sabato 30 marzo 2013

L'esperienza è il tipo di insegnante più difficile...


Chi mi conosce sa che ho passato un paio di settimane complicate, ma molti non sanno perché. E chi ancora non lo sa continuerà a non saperlo.
Non è importante.

Ciò che queste settimane e questa esperienza mi hanno lasciato - forse - vale la pena di essere condiviso.
Mi sono trovato, mio malgrado, a dovermi relazionare con figure istituzionali e non che fino ad oggi avevo avuto la fortuna di non incontrare. Sottolineo "la fortuna" perché questi incontri - a prescindere dalla delusione che mi hanno personalmente provocato - mi hanno insegnato che alcuni concetti su cui io facevo affidamento sono stati distorti dalla società attuale. 

Eccoli:
L'etica (dal greco antico εθος (o ήθος)èthos, "carattere", "comportamento", "costume", "consuetudine") è un ramo della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontologico ovvero distinguerli in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati.L'etica può anche essere definita come la ricerca di uno o più criteri che consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri. Essa pretende inoltre una base razionale, quindi non emotiva, dell'atteggiamento assunto, non riducibile a slanci solidaristici o amorevoli di tipo irrazionale. In questo senso essa pone una cornice di riferimento, dei canoni e dei confini entro cui la libertà umana si può estendere ed esprimere.
(fonte: Wikipedia)
La responsabilità può essere definita come la "possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione"Si tratta di un concetto centrale nella filosofia morale, nel diritto, nelle scienze sociali in genere e perfino nel linguaggio aziendale corrente, campi nei quali il termine assume significati specifici. [...] La responsabilità presuppone una situazione di libertà, in cui la persona può scegliere quale comportamento tenere; se tale scelta non gli fosse possibile, infatti, anche laddove fosse in grado di prevedere le conseguenze delle sue azioni, non potrebbe comunque adottare un diverso comportamento alla luce della sua previsione. D'altra parte, affinché si possa parlare di responsabilità, è necessario che la persona si trovi in una situazione di libertà limitata, in cui i comportamenti che può tenere non sono del tutto indifferenti giacché, altrimenti, non vi sarebbe ragione di scegliere l'uno piuttosto che l'altro sulla base delle conseguenze previste. 
(fonte: Wikipedia)
Per consulenza è detta propriamente una prestazione lavorativa professionale di un consulente, una persona che, avendo accertata esperienza e pratica in una materia, consiglia e assiste il proprio cliente nello svolgimento di atti, fornisce informazioni e pareri.
Compito del consulente è quindi, una volta acquisiti gli elementi che il cliente possiede già, di aggiungervi quei fattori della sua competenza, conoscenza e professionalità che possono promuoverne sviluppi nel senso desiderato; in tale contesto è sostanziale il rapporto di fiducia tra il committente e chi fornisce consulenza.
Tale fiducia può fondarsi su un rapporto consolidato, sulla notorietà del consulente o sui titoli accademici e professionali che egli possiede.
(fonte: Wikipedia)
Perché citare questi concetti? Purtroppo perché mi sono scontrato con delle differenti interpretazioni.
La Responsabilità e l'Etica in cui mi sono imbattuto non hanno nulla a che vedere con le definizioni che citato (e che condivido) qui sopra.
Di fronte ad un problema, la ricerca di soluzioni è avvenuta non attraverso un comportamento etico ma attraverso la ricerca spasmodica di una Scorciatoia a prescindere dalla Responsabilità.
E che dire della Consulenza?
La mia logica è la seguente: non sono esperto in una materia ma ho bisogno di qualcuno che lo sia, cerco un consulente (a cui riconosco un compenso per la sua prestazione professionale) e mi aspetto che mi assista al suo meglio. Davanti ad un problema (che non dovrebbe nemmeno verificarsi, dato che ho cercato un consulente proprio per fare le cose al meglio...) mi aspetto che il consulente mi proponga una soluzione e non che rimandi a me il compito di cercarla.

Davvero: un paio di settimane davvero complicate che mi hanno aperto gli occhi.

Cosa c'è di pedagogico in tutto questo?
Che l'Esperienza insegna. Sempre.


venerdì 22 marzo 2013

Dedicato a tutti i Leonardo che conosco...



PADOVA - Il caso del piccolo Leonardo continua a far parlare di sè. Il bimbo è conteso tra i due genitori separati e il suo dramma fu ripreso da alcune telecamere, mentre veniva prelevato forzatamente, in esecuzione di un provvedimento giudiziario, a scuola per essere affidato ad una casa famiglia.


La Cassazione, con una sentenza emanata e depositata ieri, ha annullato il decreto dei giudici di secondo grado di Venezia: il 10 ottobre Leonardo era stato prelevato a forza da scuola dalle forze dell’ordine. Il padre di Leonardo aveva portato il bimbo di peso dentro la vettura della questura, fra le urla strazianti dei familiari. 

Ma la madre e il suo legale sono corsi subito a Padova per prendere nuovamente il piccolo Leonardo: arrivata nella struttura che ospita il bimbo da 5 mesi, la madre suona al campanello e grida: "Andiamo a prenderlo a casa del padre, ma noi abbiamo vinto. Mio figlio è libero, abbiamo vinto - commenta - questa notte dormirà nel suo letto. Si devono vergognare ma giustizia è stata fatta. Il tribunale di Roma ha dato una lezione a quello di Venezia. Se penso a quante sofferenze abbiamo passato spero che sia fatta giustizia, la Pas non esiste".

Il cancello di apre e madre e avvocato salgono in macchina per dirigersi verso la casa del padre di Leonardo. 

"Ha suonato tutti i campanelli, è entrata e ha preso mio figlio. Io ho chiamato la polizia. Non ho visto la sentenza, non so cosa ci sia scritto. Ma una cosa voglio dirla. Ho un bambino bellissimo e migliaia di padri sono nella mia situazione. Prima mio figlio era arrivato a non parlarmi, ora mi chiama papà. Tutto è cambiato negli ultimi cinque mesi, non appena è stato protetto dal plagio".
Leggo.it - Giovedì 21 marzo 2013 - 10:16

immagine tratta da www.tempi.it

Avevo affrontato e commentato questo argomento già in post precedenti ("Accadde a Padova" - "Dopo Padova si ritorna al lavoro" - "Padova: la bolla di sapone").
Non avevo commentato allora, e non volevo commentare nemmeno successivamente...
Poi ieri ho letto il nuovo articolo.
Mi è venuta la pelle d'oca.

Da qualche giorno è passata la festa del papà.
Tra un po' sarà la festa della mamma.

E mi son chiesto: quando è la festa dei bambini?
La normale cultura popolare risponderebbe che la festa dei bambini è tutti i giorni, perché ogni giorno sarebbe giusto festeggiarli.
Ma Leonardo? Quand'è la sua festa?
E quanti Leonardo esistono nel mondo? In Italia?

Non ho potuto fare a meno di leggere tutti i commenti che sono seguiti agli articoli su Leonardo. Carichi di astio, di odio... Mamme contro i papà, padri contro le madri, uomini contro donne, donne contro uomini... Nessuno (o quasi) che si preoccupava del bambino. Di Leonardo.
Dei Leonardo.

Sono circa 200.000 i padri separati in Italia. E altrettante sono le donne.
Di conseguenza: 200.000 (almeno, ma probabilmente di più) sono i bambini figli di genitori separati.

Il 19 marzo è stata la festa del papà.
L'8 maggio sarà la festa della mamma.
Visto che stanno conciando Leonardo per le feste io proporrei il 21 marzo come la festa del bambino.
Altro che primavera, il gelo fa sembrare tutto inverno.

A tutti i Leonardo e le Leonarde che conosco. Professionalmente e non.
Non credo sia necessario aggiungere altro.

domenica 17 marzo 2013

La rivoluzione dei quarantenni.



Dicono di noi che siamo dei bamboccioni.
E forse hanno ragione.
Dicono di noi che siamo orfani di padre, cioè dell'autorità che trae origine dall'autorevolezza e consente ai figli di avventurarsi in territori inesplorati, sapendo di poter contare all'occorrenza su una robusta ringhiera.
Dicono di noi che non siamo in grado di costruire il nostro futuro.

Hanno ragione?
Forse. O forse no.

Siamo una generazione di uomini e donne che sono cresciuti all'ombra dei propri genitori. O meglio, all'ombra dei loro sforzi, dei loro sacrifici.
I nostri genitori sono i figli e nipoti della guerra. Nipoti della prima. Figli della seconda. Le Guerre Mondiali. Le Grandi Guerre.

Continuano a dire di noi che siamo figli del benessere e che non sappiamo accontentarci, che non abbiamo valori, che viviamo semplicemente all'ombra di chi – diversamente da noi – ha fatto fatica.
I nostri genitori (i miei perlomeno, e quelli di tutti i miei amici, o quasi) erano operai, si sono sposati senza grandi risorse economiche, facevano il doppio lavoro e hanno rinunciato a tutto, o quasi.
E hanno voluto che noi studiassimo, che scoprissimo il mondo, che ci costruissimo un futuro.
Siamo stati aderenti alle aspettative?

Dicono di noi...
Dicono di me che sono diverso da quelli della mia generazione. Dico(no?) di me che sono la mosca bianca.
Non sto (e non voglio stare) a descrivere la mia situazione personale, ma oggi – grazie alle nuove tecnologie e alla rete – riesco a guardare la vita dei miei coetanei, dei miei compagni delle superiori, dei miei amici dell'adolescenza passata in oratorio.
Cosa differisce ma da loro?
Nulla. Davvero nulla.
Sapete dove ho trovato la conferma del mio essere uguale (e non dissimile) dai miei coetanei? Dal fratello “scapestrato” di una mia amica.
Da adolescente era “contro”, uno di quelli che “scappavano” dalle aspettative e dalle richieste dei genitori.
Non è scappato solo metaforicamente, ma anche fisicamente.
Ha finito il liceo, si è ritirato dall'università... sembrava aver mollato tutto.
E oggi?
Oggi vedo su FB le foto dei suoi figli e leggo dei successi della sua società. E ricordo di quando, a 17 anni, leggeva il “Sole-24 ore” come se fosse lui, allora, la mosca bianca.

Mio figlio è un privilegiato. Alla sua età io passavo la giornata nei campi, lui invece va a scuola, torna a casa, pranza, guarda la televisione sdraiato sul divano per un'ora e poi ci raggiunge al negozio dove io e sua madre lavoriamo dall'alba. A quel punto si siede al tavolino che gli ho sistemato nel retro e devo solo studiare, ha pure la Coca-Cola.
“Cosa tiene accese le stelle”
M. Calabresi – Mondadori 2011

Per mia madre il divano era “il luogo della perdizione”, il posto dove si sedevano i nullafacenti.
La vergogna.

Dicono di noi che siamo una generazione di perdenti.
Ma io non ci credo.
Io credo che noi quarantenni (o similari) abbiamo ricevuto in eredità un mondo più semplice da affrontare ma più complicato da gestire.
Credo che siamo dei bamboccioni (anche se io sono uscito di casa a 21 anni) e dei mammoni (anche se è di questa mattina l'ultima discussione telefonica con la mamma perché “non ascolta”) semplicemente perché ci hanno consegnato questo mondo.
Credo che il nostro vero difetto sia stato di vivere all'ombra di chi – nel secolo scorso – ha lottato per costruire un mondo migliore.
Per noi.

Oggi è ora che ci svegliamo. È ora che i quarantenni rivendichino il loro ruolo nella società e la smettano di vivere all'ombra delle generazioni precedenti.
È ora che i giornali vengano diretti da quarantenni.
È ora che il mondo della musica, dell'arte e della scienza abbiano i suoi nuovi miti.
È ora che la politica abbia i suoi rappresentanti.

È ora della rivoluzione dei quarantenni. È ora che ci svegliamo.

Siamo ormai genitori delle nuove generazioni. È nostro il compito di costruire il futuro per i nostri figli. È ora che la smettiamo di dipendere – anche solo mentalmente – da chi ci ha preceduto.
È ora che ci prendiamo la responsabilità delle nostre azioni, del nostro mondo e del mondo che vogliamo lasciare ai posteri.

È ora.





giovedì 14 marzo 2013

Cambio di prospettiva


Questa mattina mi sono svegliato alle 5.11.
Senza nessun motivo, così, mi sono solo svegliato e non sono più riuscito a riaddormentarmi. Non dovevo alzarmi, mancava ancora più di un'ora, ma non c'è stato verso.
Le preoccupazioni...” mi sento spesso dire quando mi sveglio un po' prima del solito.
Comincio a crederlo anche io, perché quando mi succede ho in testa ciò che devo fare, quello che non ho fatto, ciò che della professione o della vita privata mi preoccupa.
Normalmente leggo la prima pagina del quotidiano o altre notizie in rete, talvolta mi precipito su facebook per vedere se ci sono commenti o segnalazioni interessanti da guardare.
Questa mattina non è stato così.
Avevo messo proprio ieri sera sul comodino l'ultimo libro che mi hanno regalato ed ho cominciato a leggerlo.

...In questa Italia del nuovo millennio, nel Paese che ha compiuto centocinquant'anni, l'umore più diffuso è lo scoraggiamento accompagnato dal disincanto. Viviamo spaventati, impauriti, in difesa, con il terreno che ci frana sotto i piedi, convinti di essere capitati nella peggiore stagione della storia: la più violenta, la più insicura, la più minacciata, la più cattiva. Siamo talmente immersi in questo presente che ci sfinisce da avere perso il senso del tempo: è scomparsa la memoria del passato e, con lei, anche la possibilità del futuro.

Ma siamo davvero sicuri che ci sia stata una mitica età dell'oro da rimpiangere?
Guardo al secolo scorso e vedo guerre, macerie, stermini, odio ideologico, giovani che si sprangano, terrorismo, stragi, iniquità, disoccupazione, inflazione alle stelle e ingiustizie assortite. […] È questo il mondo da rimpiangere? Quello della P2, del terrorismo rosso e nero che sparava a chi usciva di casa, delle bombe nelle banche, sui treni e nelle stazioni, dei segreti inconfessabili? Oppure quello del ventennio fascista, di due guerre mondiali, della deportazione nei campi di sterminio, della fame? Cosa abbiamo da invidiare voltando la testa indietro?...
"Cosa tiene accese le stelle.
Storie di italiani che non hanno mai smesso
di credere nel futuro."
Mario Calabresi - Mondadori

La prospettiva della giornata è cambiata.
Le preoccupazioni mi sono sembrate meno pesanti, le difficoltà che sarei andato ad affrontare mi sono parse meno insormontabili, la fatica si è contornata di nuova energia.
Il pallido sole che intravedevo sorgere dalle montagne che si scorgono dalla finestra di fronte al mio letto mi è parso più luminoso e caldo.
Sono a conoscenza di quanto accaduto nel secolo scorso (anche se in storia non sono mai stato un genio!) ma trovarle così accorpate – in poco più di 10 righe – mi ha fatto impressione.
Ho immaginato una delegazione di alieni che, arrivata sulla terra, avesse chiesto “Che vi è successo nel secolo scorso?
E la risposta mi ha fatto rabbrividire.

Viviamo davvero in un tempo che ci pare complicato, contorto, angosciante, preoccupante e apparentemente interminabile.
Ma la memoria fa davvero strani scherzi.
È scomparsa la memoria del passato e, con lei, anche la possibilità del futuro.
Mi ha ricordato il dispositivo pedagogico dell'attraversamento dell'esperienza incontrato diversi anni fa, quello che mi ha insegnato che in un processo educativo non ha senso rinnegare o dimenticare ciò che abbiamo vissuto – per quanto traumatico possa essere stato – ma occorre rielaborarlo, rileggerlo in una differente ottica, sforzandosi di trovare l'insegnamento, quella informazione in più che ci permetterà di affrontare in modo diverso – nel futuro – una difficoltà simile a quella appena incontrata.

Si può applicare questo dispositivo pedagogico al momento storico che stiamo vivendo? Come si può trasformare un vincolo in una risorsa?
Non lo sapevo questa mattina alle 5.11 e non sono certo di saperlo nemmeno adesso.
Ma questa mattina, quando alle 5.45 la mia piccola è arrivata nel lettone, l'ho guardata e ho avuto la conferma che occorre provarci.

Non rimpiangere il passato, ma cercare di costruire il futuro.


venerdì 8 marzo 2013

Una generazione di piagnoni?


So che culturalmente non sono certo ad un livello elevato, ma a me piace vedere i talent-show.
Mi piace la musica e la danza. Le nuove voci e gli stili emergenti.
Naturalmente, visto che questi programmi sono per nuovi talenti, strabordano di adolescenti e di giovani.
Mia moglie qualche giorno fa ha sottolineato un aspetto che non avevo notato.
"Ma questi piangono sempre e per ogni cosa. Noi alla loro età non piangevamo mai, era considerata una debolezza."
Cavolo, è proprio vero! Dopo che ha detto questa frase ho prestato più attenzione alla lacrima facile ed ho constatato che l'osservazione di mia moglie era proprio corretta. Piangono quando sono sotto pressione, quando vengono criticati, quando temono di essere eliminati, quando ricevono qualche conferma... 


Ho provato a ragionare su questa particolarità: è un'amplificazione dell'ex tubo catodico o le nuove generazioni hanno un modo diverso di affrontare le emozioni?
La gestione delle emozioni non è mai stato un affare semplice per nessuno e di sicuro è ancora più complesso in adolescenza. Quando poi si tratta di emozioni molto forti la faccenda si complica ulteriormente.

Posto che il ragionamento non è (ovviamente) imperniato su ciò che accade nei talent-show mi domando se questa osservazione sia estendibile ad un target più ampio di adolescenti e (se si) quale sia la motivazione di questo cambiamento.
Il primo aspetto che mi viene in mente è che la mia generazione è cresciuta con genitori e nonni che esternavano poco le emozioni: i gesti d'affetto erano presenti solo per i bambini, ma appena si cresceva un po' erano classificati come "roba da poppanti". Si scansavano i baci della mamma, quando qualcuno tentava di accarezzarti la testa la fuga era garantita...
Inoltre l'affettività fisica giungeva solo dal gender femminile perché i padri (e i nonni) erano più "gente da pacca sulle spalle". 
Anche nel gruppo sociale (soprattutto tra maschi) le emozioni erano "qualcosa da femminucce": se perdevi ad un gioco e ti arrabbiavi tantissimo per la frustrazione e ti salivano le lacrime agli occhi... le ricacciavi indietro a forza per non apparire come una mammoletta. E mai e poi mai accadeva che si verbalizzasse un sentimento verso un amico. 

Poi qualcosa è cambiato.
Le emozioni (giustamente) si sono traformate da "tabù" a "qualcosa che può anche essere mostrato".
Ma non troppo: perché un'apertura emotiva rappresenta comunque una debolezza con il rischio che qualcuno ne approfitti. Magari colpendo duro. A volte parecchio duro.
Oggi mi sembra invece che l'emozione sia diventata un po' una moda, un punto di forza, una sorta di "carta d'identità" con cui presentarsi.
Emozionarsi, esternare i propri sentimenti, ridere sguaiatamente, piangere pubblicamente, tappezzare muri o pagine di diari (reali o virtuali) di t.v.t.b. o t.a.d.b.p.s. sembrano non spaventare più nessuno.
Sminuendo forse il valore delle emozioni? 
Rendendole qualcosa da vendere o da comprare? 
Una sorta di merce di scambio?

E in famiglia? Cosa è cambiato nelle nuove famiglie?
Quale educazione alle emozioni?

mercoledì 6 marzo 2013

Fermarsi a riflettere

Sono giorni vorticosi questi.
L'attualità e la politica si fanno incalzanti. La preoccupazione sulla direzione che prenderà questo paese (e di conseguenza il nostro futuro prossimo immediato) è sempre presente.
E poi c'è il lavoro: ogni singolo caso è in evoluzione (come sempre) e le discriminanti si fanno sempre più numerose. Ci sono implicazioni sistemiche, familiari, individuali per ognuno dei casi che seguo. Senza considerare tutto il lavoro più "burocratico" e gestionale.
In più si aggiungono la progettualità e le nuove idee: che evoluzione avrò da qui a qualche anno? come stanno procedendo le nuove attività che sto mettendo in campo?
Infine la vita privata: la gestione della quotidianità (la rincorsa alla spesa, la scuola della piccola, la benzina da mettere nell'auto), gli affetti familiari, le relazioni sociali.
 
Tutto si fa sempre più caotico.
 
Ma c'è un momento in cui bisogna fermarsi.
Prendersi un po' di tempo, rimettere ordine alle cose e prendere una boccata d'aria.
Altrimenti si rischia di perdere in lucidità.
 
Riflettere sulla situazione politica e sociale del paese significa pensare a come io - da cittadino - posso pormi in questo momento storico e a quale può essere il mio ruolo.
Ragionare sull'attività professionale implica un pensiero su ogni singolo intervento o progetto, sulle relazioni sociali e lavorative, sugli obiettivi da raggiungere e sugli strumenti da utilizzare. Una sorta di auto-supervisione che permetta di trovare nuove idee, nuovi spunti e nuovi stimoli.
Infine pensare alla propria vita familiare spesso significa una cosa sola: ricordarsi quali sono le priorità. E tradurle in pratica, magari improvvisando una scappata al mare dove riappropriarsi di sé e delle persone a cui si vuole bene.
 
In questo periodo storico troppo spesso si parla senza riflettere, in modo istintivo. Ma la storia (quella generale, ma anche la mia - personale - ) mi ha insegnato che l'istinto non è sempre corretto. A volte è governato da movimenti inconsci che abbiamo difficoltà a riconoscere e gestire.

Quindi ho deciso di fermarmi a riflettere.
Di arrestare per un attimo il caos e ascoltare.
Ascoltare i miei pensieri, le mie emozioni e il mio corpo.

Prendetevi una boccata d'aria.
Fermatevi a riflettere.
Basta un solo momento.