- Mamma,
è arrivata la lettera. Devo partire. –
- A
Portovaltravaglia… vado a vedere sull’atlante dov’è –
Alessandro
aspettava quella lettera da cinque mesi, tutti i suoi amici ne avevano ricevuta
una. Era curioso, come lo si può essere a ventuno anni, ma preoccupato. La famiglia,
l’università, gli amici. Doveva prendersi una pausa dal mondo che conosceva.
Per quel viaggio.
- È
sul lago Maggiore mamma. Tutti i miei amici sono andati vicino, a Milano, gli
basta usare la metro. E io invece… dove me ne vado? In un posto che nemmeno
conosco, che devo cercare sull’atlante! –
I
loro dialoghi erano sempre così: fatti di poche battute, spesso mentre mamma
faceva qualcosa e spesso da una stanza con l’altra. Sua mamma doveva sempre
essere in movimento: le pulizie, lavare, stirare… instancabile.
- Stai
tranquillo – disse lei. Lapidaria, concreta e in un certo qual modo anche
rassicurante.
Preparare
un viaggio non significa soltanto preparare le valigie, scegliere i vestiti,
non dimenticare gli oggetti personali. Bisogna abituarsi al cambiamento,
aprirsi al nuovo orizzonte, ricordare tutte le esperienze precedenti per
rinnovarle nel nuovo viaggio.
Alessandro
si preparava ogni volta così: predisponendosi a ciò che di nuovo o di diverso
avrebbe trovato, scegliendo un libro o una playlist che facesse da sfondo al
viaggio, con la curiosità di incontrare altre persone, altri mondi.
Le
altre volte era stato diverso: i viaggi erano stati emozionanti e pieni di
sorprese ma scelti, programmati,
condivisi con gli amici o con la famiglia.
Il
Muro di Berlino smembrato nel 1990 leggendo “1984” di Orwell.
Sdraiato
a contemplare le stelle sulla spiaggia di Finisterre parlando con gli amici di
cosa ci possa essere dopo la vita terrena.
L’abazia
medievale in Austria condivisa con mamma, papà e fratello.
La
Casa di Anna Frank ad Amsterdam dove le misure di vivibilità erano assurde
rispetto ai canoni normali.
La
biciclettata fino in Polonia per rimanere deluso davanti ad un’icona minuscola
in un luogo privo di spiritualità.
La
carbonara cucinata in un campeggio della Spagna, condividendola con chi vi
metteva sopra il ketchup.
Ma
questa volta c’era qualcosa di diverso. Un viaggio solitario in un luogo
sconosciuto, senza preparazione, senza meta.
- Ci
vediamo tra una settimana, credo – disse Alessandro.
- Va
bene, mi raccomando: vai piano –.
La
mamma sigillava sempre così la partenza per un viaggio. “Vai piano”. Ma non si
riferiva solo alla velocità di guida, pensava anche all’indole di suo figlio e
“Vai piano” significava anche “Non ti ci buttare”, “Proteggiti”, “Stai attento
a non farti coinvolgere troppo”. La mamma lo sapeva: suo figlio viveva ogni
cosa con trasporto, con passione, buttandosi anima e corpo in ogni esperienza, in
ogni situazione.
“Vai
piano” ripensò Alessandro, limitandosi ad archiviarlo come la solita
raccomandazione di mamma, e salì in macchina.
Due
caselli, ottanta chilometri, settantacinque minuti di macchina lo separavano
dal luogo.
Arrivò
sul lago Maggiore alla ricerca della sua meta. Mentre percorreva una strada in
salita incontrò un ragazzo e gli chiese indicazioni.
- Ci
sto andando anche io, se mi dai un passaggio ti accompagno –.
- Sali.
Mi chiamo Alessandro – .
- Io
sono Marco – rispose laconicamente il ragazzo.
Ancora
poche centinaia di metri ed arrivò: un cancello elettrico verde, un parcheggio spazioso,
quattro ville immerse in un parco.
- Ciao
Alessandro, benvenuto – lo accolsero porgendogli la mano – Se vieni dentro ti
presento tutti –.
Un
giro di presentazione veloce e il vortice cominciò: storie, nomi, volti, ruoli.
Tutto girava velocemente, senza lasciare il tempo di metabolizzare. “Arriverà
questa sera ed avrò il tempo di ragionare su tutto” pensò Alessandro, ma non fu
così.
Arrivò
la sera e il vortice continuò.
Una
fuga, quattro ragazzi ubriachi che ritornano, una doccia gelata per evitare il
coma etilico, gente che va, gente che viene… e la percezione che per gli altri
fosse la normalità.
“Ma
dove sono capitato?” ebbe appena il tempo di pensare Alessandro, prima di trovarsi
a dover portare di peso un ragazzo sotto la doccia, per poi correre a
verificare se un altro stesse vomitando, per poi fiondarsi a controllare che
tutti fossero al loro posto, per poi tornare immediatamente alla doccia e verificare
che avesse fatto effetto sui fumi dell’alcol.
Fino
al tanto ricercato momento di calma e di tranquillità.
Indossare
il pigiama, fumare l’ultima sigaretta della giornata in tranquillità, lavarsi i
denti, sprimacciare il cuscino: erano le due del mattino quando Alessandro, esausto,
poté finalmente accasciarsi in un letto tentando di riflettere su quanto gli
era accaduto, su quale giostra fosse salito, su quale viaggio stesse
intraprendendo suo malgrado.
Ma
la stanchezza lo prese.
Poche
ore di sonno.
E
poi la giostra ricominciò.
- Ragazzi
cosa volete fare questa sera? Ognuno di voi dica cosa vuole fare –.
- Io
guardo la televisione – rispose Maurizio
- Io
vado in camera a studiare – disse Daniela
- Io
vado nella macchina di Ale a sentire la musica – sussurrò Marco
- Hai
chiesto ad Ale se a lui va bene? La macchina è sua, è lui a dover decidere –
- Per
me va bene – Ale anticipò la richiesta
di Marco.
- Perché
tutte le sere chiedi di metterti nella mia auto per ascoltare la musica’ –
domandò Ale sedendosi in auto a fianco di Marco.
- Non
lo so. Mi sento tranquillo qui. –
- Cosa
vuol dire che ti senti tranquillo? Potresti senza problemi ascoltare la musica dallo
stereo di camera tua. –
- Boh…
qui mi sento tranquillo. Sono solo e posso fantasticare di viaggiare. Sono su
una macchina, potrei andare ovunque –
- Che
ha questa macchina di particolare? Dove vorresti andare? –
- È
la tua macchina. Tu sei come il mio fratello maggiore che mi dice cosa devo
fare e io lo ascolto. Lo faccio. Anche gli altri mi dicono cosa è giusto e cosa
no per il mio futuro, ma io non lo faccio. Con te è diverso. Tu me lo dici
perché ci credi. –
- E
dove vorresti andare? –
- Da
nessuna parte. È qui che voglio stare. Questo è il mio posto –
Pigiama,
sigaretta, denti e cuscino: quando andò a dormire Alessandro si mise a
riflettere su quanto era accaduto. Marco non voleva stare in quel posto, avrebbe
voluto essere ovunque tranne che lì perché quel luogo per lui significava sofferenza
e diversità, ma quando era in macchina si sentiva bene, si sentiva in viaggio,
si sentiva di poter andare ovunque.
“Che
strana cosa – pensò Alessandro – Marco andrebbe ovunque, scapperebbe verso
qualsiasi luogo tranne questo, ma quando è in macchina starebbe fermo, per
sempre. Perché solo l’idea di avere uno spazio solo per sé e da condividere
solo con chi vuole lo fa stare bene.”
- Pronto?
Pronto??? – urlava Diego nella cornetta. – Mamma? Mammaaaaa??? Guarda che
arrivo tardi, prendo il treno dopo! Hai capito? Hai capitoooo??? –
- Perché
urla così tanto al telefono? – chiese Alessandro
- I
suoi genitori sono sordomuti – rispose Silvia, la collega di quel giorno –
vedono che il telefono squilla perché è collegato ad una luce che lampeggia
ogni volta che squilla. –
- E
perché lui telefona allora? –.
- Qualche
volta risponde sua sorella. Ma con lei non parla. – concluse Silvia.
Una
volta in macchina, in viaggio verso la Stazione Nord di Laveno, Alessandro
chiese a Diego perché urlava al telefono.
- Vorrei
che mi sentissero. – rispose tristemente.
- Sono
sordomuti, come fai ad aspettarti che ti sentano? –.
- Lo
so. Ma con mia sorella è diverso. Con lei leggono le labbra. La guardano in
viso quando parla. Io ho bisogno di urlare, di sbattere le cose o di rompere i
mobili perché mi guardino. Non mi guardano mai… -
Il
resto del viaggio continuò nel silenzio.
Diego
urlava, non per essere ascoltato, ma per essere guardato. E in macchina, una
volta guardato anche solo di sottecchi nel retrovisore, si godeva il silenzio.
Tutta
la strada in silenzio. Un lungo viaggio nel silenzio che entrambi si erano
goduti.
- Qual
è il tuo vero nome? Dove sei nato e quando? – chiese Alessandro.
- Mi
chiamo Almir e sono nato in Yugoslavia. Ma non chiedermi quando, non lo so. –
- Che
vuol dire che non lo sai? – incalzò Alessandro.
- Nel
mio paese non registrano il giorno in cui sei nato, non importa a nessuno. –
- E
i tuoi genitori non te lo hanno detto? Non festeggiavi con loro il tuo
compleanno? –
- I
miei genitori? Mi hanno venduto agli zingari quando ero piccolo. Ti pare che gli
importasse festeggiare il mio compleanno? Erano interessati solo a quanto
potevano guadagnare vendendomi… –
- E
come ci sei arrivato in Italia? –.
- Con
gli zingari. –
Pigiama,
sigaretta, denti e cuscino: quando a notte fonda Alessandro si sdraiò sul letto
ripensò ad Almir, ad un viaggio verso un nuovo paese con persone sconosciute,
con l’angoscia di essere stato venduto. Dai propri genitori.
Forse
il viaggio era stato il minore dei mali, forse Almir non si era nemmeno accorto
del viaggio. O forse il viaggio era stato la sua salvezza: andare quanto più
lontano possibile da chi ti ha partorito e poi venduto.
Forse
quel viaggio lo aveva salvato.
- Pronto
mamma? –
- Ciao
Ale, come stai? –
- Bene
mamma. Devo dirti una cosa. Ho deciso che questo posto mi piace. Voglio farlo
diventare il mio lavoro. -
- Sei
sicuro? È passato così poco tempo. – La voce della mamma era traballante.
Percepiva che la decisione era irrevocabile, come lo erano spesso le decisioni
di suo figlio. Ma questa volta sperava di sbagliarsi.
- Ho
cominciato questo viaggio e lo voglio portare a termine. Passami papà… Ciao
papi. Hai sentito quello che ho detto a mamma? –
- Si
Sandro. Ho sentito. Sono contento. Fai quello che devi fare. –
- Grazie
papà. –
Suo
padre era sempre così: di poche parole ma molto chiaro. Sempre dalla sua parte.
Forse coraggioso come lui. Forse avventato come lui.
Finalmente
un giorno di riposo. Alessandro era nel suo monolocale tranquillo, godendosi il
rientro dopo il pic nic di pasquetta. Il ritorno a casa era sempre fonte di
gioia.
Ritornare
al proprio caricabatterie da tavolo. Si, perché la sua nuova casa era poco più
grande di un tavolo, ma lo ricaricava.
Suonò
il citofono. Alessandro non aspettava nessuno.
- Sono
la Laura, disse una voce da bambina, sono qui sotto con Cristian e la mamma.
Puoi scendere? –
- Arrivo
subito –.
Trovò
i due bambini confusi tra un misto di vergogna e di sofferenza, la madre era scesa
dalla macchina ma aveva lasciato il motore acceso, pronta ad un nuovo viaggio,
una nuova fuga.
- Scusi
Alessando, domani devo andare a lavorare e non avrò tempo di riportarli. Ecco
li ho riportati oggi. Arrivederci. – disse tutto d’un fiato la donna.
Non
attese una risposta, non salutò i suoi figli, risalì velocemente in macchina e
partì subito, verso una qualsiasi meta purché lontana dai propri figli.
- Venite,
saliamo in macchina e andiamo, torniamo in comunità – disse Alessandro con tono
volutamente sereno ai due bimbi che si stropicciavano le mani.
Dopo
aver messo a dormire i due bambini, una volta che il sonno li aveva finalmente
avvolti, si mise a leggere un libro.
Pigiama,
sigaretta, denti e cuscino: quella volta non aveva voglia di riflettere e di
analizzare quanto accaduto. Quella volta provava solo una gran rabbia.
- Alessandro,
voglio andarmene da qui. Se non me ne vado subito impazzisco. – disse
fermamente Valerio.
- E
dove vuoi andare? –.
- Non
lo so. L’importante è che io me ne vada. –
- Ma…
io sarò preoccupato per te. Vorrei sapere dove vai e cosa farai. –
- So
che sarai preoccupato. Ma io devo partire. Ho passato qui quasi tutta la mia
vita. E non ce la faccio più. Ho bisogno di andare altrove. –
- Fammi
sapere almeno quando sarai arrivato –
- Lo
farò. – rispose con un mezzo sorriso Valerio.
Il
viaggio di Valerio è un viaggio lungo, forse senza ritorno, alla ricerca di sé
stesso e delle proprie origini. Alla ricerca di una motivazione per la malattia
mentale di sua madre, alla scoperta di un padre violento che ha avuto l’ardire
di morire prima che lui potesse dirgli tutto ciò che pensava, alla ricerca di
sé stesso.
“Buon
viaggio” gli augurò mentalmente Alessandro.
“Speriamo
davvero che sia buono…”
- Allora
Thomas, ascoltami bene. Questo è un nuovo progetto. Una delle attività del
laboratorio autobiografico è il racconto del proprio viaggio, tutto ciò che hai
fatto da quando sei partito da casa a quando sei arrivato in Italia. È chiaro Thomas?
–.
- Dovrò
raccontare tutto io o mi farai delle domande tu? –.
- Ti
farò delle domande io, stai tranquillo. Dobbiamo ripercorrere il tuo viaggio
dalla Romania all’Italia, con quale mezzo sei partito? –
- Con
la macchina –
- E
come li hai salutati mamma e papà? –
- Non
li ho salutati. Sono salito in macchina e basta. –
- Non
li hai salutati? Nemmeno quando sei salito in macchina? –
- No.
Non mi sono voltato indietro per guardarli. Sono salito in macchina e ho
pensato “Andiamo!” –
Il
resto del racconto aveva meno importanza per Alessandro. Le emozioni, le
sensazioni, le paure provate durante il viaggio erano state tante: i colori, i
suoni, le strade, i palazzi e le grandi città così differenti tra l’Italia e la
Romania, la vista del mare.
Alessandro
di quel viaggio aveva colto l’importanza di quell’”Andiamo”, lo aveva sentito
come lapidario, come atto del coraggio e della sofferenza di Thomas.
“Andiamo.
Subito. Prima che cambi idea”.
- Che
lavoro faceva tuo padre? – chiese Alessandro.
- Capo
ufficio in una fabbrica di caffè – rispose Iliass.
- In
Marocco quanto guadagna un capo ufficio? –
- Boh…
non lo so. –
- Di
più o di meno di un muratore? –
- Molto
di più. Fai conto che noi abitavamo sul Belvedere, una casa singola con
giardino. Mia sorella fa l’università e io ho fatto una scuola superiore
privata. Solo i primi due anni però –.
- E
allora perché sei venuto in Italia? Perché hai affrontato un viaggio così
difficile e pericoloso se non ne avevi bisogno? Perché sei stato chiuso in un
camion per quasi ventiquattro ore? –
- Lo
facevano tutti i miei amici. Ho deciso di farlo anche io. –
- Come
sarebbe stata la tua vita se fossi rimasto al tuo paese? –
- Sicuramente
meno faticosa. Ma non mi pento. In questo viaggio ho imparato molte cose e
conosciuto molte persone. Se anche dovessi ritornare sarei felice. –
Quando
Iliass venne rimpatriato Alessandro era sereno. Non aveva sofferto una
decisione altrui che decretava il suo ritorno a casa. Aveva affrontato bene il
viaggio. Aveva scoperto un mondo diverso e se lo portava dentro ritornando al
suo mondo.
Alessandro
chiese a Ahmed se fosse partito dalla Libia.
- Si
–.
- E
quanto è durato il viaggio? –
- Quattro
giorni –
- In
quaranta su un gommone per quattro giorni?? –
- Quattro
giorni e quattro notti. Con il mare in tempesta. Avevo con me solo una
bottiglietta da mezzo litro d’acqua. E il passaporto nascosto nelle mutande,
rinchiuso in un sacchetto di plastica perché non si bagnasse. Vicino a me un
uomo vomitava, altri uomini piangevano, una donna incinta ha perso i sensi. Un
ragazzo è caduto in mare. Era buio e nessuno ha allungato il braccio per riportarlo
sul gommone. –
- Tu
cosa hai fatto per tutto quel tempo? –
- Ho
continuato solo a sperare di non morire. Ti giuro che ho avuto paura di morire.
Ero quasi sicuro di morire. Quando sono arrivato a riva, in Italia, ho baciato
la terra. Non riuscivo più a rialzarmi. Non ero felice di essere arrivato in
Italia. Ho solo pensato “Non sono morto”. –
- In
quanti siete arrivati in Italia? –
- Credo
diciassette. Credo. –
Pigiama,
sigaretta, denti e cuscino: quella sera Alessandro non ripensò ai ventitré che
non ce l’avevano fatta, ai due mesi di carcere che Ahmed aveva passato in Libia
perché non aveva il permesso di soggiorno, alle successive difficoltà che aveva
affrontato per il viaggio da Lampedusa a Milano o a ciò che aveva lasciato a
casa.
Riuscì
a pensare soltanto al ragazzo caduto in mare, e alla disperazione di quelli che
gli stavano intorno che non erano nemmeno riusciti a muoversi per aiutarlo.
Un
viaggio della speranza si era trasformato in un viaggio della morte.
- Robert,
a quanti anni sei partito dall’Afghanistan? – .
- A
undici anni circa, nel nostro paese non sappiamo esattamente quanti anni
abbiamo. Non esiste un ufficio anagrafe. –
- E
sei arrivato a sedici… È durato così tanto il tuo viaggio per l’Italia? –
- Non
sapevo che sarei arrivato in Italia. Sono partito dal mio paese perché là c’è
la guerra e non sai se il giorno dopo ti sveglierai oppure no. Non sapevo dove
sarei arrivato. Sono stato due anni in Iran, un po’ in Pakistan, due anni in
Turchia e un anno in Grecia. In ogni paese cercavo lavoro e cercavo di
guadagnare soldi. Poi quando mi sentivo in pericolo partivo. –
- Ti
piace l’Italia? –
- Non
lo so. Non la conosco abbastanza ma qui, per la prima volta nella mia vita, non
ho paura. Per la prima volta nella mia vita vado a dormire sereno, spengo la
luce e sono certo che domani mattina ti troverò sveglio e berrai il caffè con
me. –
Pigiama,
sigaretta, denti e cuscino: qualche volta andare a dormire aspettando con gioia
il caffè del giorno successivo permette bei sogni, o almeno nessun brutto
sogno, a tutti.
Il
viaggio di Alessandro era cominciato a ventun anni e sarebbe dovuto durare un
solo anno. Doveva portarlo ad ottanta chilometri di distanza da casa sua, solo
due caselli di autostrada, settantacinque minuti di macchina ad una velocità
media.
A
trentanove anni Alessandro era ancora in viaggio.
Nel
suo percorso aveva conosciuto l’Italia della povertà, della sofferenza, della
violenza. E poi fuori dall’Italia aveva conosciuto l’Albania, il Marocco,
l’Egitto, l’Afghanistan, la Tunisia, il Cile, l’Argentina, l’Uzbekistan...
Ma
soprattutto aveva conosciuto le persone che arrivavano da quei paesi e che lo
avevano accompagnato.
Ottanta
chilometri, due caselli autostradali, settantacinque minuti di auto. Mai un
viaggio era stato così lungo e così faticoso ma anche così entusiasmante e
appassionato.
Attraverso
gli altri, Alessandro aveva viaggiato dentro sé stesso. Aveva appreso culture,
aveva conosciuto e condiviso la sofferenza, aveva vissuto la gioia della
scoperta.
Ricorda
ancora oggi la raccomandazione di sua madre.
“Vai
piano”.
Non
so mamma se andrò piano. So che andrò ancora, perché il viaggio non è finito.
Le tappe saranno ancora molte. La stanchezza nelle ossa verrà mitigata dalle
esperienze che farò. Non so quando finirà il mio cammino, mamma. Come diceva un
saggio “L’importante non è la meta, ma il viaggio”. Secondo me, mamma,
l’importante sono le persone che ti accompagnano.
Loro
sono il mio viaggio.