domenica 28 luglio 2013

Mal-Educazione Automobilistica


Il rientro dalle vacanze, si sa, è sempre difficoltoso per tutti e per un mucchio di motivi.
  1. Se hai finito le vacanze significa che devi tornare al lavoro... e questo già di per sé sarebbe sufficiente per trasformarti in una scimmia urlatrice...
  2. Come se non bastasse devi fare i conti con il fatto che hai passato un lungo (beh, lungo... diciamo un paio di settimane) periodo di tempo esclusivamente con la tua famiglia, cosa che succede solo in vacanza senza le interferenze della vita quotidiana, e devi metabolizzare le lacrime della tua cucciola mentre ti dice "Papà, io non voglio tornare a casa...".
  3. Sei anche riuscito a dedicare del tempo a te stesso leggendo, scrivendo o semplicemente nulla-facendo in spiaggia.
  4. Infine se il viaggio d'andata profuma già di vacanza ed è un piacere affrontarlo, quello di ritorno ha una puzza orripilante.
Tutto questo senza aggiungere le eventuali complicanze...
Il caldo torrido.
Il traffico bestiale.
Le code chilometriche.

Poi ti ritrovi in fila davanti al casello e l'unico pensiero che hai in testa guardandoti intorno è che tutti i maleducati del mondo si sono concentrati lì. Quasi fosse un flash mob. 
Ecco la scena.
Ci sono un mucchio di autoveicoli, ma le regole su come incolonnarsi a seconda della tipologia di pagamento sono visibili e comprensibili già da chilometri, prima ancora che la fila si formi.
Tu scegli la tua corsia, ti metti in fila e pazientemente aspetti.
Dopo qualche minuto si scatena l'inferno!
Le auto impazzite arrivano e si infilano in ogni pertugio vuoto che riescono a trovare, a prescindere dalla tipologia di pagamento segnalata.
Poi cercano tutte di raggiungere la loro meta, anche se si trova in un'altra coda o due/tre/quattro colonne più in là. Oppure provano ad abbreviare i tempi di attesa cambiando continuamente fila. 
Il tutto senza nessun rispetto per le regole della strada o delle persone che stanno loro intorno.

Ecco perché parlo di Mal-Educazione.
Intanto se stai guidando un autoveicolo significa che hai frequentato la scuola guida e sei quindi stato Educato alle regole della strada. 
Quindi non puoi essere In-Educato.
Mi rifiuto di credere che tutte le persone presenti non guidassero da anni.
Non posso allora classificarli come Dis-Educati.
Restano allora solo Mal-Educati.

Mentre la scimmia urlatrice che c'è in me esprimeva tutto il suo disappunto per la situazione (e dopo 5 ore e mezza di viaggio credo che qualsiasi scimmia diventerebbe urlatrice, anche una afona!) la mia parte di cervello deputata al ritorno alla normalità professionale ha cercato di osservare la situazione da un punto di vista pedagogico.

Ma le urla della scimmia e il gran caldo hanno evitato che la metafora di un mondo senza regole diventasse il punto 5 dell'elenco di ciò che rende difficoltoso il rientro dalle vacanze.

In fondo non ero ancora arrivato a casa.
La vacanza non era ancora ufficialmente terminata.

giovedì 25 luglio 2013

Autonomia allo specchio.

- Papà, posso andare alla roulotte della mia amica? - 
- Si, però torna qui tra mezz'ora che poi andiamo in spiaggia... -
- Va bene. -
Passa mezz'ora e la bimba non si vede.
Trascorrono trentacinque minuti e della cucciola nemmeno l'ombra.
Il papà comincia a girare per il campeggio alla ricerca della sua pargola. 
"Siamo in un luogo chiuso, protetto." Comincia a pensare tra sé e sé. "Non può esserle successo nulla. Solo a sette anni non ha la cognizione del tempo... o si sarà persa via con la sua amica a giocare..."
Passano altri cinque lunghissimi minuti durante i quali il padre comincia a sudare freddo e ad allungare il passo percorrendo affannosamente tutte le stradine del villaggio-vacanze in cui si trova. Nella sua mente cominciano ad affacciarsi immagini di rapimenti, orchi cattivi, troupe televisive e ricerche con gli elicotteri.
Sta quasi pensando di abdicare alla sua immagine di "padre responsabile" e chiedere alla signorina della reception di chiamare al microfono la sua piccola.
Magari con un tono perentorio che la faccia arrivare più in fretta.
Suda, ma non è più solo il calore di un'afosa giornata estiva.
Poi la bimba emerge da uno dei vialetti, tutta sorridente.
- Andiamo al mare papà? -
La sua naturalezza è quasi sconcertante.
- Certo. - risponde lui, nascondendo l'ansia dietro ad un gran sorriso.


Storie di ordinaria autonomia. 
Racconti di esperienze protette propedeutiche ad un processo di crescita e di apprendimento.
Tradotto: una bimba di sette anni che sgomita per diventare grande e un padre-educatore che le offre la possibilità di sperimentarsi senza correre pericoli. Consapevole che "questo calice deve passare".
Ma a quale costo?
Il processo di autonomia implica una diversificazione delle dipendenze ed è corretto che le esperienze possano essere effettuate in un ambiente protetto, che permetta il distacco senza il rischio correre alcun pericolo e con la possibilità di tornare al porto sicuro degli affetti familiari senza traumi. 
Così che "l'elastico della dipendenza" diventi gradualmente più lungo.

Tutto giusto, tutto corretto.
Ma di chi stiamo parlando?
Chi è il soggetto in questo caso? Chi sta sperimentando il distacco?
Generalmente si guarda a questo processo tenendo il focus sul bambino, sul suo processo di graduale distacco - in nome dell'autonomia - dagli adulti di riferimento.

Ma proviamo a ribaltare la situazione.

Rileggiamo la narrazione dell'esperienza tenendo al centro del nostro pensiero un altro soggetto che sta testando una nuova situazione educativa propedeutica ad un processo di crescita.
Facciamo finta per un attimo che il soggetto sia il padre.
Cambia la situazione? In che cosa?

Sarà che mi ci sono trovato in mezzo... sarà che proprio oggi mi è stato ricordato che in educazione la prassi e la teoria hanno la stessa valenza (e - anzi - sono legate in modo indissolubile come due entità che si alimentano reciprocamente)... sarà che sono in vacanza e quindi il tempo delle riflessioni non è inficiato dalla frenesia della quotidianità...

...ma...

Come educatore sono consapevole di quanto la valenza di una sperimentazione di autonomia come quella descritta sia fondamentale nel processo di crescita di mia figlia.
Come padre ho vissuto momenti di vero terrore quando non avevo il pieno (per come lo intendo io!) controllo della situazione.
La difficoltà è sempre trovare un equilibrio tra il mio ruolo educativo e il mio essere un educatore del terzo tipo.
Però nell'ottica di una "circolarità dell'educazione come un qualcosa che nasce in un modo e nel vortice del quotidiano si trasforma, tornando ad essere altro al punto di origine, donando nuove esperienze e così nuovi punti di partenza" [cit. Il Piccolo Doge in un dialogo pedagogico su Facebook] oggi ho re-imparato che l'autonomia è un processo educativo non lineare, ma circolare. Reciproco, oserei dire!

In questa situazione è stato il padre che ha sperimentato la "diversificazione delle dipendenze" sulla propria pelle. 
Un padre che non riesce ad accorgersi che deve diventare lui stesso autonomo dalla cosa più importante della sua vita forse non sta adempiendo al meglio il suo ruolo.

I nostri figli si staccheranno da noi, a prescindere dalla nostra volontà.
Noi saremo in grado di separarci da loro quanto basta per sopravvivere?
Sapremo diventare autonomi?

mercoledì 17 luglio 2013

trecentosessantacinquesimo giorno


Oggi è il trecentosessantacinquesimo giorno di vita di questo blog. 
Del mio blog.
Ho cominciato un anno fa scrivendo il mio primo post inconsapevole di quello a cui sarei andato incontro.

Avevo voglia di raccontare, sentivo il bisogno di condividere pensieri ed esperienze, speravo che il processo di scrittura mi avrebbe aiutato nel mio percorso di ricerca di nuovi significati.
Ma mai avrei immaginato di vivere un'esperienza come questa e con le evoluzioni che sono inaspettatamente arrivate.
Ho pubblicato 132 post, ho ricevuto 250 commenti, ho avuto 44371 clic tra visualizzazioni e condivisioni.

Ma non sono solo i numeri gli aspetti significativi di questa esperienza.

Perché in primo luogo - attraverso questo blog - mi sono esposto. Sono uscito dal comodo nido pedagogico in cui mi ero accoccolato e mi sono sperimentato nel mondo dei grandi.
Già. 
Perché un anno fa ero un "bravo educatore" (così definito non da me, ovviamente) che nel suo lavoro ci metteva anima e corpo ma che - in fondo in fondo - navigava nelle sicure acque del conosciuto.
Scrivere e pubblicare in rete ha significato, in primo luogo, confrontarsi con la paura di non essere letto.
Credo sia proprio questo il primo scoglio da superare quando si vuole scrivere, per professione o per diletto che sia, evitando di lasciare nel cassetto la propria produzione.
Si scrive perché si spera che gli altri ti leggano. 
Questo è il primo step.
Il secondo è conseguente ma non meno importante.
Scrivere e pubblicare (nel web o altrove) ed essere letti porta inevitabilmente a doversi confrontare con le critiche (positive o negative che siano) da parte di chi ti legge.
Se è piaciuto quello che hai scritto ti leggeranno ancora (e se ti va bene ti faranno anche qualche complimento), se non è piaciuto non ti leggeranno mai più (e se ti va male magari ricevi anche qualche commento che mina la tua autostima, grande o piccola che sia).
Ma la mia esperienza mi ha ricordato che se si scrive ciò che si pensa, l'eventuale critica non è solo alla produzione pubblicata, ma anche [e soprattutto] a colui che l'ha scritta.

Scrivere questo blog - per me - ha significato espormi come persona, come professionista e come possibile scrittore.
Ecco perché a trecentosessantacinque giorni dal primo post è importante per me fare dei bilanci.
Che sono positivi.
Anche se qualcosa poteva andare meglio.
Ciò che mi lascia un po' di amaro in bocca è la frequenza con cui scrivo. 
Un anno fa pubblicavo un post al giorno. Forse erano anche troppi (come qualcuno - che ringrazio - mi ha anche fatto notare!) ma c'era l'enfasi della nuova avventura, il brivido della novità, il continuo controllare le statistiche per comprendere se venivi letto oppure no.
Poi il numero delle pubblicazioni è calato.
Forse un po' troppo ultimamente. 
E questo un po' mi dispiace, sia per me che per coloro che mi leggono.
La vivo un po' come una sorta di "tradimento" nei confronti di chi questo blog lo apprezza, di chi (mi piace pensare) finito di leggere un post aspetta che ne arrivi un altro...
Ma la vita è sempre più complicata e bisogna trovare il tempo per stare dietro a tutti e a tutto, senza dimenticare che oltre agli impegni lavorativi e alle gratificazioni personali ci sono anche delle parti umane e familiari che non devono sentirsi private di qualcosa a causa dell'ego personale.

In più questa avventura mi ha dato il coraggio per aprire un sacco di altre porte, sempre connesse alla scrittura, che meritano di essere attraversate.
Perché questo blog - e il mondo del virtuale in generale, tra social network e quant'altro - mi ha anche offerto l'opportunità di uscire dal comodo nido pedagogico ed entrare nel mondo dei grandi, come scrivevo poco sopra.
E questo significa aver avuto la possibilità di conoscere e incontrare (virtualmente e non) altre persone, altri educatori, altri pedagogisti, altri professionisti, altri genitori con i quali confrontarsi e continuare a crescere.
D'altra parte era proprio questo l'obiettivo dei miei Labirinti Pedagogici: creare un luogo dove Educazione e Pedagogia potessero trovare nuove strade.

Bastava avere un centimetro di coraggio sopra la paura.

sabato 6 luglio 2013

Obiettivi e strumenti: una confusione pericolosa?

"Salve a tutti. Volevo porgervi una domanda: qualcuno di voi ha esperienza di educativa domiciliare? Che attività avete proposto alle famiglie?"

"Gente buongiorno! Voi che attività proporreste in una comunità mamma-bambino? Ah i bimbi vanno dai 2 ai 12 anni!!!"

"Ciao! Inizio a lavorare in un nido. Mi suggerite qualche attività da svolgere con i bambini?"

"Chi di voi ha prestato servizio nelle scuole d'infanzia? Chi mi suggerisce attività da far svolgere ai bambini?"


Questi sono solo alcuni dei post che si trovano nei gruppi per educatori professionali di Facebook.

I social network sembrano la nuova frontiera della formazione e della supervisione degli educatori. Lì si trovano le più disparate richieste di supporto nel lavoro quotidiano.
Già questo sembrerebbe un paradosso! 
Perché cercare supporto alla propria professione sul web mi dice che i dispositivi di formazione e di supervisione evidentemente non funzionano come dovrebbero.

Ma non è questo l'aspetto che mi ha colpito in questi post.
Attività, attività, attività...
Tutti alla ricerca di suggerimenti per le attività da svolgere, per i laboratori da proporre... metodi e tecniche per riempire il tempo.
Due quesiti mi piace dunque portare alla comune riflessione relativamente a questo argomento.
  1. Gli educatori (soprattutto i neo-educatori) conoscono la differenza tra obiettivo e strumento? 
  2. Cosa si nasconde dietro a questa spasmodica ricerca dell'attività intesa come "qualcosa da [far] fare"?
Il primo quesito già di per sé propone una grande riflessione su come il lavoro educativo viene percepito.
Confondere un obiettivo (pedagogicamente pensato) con uno strumento significa - forse - non avere chiaro che la prassi pedagogica deve essere basata su un processo mentale non indifferente e su step che non possono essere saltati e/o dimenticati. 
Questo processo mentale viene riassunto nel progetto educativo.

Il progetto educativo descrive i bisogni che devono essere soddisfatti. L'educazione considera il bisogno come la distanza esistente tra la situazione educativa che si vorrebbe ottenere e quella effettivamente presente in un contesto. L'operazione che permette di individuare i bisogni di natura educativa è definita analisi dei bisogni educativi
(Fonte: Wikipedia)

Osservazione, valutazione dei bisogni, analisi delle risorse, risoluzione dei problemi... sono tutti aspetti che devono essere presi in considerazione nel momento in cui si va ad affrontare una "situazione educativa" che necessita di un intervento di tipo professionale.
Lo strumento (in sé) altro non è che la concretizzazione delle azioni che l'educatore ha progettato nella sua mente per il raggiungimento degli obiettivi individuati.

E da qui nasce il secondo quesito.
Ogni corso o percorso formativo ci insegna che l'educatore agisce "attraverso il fare". "Il fare [con]" è lo specifico dell'educazione che rappresenta però uno strumento, una modalità operativa che ci è di supporto nel nostro operato quotidiano.
"Il fare" non deve confondersi con "l'essere".
Cosa si nasconde quindi dietro a questa prassi educativa?
Quella che io chiamo "organizzazione da villaggio turistico".

ore 8.00 risveglio muscolare
ore 8.30 stretching
ore 9.00 laboratorio teatrale
ore 10.00 laboratorio emozioni
ore 11.00 laboratorio cucina
ore 12.00 gioco aperitivo

La confusione tra animare ed educare diventa quindi facile [ed è qui - peraltro - che le altre discipline sociali riescono, meglio della pedagogia, a vendersi sul mercato relegandoci ad un ruolo marginale e non riconosciuto].
Con l'aggravante che quando un educatore si nasconde dietro al fare come attività principale del proprio lavoro dimostra una fragilità pedagogica problematica confermando l'ipotesi di coloro che pensano che "essere un educatore" significa "far giocare i bambini".

Giovani (e vecchi) educatori: riflettiamo sulla vera natura del nostro lavoro e ricordiamo[ci] che l'attività pedagogica non può esimersi da una progettualità e da una intenzionalità.





lunedì 1 luglio 2013

Insegnamento, Apprendimento ed Educazione


La scuola è finita.
"Finalmente!" pensano gli studenti. E altrettanto "Finalmente!" pensano gli insegnanti.
A prescindere dalle imminenti vacanze (per studenti e insegnanti, gli educatori in vacanza non ci vanno quasi mai o - almeno - non per un periodo così lungo!) si comincia a ragionare sul prossimo anno scolastico e su ciò che si andrà ad affrontare.

Mi capita infatti - più che in altri periodi dell'anno - di parlare con docenti di ogni ordine e grado di quanto accaduto lo scorso anno e di quanto potrebbe accadere il prossimo.
Se ne parla di più forse perché c'è più tempo.
O probabilmente perché ci sono novità nel campo che interessano [=preoccupano] tutti.

A parte i B.E.S. (la nuova frontiera/sfida di scuola e pedagogia) capita che ci si confronti - tra educatori ed insegnanti - su come intervenire nelle situazioni delicate o particolari. Quelle che esulano dal processo di insegnamento-apprendimento.
E sempre più spesso sento (o percepisco tra le righe) una sorta di preoccupazione nei docenti che si sentono impreparati (o inadeguati) ad affrontare il compito.
Non solo della disabilità in sé, ma anche (e forse soprattutto) di questi benedetti Bisogni Educativi Speciali che comprendono tutto.
E quindi - come spesso succede - non comprendono nulla.
Una nuova definizione, un nuovo contenitore ma pochi contenuti.

Qualche giorno fa ho lanciato una domanda su facebook, in un paio di gruppi di educatori.

Può esserci un buon apprendimento senza una relazione affettiva?
Apprendimento ed educazione sono sinonimi?

Posto che tutti negavano i due termini come sinonimi, le risposte alla prima domanda mi hanno un po' spiazzato. La più distante dal mio vissuto è stata:


Instaurare una relazione è fondamentale in ambito educativo altrimenti non si riuscirebbe ad entrare in empatia e connessione con l'altro. Lo stesso deve avvenire in ambito scolastico: se un docente non si prende carico della difficoltà, perplessità e necessità del discente non può esserci nessun apprendimento.. quindi si, si instaura una relazione anche di tipo affettiva.

Nella mia esperienza di educatore scolastico ho visto professori che provavano empatia e connessione solo con la propria materia, con la quale avevano una relazione talmente affettiva da considerare gli studenti come degli "intrusi".
Ecco perché mi sono ritrovato a riflettere su questo argomento.

L'insegnamento è "la trasmissione del sapere". L'apprendimento è la "ricezione del sapere".
Me lo figuro come un processo lineare a senso unico.


Della serie: io docente offro a te discente il mio sapere, a prescindere dal fatto che tu lo voglia apprendere oppure no.
Siamo già fortunati quando il processo di insegnamento/apprendimento è a senso unico alternato.


Della serie: io docente offro a te discente il mio sapere e tu discente me lo restituisci come appreso attraverso delle prove di valutazione.

Non c'è bisogno di relazione affettiva, non occorre empatia.
Il processo educativo è differente: educatore ed educando - sebbene su due livelli differenti - stanno all'interno dello stesso processo che è di tipo circolare.


Della serie: io educatore offro a te la mia esperienza ma ti lascio la libertà di rielaborarla, digerirla e farla tua come meglio credi, a patto che tu me la restituisca in modo che possa - per me - diventare nuovamente esperienza. 
In questo processo è necessario che ci siano relazione, empatia, dialogo, ascolto reciproco, scambio...

Ecco perché gli insegnanti faticano a comprendere l'approccio educativo. Per loro formazione sono principalmente dei cultori della materia, degli esperti di contenuti. Diventano "educatori/insegnanti" solo se hanno una predisposizione personale e la utilizzano nella loro professione.
Spesso senza formazione o confronto.

Oggi una professoressa mi ha chiesto: "E dove sono i nostri Bisogni Educativi Speciali? Quelli di noi docenti?"
Era una domanda provocatoria ma l'ho voluta leggere come una richiesta legittima di aiuto nella gestione di un qualcosa che non le appartiene.

Ma forse sono solo un educatore ed è la mia deformazione professionale ad avermela fatta percepire così?