L. ha 9 anni. Fisicamente ne dimostra almeno 13 (un colosso di 65 kg con due mani che sembrano badili) ma mentalmente solo 5 (e sono stato generoso).
Seguo il suo caso da più di quattro anni, quindi posso dire di conoscerlo abbastanza.
Ha un ritardo cognitivo definito "gravissimo" dalla diagnosi funzionale (e in questo caso non è - come normalmente succede per avere qualche ora di sostegno in più - un'esagerazione) e vive in una comunità per minori da 2 anni.
La sua famiglia... beh... il suo sistema familiare è quanto di più vicino ai casi da manuale io abbia mai incontrato nella mia professione. O meglio: quasi tutte le possibili alternative che si trovano in un manuale sul disagio sociale si concentrano nella sua famiglia.
Immaginate tutto ciò che potrebbe venirvi in mente e gettatelo in una sola famiglia.
Una madre con un disturbo psichiatrico conclamato, in passato dedita all'uso di sostanze stupefacenti (non dipendente per fortuna, se non dall'uomo che gliele forniva).
Una sorellastra in affido.
Un fratellastro in una comunità per disabili mentali.
Una sorellastra in affido.
Un fratellastro in una comunità per disabili mentali.
Una sorellastra nata da pochissimo e inserita in comunità (con la madre) non appena uscita dal reparto di neonatologia.
(Per un totale di 4 figli avuti da 3 padri differenti).
(Per un totale di 4 figli avuti da 3 padri differenti).
Un padre mai visto né conosciuto, "non era violento, solo quella volta che gli ho detto che aspettavo un figlio da lui mi ha preso la testa e me l'ha sbattuta sul cofano dell'auto e se n'è andato".
Uno zio con un disturbo psichiatrico che ha subito almeno un paio di TSO a causa di tentati suicidi (anche lui con 4 figli avuti da 3 madri diverse).
Un nonno sospettato di alcolismo (e certamente dedito ad un buon uso di alcol che se alcolismo non è ci si avvicina parecchio).
Una nonna con una menomazione fisica alla mano e la tendenza a voler accentrare su di sé tutte le dinamiche familiari per poterle gestire meglio (la sua frase preferita è "Stai zitto!" rivolta a qualsiasi componente del suo nucleo).
E poi innumerevoli problemi economici, sfratti esecutivi, traslochi e relativi trasferimenti di residenza, fughe di casa, episodi di violenza e di aggressività, convivenze di tutto il nucleo in "case" senza riscaldamento, con la bombola del gas (quasi) sempre vuota, con la dispensa paragonabile ai negozi polacchi del dopo guerra...
L. quindi è nato e cresciuto in un contesto familiare che - con un complimento - definirei "disadattato".
E ad un certo punto arriva l'educatore.
Che obiettivo aveva l'intervento?
Per il servizio sociale riuscire ad entrare in quel mondo e dare tutto il supporto possibile.
Per la famiglia gestire il bambino (di 5 anni) che loro tutti insieme non sapevano gestire.
E per il bambino? Boh... lui così abituato a fare tutto ciò che voleva, quando voleva, con chi voleva (si, perché già da piccolo era in grado di far girare sulle dita tutti gli adulti che aveva intorno, come un mago che gioca con le palline colorate, alla faccia del suo ritardo cognitivo!) non sapeva - ovviamente - chi e cosa facesse l'educatore.
Come si fa? Si procede per piccoli passi.
Si cerca di costruire la relazione con il bambino (e a quell'età il difficile non è farlo giocare, quanto fargli introiettare le piccole e basilari regole di educazione che nessuno mai gli ha insegnato)
Si cerca di costruire la relazione con il bambino (e a quell'età il difficile non è farlo giocare, quanto fargli introiettare le piccole e basilari regole di educazione che nessuno mai gli ha insegnato)
Si tenta di costruire un percorso di fiducia con il nucleo familiare.
Insomma: si prendono in carico tutti, si porta sulle spalle il peso di una situazione così ingarbugliata (che - naturalmente - nel corso degli anni si è ulteriormente complicata, visto che ha portato all'inserimento in comunità) e si cerca di "educare" tutti secondo le loro possibilità di apprendimento.
L'utente (come a me non piace mai chiamarlo) non è solo il minore, ma tutto il sistema familiare.
E con ogni individuo occorre utilizzare un linguaggio diverso, porsi degli obiettivi differenti ma progressivamente raggiungibili (grandi o piccoli che siano) tenendo sempre a mente le possibili retroazioni che ogni singolo può portare nel sistema. Bisogna anche tenere le fila di tutti i soggetti sociali coinvolti (il Comune, la scuola materna, la psicomotricista e poi la scuola elementare, gli operatori della comunità, la famiglia, il Servizio Tutela Minori, il Tribunale per i Minorenni).
Questo è il compito trasversale di un educatore sistemico: porsi come riferimento per tutti i soggetti coinvolti, che parlano delle lingue diverse (e quindi non sempre riescono a capirsi), che hanno obiettivi differenti (e non sempre tutti congruenti tra loro, pur nella bontà della specificità di ognuno) e che utilizzano strumenti disparati.
Senza però mai dimenticare che al centro sta il minore.
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