioia il caffè del giorno successivo permette bei sogni, o almeno nessun brutto sogno, a tutti.

Il viaggio di Alessandro era cominciato a ventun anni e sarebbe dovuto durare un solo anno. Doveva portarlo ad ottanta chilometri di distanza da casa sua, solo due caselli di autostrada, settantacinque minuti di macchina ad una velocità media.
A trentanove anni Alessandro era ancora in viaggio.
Nel suo percorso aveva conosciuto l’Italia della povertà, della sofferenza, della violenza. E poi fuori dall’Italia aveva conosciuto l’Albania, il Marocco, l’Egitto, l’Afghanistan, la Tunisia, il Cile, l’Argentina, l’Uzbekistan...
Ma soprattutto aveva conosciuto le persone che arrivavano da quei paesi e che lo avevano accompagnato.
Ottanta chilometri, due caselli autostradali, settantacinque minuti di auto. Mai un viaggio era stato così lungo e così faticoso ma anche così entusiasmante e appassionato.
Attraverso gli altri, Alessandro aveva viaggiato dentro sé stesso. Aveva appreso culture, aveva conosciuto e condiviso la sofferenza, aveva vissuto la gioia della scoperta.
Ricorda ancora oggi la raccomandazione di sua madre.
“Vai piano”.

Non so mamma se andrò piano. So che andrò ancora, perché il viaggio non è finito. Le tappe saranno ancora molte. La stanchezza nelle ossa verrà mitigata dalle esperienze che farò. Non so quando finirà il mio cammino, mamma. Come diceva un saggio “L’importante non è la meta, ma il viaggio”. Secondo me, mamma, l’importante sono le persone che ti accompagnano.
Loro sono il mio viaggio.