NON APRITE QUELLA PORTA
La storia di "Francesco"
Vi
racconto il percorso terapeutico di Francesco, 30 anni, segnalatomi dal Ser.t.
come utente tossicodipendente da eroina e cocaina.
Ricevo una relazione dalla
quale emerge un profilo abbastanza comune per l'ambito in cui lavoro: percorso
scolastico interrotto, problemi psichiatrici, difficolta a mantenere un lavoro,
qualche precedente penale per reati di poco conto e un rapporto simbiotico con
la madre.
Viene descritto come un caso disperato, gli stessi operatori del
Ser.t. non credono che riusciremo nemmeno a farlo entrare nella nostra struttura,
a fargli varcare quella porta.
Lo contatto e fissiamo un primo appuntamento.
Il giorno dell'incontro previsto, mi telefona e chiede di rinviarlo. Incomincio
a pensare che gli operatori del Ser.T. abbiano ragione, ma certo non perdo le
speranze....quanti sono stati gli appuntamenti saltati nel corso del mio lavoro?
Neanche si contano!
Credo che sia passato circa un mese prima di riuscire ad
incontrarlo, in questo periodo, lui chiamava e rinviava, chiamava e nuovamente
rinviava ma ...chiamava! e questo mi sembrava importante.
Anche se non si
presentava, aveva cura di avvisarmi e, dal mio punto di vista, un "embrione" di
relazione c'era. Penso a quel meraviglioso trattato di Dela Ranci sulla
"Relazione a legame debole".
C'era un sottile filo tra me e lui; perché
spezzarlo? Certo, ammetto che qualche volta avrei avuto voglia di dirgli:" Senti
caro, quando sei pronto chiama! Io non ho tempo da perdere".
Ma non l'ho mai
fatto.
Anche l'equipe mi suggeriva di " sganciarlo" e, nei momenti informali,
mi si prendeva in giro per questa sorta di mio " accanimento terapeutico". Lo
chiamavano " il mio Francesco"; era chiaro che dietro a quel "mio" ci stava un
neon lampeggiante che diceva: "Attenzione Anna, ricorda di mantenere la giusta
distanza emotiva".
ln effetti il mio era una sorta di maternage, ma ne ero
assolutamente consapevole e non vedevo alternativa pensando alla simbiosi con
la madre.
Finalmente Francesco si presenta: timido, impaurito, ansioso,
agitato; mi guarda con gli occhi di un bambino. Iniziamo a conoscerci, cerco di
fargli sentire che qui nessuno lo giudica, cerco di capire cosa posso fare per
aiutarlo e ne parlo con lui. Francesco non ce la fa più, è intossicato ed è
stanco, esausto di questa vita. Ha problemi psichiatrici ma non riesce a curarsi
a causa della discontinuità con cui assume i farmaci.
Il suo disagio è
profondo, si coglie, lo sento sulla mia pelle; Francesco rifiuta qualsiasi
programma residenziale perché non vuole separarsi dalla madre e uscire dal suo "
nido familiare". E' per questo che è qui, perché la mia è una struttura diurna
che gli permetterebbe di tornare a casa la sera.
Si pone un problema grosso:
io non lo posso accogliere se non ha almeno un mese di astensione da sostanze
illecite.
Gli propongo di entrare nella nostra Pronta Accoglienza: si tratta
di un percorso breve, 90 giorni per il dimezzamento e l'inserimento della
terapia sostitutiva (metadone).
Francesco rifiuta categoricamente, si
arrabbia con me perché l'ho deluso, non gli ho dato quello che lui voleva, non
ho capito le sue esigenze.
Esce dalla mia stanza sbattendo la porta ed
imprecando.
Rimango sola, in silenzio, aspetto che il cuore smetta di battere
così forte; non è la prima volta che accade, quella porta è stata sbattuta
un'infinità di volte e ha ricevuto anche qualche pugno; "Dovrei essere
abituata", penso, invece accade sempre che mi agito davanti a tanta
aggressività.
In quei secondi di blackout emotivo penso a cose idiote,
penso a quanto resistente debba essere quella porta! Poi, comincio a riflettere
con più serenità e realizzo che quel sottile filo si è spezzato.
Sono
dispiaciuta ma relativamente tranquilla, da un lato credo di avergli mostrato
disponibilità ad aiutarlo senza prestarmi al gioco manipolatorio, dall'altro mi
si insinua il dubbio che i miei colleghi avessero un po' di ragione...
Passa
un po' di tempo, ora non ricordo quanto, e Francesco mi telefona, chiede un nuovo
appuntamento e, durante questo secondo incontro, mi comunica di voler provare a
mantenere l'astinenza stando a casa. Impresa ardua per non dire impossibile; io
glielo dico molto apertamente ma decido di lasciargli la possibilità di fare
questo tentativo perché sono convinta che difficilmente si potrà fidare di me se
non gli do l'opportunità di provare. Stabiliamo di vederci settimanalmente per
verificare il raggiungimento dell'obiettivo che si è posto.
Nel frattempo la
relazione si costruisce, Francesco inizia a fidarsi di me, si racconta, mi parla
di sé e ben presto arriva alla prevedibile conclusione che da solo non ce la
può fare. Obiettivo raggiunto! Il mio, non il suo.
Tutto ciò è avvenuto
nell'arco di tre mesi circa.
Naturalmente l'equipe non condivide
completamente ma mi lascia agire, ovviamente i colleghi non mi risparmiano
battute ed io sto al gioco, per fortuna ho un gruppo di colleghi che ama
scherzare, l'ironia è un meraviglioso metodo per alleggerirci dalla pesantezza
del nostro lavoro.
I colloqui continuano nel tentativo di fargli accettare
questi 90 giorni che, ai suoi occhi, appaiono come una condanna all'ergastolo.
Al termine di ogni incontro Francesco esce più sereno, sollevato, ed io,
invece, sento la pesantezza della sua condizione e delle sue problematiche.
Bene, volete sapere quanto tempo è passato perché si decidesse ad entrare?
Un anno! Un anno di colloqui.
Francesco poi ha portato avanti il percorso
nel nostro centro, ovviamente l'ho voluto seguire io, e l'ha concluso
positivamente.
Ebbene, sono passati più di 10 anni da quella porta
sbattuta, e in tutto questo tempo Francesco è sempre stato bene, si è sposato,
lavora stabilmente e ha una splendida bambina.
Ecco, credo che la chiave sia
stata il rispetto dei tempi, dei suoi tempi.
L'aver accettato di camminare
insieme a lui, cercando di sollecitarlo ma senza forzarlo, accettando che
spostasse la sua dipendenza dalle sostanze alla dipendenza dalla struttura, in
particolare da me, per poi accompagnarlo verso una maggiore autonomia. Ora ha
una "mamma-moglie", ma va bene così. Il loro rapporto funziona in questo modo da
parecchi anni ormai.
Adesso i miei colleghi non scherzano più su di
lui.
Ora lo posso fare io, lo chiamo " il mio Francesco" sapendo che dietro
quel " mio" ci sta solo un semplice sentimento di affetto.
Ecco la prima (e spero non ultima!) delle vostre storie.
Non voglio dilungarmi in ringraziamenti ad Anna, ma sicuramente voglio fare un plauso al suo coraggio. Che non è la prima volta che mi dimostra!
L'oggetto della sua mail è: "Questa è una storia. Non so se è tanto interessante da pubblicarla, ma te la mando. E la lascio nelle tue mani".
Questo per me è un regalo: mi racconta una storia e la lascia nelle mie mani. Con una sorta di implicita dichiarazione: fanne quello che vuoi.
E io la pubblico.
Intanto perché la ritengo interessante, e poi perché mi suggerisce stimoli su cui ragionare.
Una prima premessa: la storia l'ho letta così come la leggete voi. Contestualizzata come Anna ha deciso di contestualizzarla. Non ho altre informazioni né ho posto domande di appronfomento.
Per scelta.
Perché la storia che Anna ha scritto l'ha vissuta solo lei, e nessuna domanda può farla diventare mia.
Scelgo quindi di affrontarla così come mi è stata consegnata, nell'ottica della mia visione auto/eterobiografica.
L'autrice ovviamente si deve sentire libera di aggiungere/togliere/specificare tutto quello che vuole.
Di una cosa deve essere sicura: quella che io commento non sarà più la "sua" storia, ma "una" storia. E la invito a leggere i miei commenti in questo modo: come se fosse la storia di un altro. Anche se so quanto possa essere difficile.
Due sono gli aspetti che mi colpiscono in questo racconto.
Il primo è il ruolo dell'équipe: vi si accenna solo in termini di "dissentono" e di "mi prendono in giro". Leggo, tra le righe, un sorta di solitudine dell'operatore, che prova il coraggio di affrontare una difficoltà ma non sente l'appoggio della sua équipe. Né un accenno di solidarietà, né un suggerimento costruttivo... Solo ironia. Certo l'ironia "nei momenti informali" è un ottimo strumento, perché aiuta gli educatori ad affrontare più serenamente il proprio lavoro. Però non si percepisce (io non percepisco) altro. Sostegno, empatia, supporto...
Ci vuole coraggio (ecco Anna: torna il tema di fondo!) a portare avanti una situazione così difficile in solitudine. Come spesso capita a tanti educatori.
Il secondo aspetto che mi colpisce molto è il concetto di autonomia. Esattamente come me, Anna (e spero anche la sua équipe) vive l'autonomia come "la diversificazione delle dipendenze".
Si tratta di una visione non comune che ho già trattato in altri post precedenti a questo.
Normalmente l'autonomia viene vissuta come "la capacità di fare le cose da solo", in autonomia appunto.
Ma nessuno "fa tutto da solo".
Diventare autonomi significa semplicemente, secondo me, essere consapevoli di quanti e quali gradi di dipendenza condizionano la nostra vita.
Se devo comprare un'auto nuova mi confronto con mio padre (che ne capisce) e con i miei amici.
Se devo intraprendere una nuova avventura lavorativa ne parlo con mia moglie (con la quale devo condividere l'onere della gestione economica della famiglia).
Se mi sento in difficoltà in una situazione cerco il confronto con qualcuno che può consigliarmi, per esperienze precedenti o per similitudini di visione della vita.
Questi sono livelli di dipendenza: più dipendenze (consapevoli) abbiamo nella nostra vita e più siamo autonomi. Perché possiamo scegliere a quale soggetto di dipendenza possiamo relazionarci.
L'autonomia - quindi - è la libertà di scegliere da chi dipendere in ogni situazione.
Non so se Anna gradirà la lettura (semplicistica, certo, perché vorrei che altri aggiungessero ulteriori livelli di ragionamento, migliori rispetto al mio) che ho dato alla sua storia (perché è e rimane la sua), ma la invito a vivere questa restituzione semplicemente per quello che è: quando racconti una storia, il tuo ascoltatore la vive soggettivamente, secondo i suoi pregiudizi. E te la restituisce. Offrendoti la possibilità di rileggerla in modo meno soggettivo, più completo.
Grazie Anna per il tuo dono.
Spero che altri seguiranno la tua generosità e mi faranno altri regali.