mercoledì 29 ottobre 2014

Io sono DSA

"Allora ragazzi, i DSA alzino la mano che organizziamo le interrogazioni programmate."

"Prof io sono DSA, non può interrogarmi a sorpresa."

"I ragazzi DSA possono scaricare le mappe di fisica da sito."

"Prof alle medie ero DSA. Perché non posso usare la calcolatrice? Lei deve farmela usare!"

"Come faccio a sapere se sono DSA? Anche io voglio fare le interrogazioni programmate come i miei compagni..."

DSA, DVA, dislessico, discalculico, disortografico, iperattivo, BES... dove sono finito Marco, Sofia, Luca, Martina e tutti i loro compagni?
Per questa nuova scuola sembrano non esistere più, confusi dietro ad una etichetta che gli è stata appiccicata e che non possono più togliersi.
O che non vogliono più togliersi, perché avere un disturbo specifico dell'apprendimento oggi può essere un vantaggio. Un dito dietro cui nascondersi per non mostrare la poca voglia di studiare, di faticare nel processo di apprendimento.


Le frasi citate poco sopra (udite dalle mie povere orecchie di educatore alla ricerca di peculiarità individuali) sono state espresse con naturalezza, con provocazione alcune volte.
Ma mai con vergogna o imbarazzo.
Intendiamoci: avere un disturbo dell'apprendimento non è una colpa e come tale non deve essere vissuto.
Però il disturbo non può arrivare prima della persona o - addirittura - al suo posto!
Marco può essere dislessico, Sofia discalculica, Luca disortografico, Martina iperattiva... ma restano dei ragazzi che oltre al loro disturbo hanno altro.
Risorse, caratteri, interessi, paure, certezze! Questo e tanto altro.

Approfondire il fenomeno è giusto, ricercare nuove strategie e modalità di studio è doveroso, capire come offrire a tutti pari opportunità di apprendimento è obbligatorio.
Ma non a discapito della persona e del suo essere globale. 
Non sostituendo la problematicità con l'educazione.
Non mettendo in disparte l'approccio sistemico per semplificare ed uniformare gli interventi.

Perché categorizzare può essere utile ma etichettare diventa pericoloso.

Io questa lezione l'ho imparata anni fa quando, durante un esame universitario utilizzando un lessico professionale troppo gergale, parlai di "tossicodipendenti" e venni fermato da docente che, con sguardo truce, mi chiese: "Scusi chi?"
Solo correggendomi con un "Persone affette da tossicodipendenza" riuscii far cambiare espressione al docente e superare un esame che, sebbene brillante, aveva rischiato di essere inficiato da quella disattenzione.


Chi insegna questa lezione ai nuovi studenti?
Quale scuola semplifica, permettendo agli studenti stessi di semplificare, le persone?

mercoledì 22 ottobre 2014

La morsa: rischio d'impresa vs qualità professionale

Sembra di essere sempre stretti in una morsa.

Il privato sociale lotta per la sopravvivenza, rimbalzando tra una commessa e l'altra, partecipando a bandi "con offerta al ribasso", accettando incarichi che possono terminare dall'oggi al domani per le intemperanze degli utenti, accontentandosi di pacchetti ore risicati e che non contemplano (quasi mai, ma il quasi è d'obbligo) nemmeno un minuto retribuito per tutto il lavoro che non è a diretto contatto con l'utente.
Eppure gli educatori si lamentano, aprono lunghi thread di discussione sui social in cui demonizzano le cooperative perché non pagano abbastanza, non pagano regolarmente, non assumono a tempo indeterminato...

Gli Enti Pubblici - di contro - richiedono operatori di qualità, che sappiano affrontare situazioni complesse con professionalità e competenza. Doti che si acquisiscono solo con un adeguato titolo di studio e anni di esperienza. Però offrono (e non possono fare altrimenti, purtroppo, perché strangolati dai continui tagli economici imposti dall'alto) bandi "con offerta al ribasso", incarichi che possono terminare dall'oggi al domani per le intemperanze degli utenti, pacchetti ore risicati e che non contemplano (quasi mai, ma il quasi è d'obbligo) nemmeno un minuto retribuito per tutto il lavoro che non è a diretto contatto con l'utente.
Perché non possono permettersi di assumere educatori visto che costerebbero troppo e "un Ente pubblico non può assumersi il rischio d'impresa perché impresa non è".
E le cooperative devono accettare per sopravvivere.

Le "più furbette" assumono operatori senza un titolo adeguato o comunque inquadrati ad un livello inferiore a quello che spetterebbe loro dando ragione agli operatori che si lamentano di essere sfruttati.
Le "più corrette" accettano ciò che il mercato offre (cercando di salvaguardare la qualità professionale e la dignità individuale del lavoratore) dando così ragione a chi, nelle stanze dei bottoni, gioca al ribasso in un settore così delicato come il disagio sociale.

Come recita il detto Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.

Chi perde in questa situazione?
Gli Enti Pubblici che non sempre riescono ad avere la qualità professionale che meriterebbero in un settore così delicato.
Le Cooperative e le Associazioni che faticano a sopravvivere perché troppo spesso si trovano costrette a scegliere tra il non poter offrire adeguata qualità (e quindi perdere posizione sul mercato) o il dover accettare vincoli che le strozzano (e quindi vedere minata quotidianamente la loro sopravvivenza).
Gli operatori (educatori in primis ma anche tutti quegli operatori sociali che ruotano attorno) perché non riescono ad avere condizioni lavorative tali da poter operare con la giusta tranquillità ottenendo il corretto corrispettivo (rinunciando talvolta ad una qualità della vita a cui avrebbero pieno diritto)
E gli utenti? Beh... in tutto questo discorso non si è ancora accennato agli utenti finali perché dovrebbe essere implicito l'obiettivo del loro benessere.

Quindi non si ha né la botte piena, né la moglie ubriaca...

Sembra di essere sempre stretti in una morsa.

E come si può uscire da questa empasse?
Restituendo valore al lavoro educativo come azione fondante dello sviluppo del benessere e della prevenzione del disagio sociale.
Restituendo dignità professionale e personale agli educatori che, come tutte le persone con cui lavorano, hanno diritto al benessere.
Restituendo agli operatori sociali le risorse necessarie per affrontare queste problematiche.

Cosa c'è di pedagogico in questo post?
La risposta non è complicata se si considera il mondo dell'educazione come un sistema complesso, non solo connotato da educatori, educandi ed interventi educativi.
Chi si ferma a questo primo livello, senza contemplare che questo è solo un aspetto di una complessità composta da molteplici attori, rischia di non avere una corretta visione del tutto.
Pensare all'educazione senza connetterla alla società, all'economia e alla politica non ci permetterebbe di affrontarla in modo congruente e professionale.

Dimenticando quindi la mission.