"Entrare nelle camere degli ospiti ci costringe ogni volta ad avere un rapporto con la verità più assoluta. Tutto questo non ci esime dalla fatica, non ci sottrae dal tormento, ma ci permette di imparare la vita. L'incontro con il paziente si compie come dato positivo che poi diventa esperienza e guida per il vissuto quotidiano. Ho imparato anche in prima persona a trattenere il giudizio quando sono coinvolta in una vicenda dolorosa, ciò richiede ampia cautela e percorsi non programmabili."
(da "Il grande campo della vita" - di F. Cavallari
Lindau 2011)
Ho letto questo libro qualche giorno fa, un libro che racconta di un Hospice in cui le vite dei malati terminali, dei volontari e degli operatori si incrociano.
Non voglio trattare dei malati terminali, ma ho trovato delle analogie, delle metafore e dei richiami agli interventi educativi individuali.
E il brano che ho appena citato può tranquillamente essere traslato nella pratica educativa quotidiana mia e di chi - come me - lavora in questo campo.
Ovvio, occorre non pensare agli "ospiti" ma agli "utenti" (o "ragazzi" - come preferisco chiamarli io) e le "camere" rappresentano metaforicamente la loro vita, il loro sistema familiare, le loro abitudini alle quali noi educatori accediamo.
E questo entrare è sempre connotato da fatica: di comprendere in quale luogo ci si addentra, di capire con chi e come costruire una relazione, di non dimenticare che non stiamo entrando "in camera nostra" e quindi dobbiamo sospendere le nostre abitudini, i nostri linguaggi, le nostre caratteristiche senza però rinnegarle o spogliarcene completamente. Perché sono proprio le nostre abitudini, i nostri linguaggi e le nostre caratteristiche che ci contraddistinguono e che sono il primo vero strumento educativo.
Intraprendere un percorso educativo in un contesto che non è il nostro non deve però essere connotato solo dalla fatica ma anche dalla curiosità che è l'unica vera via per cercare nuove strade, per proporre alternative, per facilitare il cambiamento.
Per lavorare nell'educativa domiciliare, dunque, non occorre avere un copione prestabilito, ma una trama flessibile che ci dia spazio al cambiamento, all'improvvisazione, al tentativo.
E attraverso il processo di facilitazione del cambiamento altrui non possiamo esimerci dal nostro cambiamento, che deve essere osservato, contestualizzato ma mai assolutizzato.
Tutto questo ovviamente non può avvenire se non in assenza di giudizio o di pre-giudizio: una gabbia che poco spazio lascia alla curiosità.
Occorre sempre ricordare che le "altrui camere" sono già arredate, abitate, vissute... l'educatore che vi ha accesso deve entrare in punta di piedi e - pur nel disordine - porre attenzione a non calpestare nulla.
Poi si cercherà di fare ordine...
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