lunedì 29 aprile 2013

Responsabilità e cambiamento (appunti sparsi...)


Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate,
ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.
Martin Luther King

Il sentimento che provo più spesso, rispetto alla situazione che stiamo vivendo nel nostro Paese, è proprio che si debba fare qualcosa.
Fare qualcosa.
Pensavo di “aver fatto qualcosa” quando alle ultime elezioni ho votato.
Poi mi sono accorto di non aver fatto abbastanza.
Pensavo di “aver fatto qualcosa” quando ho osservato con attenzione ciò che è seguito alle votazioni, esprimendo i miei pareri e cercando di condividerli con più persone possibili, firmando appelli.
Ma ancora mi sono accorto di non aver fatto abbastanza.
Fare qualcosa.
Cosa possiamo fare? Cosa posso fare?

Come sempre, in questi momenti di empasse, mi appello a ciò che conosco meglio. Al mondo dell'educazione, alle strategie educative...
Non so quanto io possa essere responsabile per la situazione in cui ci troviamo ma certamente un po' lo sono. Inutile negarlo. Inutile addebitare totalmente ad altri la responsabilità.
In un processo educativo, infatti, credo sia sempre importante partire da un'analisi della situazione, per poter capire quali sono i punti di forza e i punti di debolezza. E poter poi costruire.
Assunzione di responsabilità.
In cosa allora sono responsabile?
Probabilmente nella superficialità con cui [non] ho seguito l'evoluzione politica del nostro Paese negli ultimi anni.
Certamente quando, inconsapevole circa il significato profondo di alcune azioni, ho “dimenticato” per esempio di chiedere uno scontrino.
Forse quando ho preferito risparmiare acquistando prodotti non italiani.
Sicuramente quando mi sono accodato allo stuolo dei “lamentosi a prescindere”.

Bene, questo può essere il punto di partenza ma... ancora non so cosa fare (come fare) per aiutare ad uscire da questo momento di crisi.

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia […] è nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. […] la vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L'inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie d'uscita.”
(Albert Einstein)

Spinta propulsiva per superare la crisi è appellarsi alla creatività?
Condivisibile.
Come in educazione, quando in un buon progetto non si deve fingere che le difficoltà non esistano: l'esperienza va attraversata per apprendere da essa.
Cambiare i comportamenti scorretti, senza giudicare il soggetto.

Fare qualcosa.
Devo provare a fare qualcosa.
Cominciare a pensare a cosa potrei fare mi sembra un buon inizio, ma non è sufficiente.
Di sicuro so che – da solo – non posso fare nulla.
L'unione fa la forza.
Il primo pezzo che ci metto è - mentre rifletto - proporre la riflessione. Sperando che da qualcuno venga raccolta.
Perché comunque bisogna fare qualcosa.

domenica 21 aprile 2013

Quanto costa fare il genitore?



Fai il secondo figlio, non c'è niente di più bello!

Così mi ha accolto una mamma qualche giorno fa, reduce – da soli tre mesi – dalla sua gravidanza. Il gruppo di donne con cui condivideva lo spazio e la conversazione ha sgranato gli occhi: chi per l'entusiasmo sentito nella sua voce, chi per l'invidia, chi pensando alla quotidiana fatica di gestirne uno solo...

Non c'è niente di più bello.

Ci credevo, ma – sorridendo – ho risposto che non è il caso. Che una mi basta e avanza.
Mi ha guardato stranita e io ho sentito il bisogno di motivare la mia idea.

Ci vogliono le giuste condizioni per fare un figlio. In questo momento non riusciremmo a gestirlo. Un figlio lo faccio se posso prendermene cura, non per farlo crescere a qualcun altro.

E sono convinto di quello che sto dicendo. Così come sono convinto, nel mio intimo, che ci sia anche una parte di timore e di pigrizia.
E di lucidità.

Dedico a mia figlia tutto il tempo che il lavoro mi lascia, qualche volta anche un po' meno (con qualche senso di colpa, inevitabile) e sono certo che non riuscirei a divedermi con un altro figlio, a dare anche a lui (sarebbe maschio? Continuo a parlarne al maschile...) quello che cerco di dare a lei.
I figli costano.
In tempo, preoccupazioni, energie, paure, riflessioni, litigi, soldi, fatiche, ansie, prospettive...

E poi continuo a leggere di separazioni, divorzi, bellicosità... Ne leggo e ci lavoro.
Padri che si riducono sul lastrico perché massacrati economicamente dalle ex-compagne senza poter passare del tempo “di qualità” con i loro figli.
Madri che annaspano perché gli ex-compagni non si assumono una responsabilità che sia una e si riducono ad uno straccio per i propri figli dimenticando che loro stesse sono delle persone con dei bisogni.
Avvocati (di entrambi) che ingrassano alle loro spalle.
(E mi piace pensare che i soldi che guadagnano li usino per i loro figli e non per i loro vizi...).
Così alla normale stanchezza di chi può crescere in compagnia contando sull'appoggio di qualcun altro, si aggiunge la fatica di dover fare tutto da soli e lo sforzo di superare anche difficoltà aggiuntive.

I figli costano.
Fare il genitore oggi, costa.
Almeno a chi intende fare il Genitore e non il “procreatore”.

Sembra egoistico decidere di non fare un figlio?
Pare strano ammettere di non avere le forze e il coraggio di affrontare per la seconda volta una esperienza faticosa?
Il gioco vale la candela” è la risposta che più spesso mi sento dire.
Mi ripetono che la fatica è mitigata dalla gioia dell'essere genitore.

E io ci credo.
Così come credo che mia figlia mi regali tutta la gioia di cui ho bisogno, come io provo a donarla a lei.
E per il resto... c'è il lavoro di educatore che mi mette in contatto con le emozioni forti e le responsabilità dei processi di crescita.

mercoledì 10 aprile 2013

Crisi d'identità educativa


Documento d'identità scaduto.
Poco male: ho un paio d'ore libere in mattinata e posso tranquillamente andare in Comune per rinnovarlo.
Non abito in una grande città, quindi non mi preoccupo nemmeno di trovare una lunga coda. Al massimo avrò davanti un persona, due se qualcuno (come me) non ha ancora ritirato il calendario della raccolta differenziata della spazzatura e sbircia cosa espongono i vicini per imitarli.
Dunque non mi preoccupo: sto per affrontare un compito per il quale sono pronto.
Ne sono all'altezza... 

L'impiegato dell'Ufficio Anagrafe ritira le foto e si accomoda davanti al suo computer per la compilazione del nuovo documento.
Io sono tranquillo. 
Visto che entro in Municipio una volta ogni morto di papa mi guardo in giro per vedere se c'è qualche novità.
L'impiegato non mi guarda, ma mi pone sempre le stesse domande:
"Colore degli occhi?"
Facile dai: Verdi!
"Altezza?"
Sorrido tra me e me: basso!
"Mettiamo lo stato civile?"
Ma sì dai, di che vergognarsi?
Rispondo come un'automa, fino alla domanda fatidica.
"Professione?"
L'uomo davanti a me è sempre di spalle, quindi non può vedere le rotelline del mio cervello che girano vorticosamente.
Ragiono fra me e me.

Educatore
Ma se mi sentissero quelli che nei gruppi di Facebook lottano e urlano per la differenziazione dei titoli di studio... mi metterebbero in croce perché minimizzo in questo modo la mia laurea quadriennale vecchio ordinamento equiparandola ad una banalissima laurea triennale! Senza parlare delle urla che sorgerebbero per sapere se lavoro in campo sociale o in campo sanitario...
Pedagogista
Già, ma questa definizione potrebbe trarre in inganno, perché in realtà io non sono inquadrato come pedagogista, e poi i profani potrebbero pensare che lavoro solo con i bambini. E non è così.
Consulente Pedagogico
La nuova definizione, il 2.0 della nostra professione. Ma provo ad immaginarmi una pattuglia dei Carabinieri che mi ferma e mi controlla i documenti. 'Scusi... e che lavoro è il suo?' Mo' come glielo spiego?
Scienziato dell'Educazione
Certo: questo è il mio titolo di studio ufficiale ma mi immaginate nei panni di uno "scienziato"? Novello Viktor Frankenstein che tra provette fumanti cerca di creare il nuovo modello di educazione? Da matti solo a pensarci!

Eccheccavolo!
Ho una crisi d'identità professionale. Che lavoro faccio? Chi sono? Come mi qualifico?
Peggio di quando mia figlia mi fece la stessa domanda.
"Papà, che lavoro fai?"

Uffa.
In barba a tutto e tutti io so cosa faccio.
Io Educo. Voce del verbo educare, modo indicativo, tempo presente, prima persona singolare. 
Da Educere = Trarre fuori.
Bambini, adolescenti, adulti, professionisti, disabili, genitori... Educo. 
Cercare di supportare l'altro nel suo processo evolutivo. 
Qualunque età abbia. In qualsiasi contesto si trovi. Qualunque sia la sua difficoltà. A prescindere dal risultato che io vorrei raggiungere.
Mi viene voglia di guardare l'impiegato dell'Ufficio Anagrafe ed enfatizzare la mia risposta con una frase ad effetto tipo 'Il Re è morto. Viva il Re.'

Ma non capirebbe.
E allora mi limito a rispondere.
"Professione: Educatore."


domenica 7 aprile 2013

Cosa sarebbe il mondo senza educazione?

...è che sul proprio corpo l'uomo deve imparare tutto, assolutamente tutto: impariamo a camminare, a soffiarci il naso, a lavarci. Non sapremmo fare niente di tutto questo se qualcuno non ce l'avesse spiegato. All'inizio l'uomo non sa niente. Niente di niente, è stupido come una bestia. Le uniche cose che non ha bisogno di imparare sono respirare, vedere, sentire, mangiare, pisciare, cagare, addormentarsi e svegliarsi. Ma neanche. Sentiamo, ma dobbiamo imparare ad ascoltare. Vediamo ma dobbiamo imparare a guardare. Mangiamo ma dobbiamo imparare a tagliare la carne. Caghiamo ma dobbiamo imparare a farla nel vasino. Pisciamo ma quando non ci pisciamo più sui piedi dobbiamo imparare a prendere la mira. Imparare vuol dire prima di tutto imparare a essere padroni del proprio corpo.
"Storia di un corpo"
D. Pennac


Un cucciolo d'uomo nasce e deve imparare tutto. Ma proprio tutto.
Davvero è così? Che fine ha fatto l'istinto, la parte più interna del nostro cervello?
Cosa sarebbe il mondo senza l'educazione? Che ne sarebbe dell'umanità?

Ogni tanto questa domanda me la pongo. Non tanto per cercare una risposta, perché credo che non riuscirei a trovarla nemmeno scavando nei meandri più lontani dell'evoluzione dell'uomo.
Quanto per cercare di ricordarmene il senso.
Il senso dell'educazione è migliorare la vita dell'essere umano, di renderlo ancora più "umano".

Ma quali sono i criteri che stabiliscono cosa significa "ancora più umano"? Quali sono i paramentri?

Penso al mio essere educatore, a quali sono i valori su cui mi baso per rendere "ancora più umane" le persone con cui lavoro, le persone con cui vivo, mia figlia, me stesso...
Educazione ed autoeducazione. 
E penso a quello che è stato insegnato a me, a ciò che è stata la mia educazione, al tramandarsi dell'educazione.
Se fossi nato in un contesto socio-economico-linguistico differente sarei un educatore differente?
Per alcuni  aspetti probabilmente si.
Ma il principio fondamentale dell'educazione, del mio modo di educare, è la libertà dell'altro.
Renderlo "ancora più umano" significa, per me, renderlo ciò che lui vorrebbe essere all'interno del mondo in cui si trova.

C'è bisogno dell'educazione allora?
 

venerdì 5 aprile 2013

Chiedo aiuto


La luce del corridoio si accende.
Mi maledico per non aver imparato a dormire sull'altro lato perché il raggio mi colpisce in pieno. Sarà la luce, l'istinto o l'età avanzata che non mi regala più i sonni profondi della gioventù fatto sta che apro un occhio sapendo già cosa sta accadendo.
Butto uno sguardo all'orologio.
3:40
Pessimo orario.
Come previsto mi trovo davanti la sagoma della mia piccola, in controluce.
Accendo l'abat-jour facendole cenno di avvicinarsi.

"Papà, ho fatto un brutto sogno."


La faccenda si fa più seria del previsto: non è la solita pipì utilizzata come scusa per infilarsi nel lettone tra e me sua madre. Questa volta no.
"Vieni qui. Vicino a papà i brutti sogni diventano sabbia. Soffiala via."
Lei soffia, io spengo la luce.
So che è un tentativo vano, ma ci ho provato ugualmente.
"Papà io ho soffiato, ma non riesco lo stesso a riaddormentarmi. Non posso togliermi dalla mente il brutto sogno."
"Pensa a qualcosa di bello, pensa a qualche giorno fa quando giocavi sulla spiaggia con la tua amica."
Forse questa tattica funziona: cala il silenzio e la mia piccola si accoccola appiccicata a me, alla ricerca di una posizione comoda (per lei) e conciliante (sempre per lei).
Quasi quasi ci credo e - nonstante l'infame posizione - mi lascio catturare dal sonno.
"Papà mi scappa la pipì, mi accompagni? Ancora non riesco a dimenticare il brutto sogno."
L'innocenza nella sua voce. E io penso tra me e me che tutto sommato un giro in bagno lo possiamo anche fare.
"Adesso chiudi gli occhi e dormiamo fino a domani mattina che è notte."
Ci casco ancora. Passano dieci minuti.
"Papà ho tantissima sete. Tantissima."
Non c'è pace. Mi alzo e le porto da bere.
La sete doveva davvero essere tantissima perché beve come una cammella e poi si riaccoccola in una posizione comoda (sempre per lei) e conciliante (sempre e solo per lei).
Il respiro si fa lento e sento che si è riaddormentata.
Io, al contrario, mi ritrovo con gli occhi sbarrati e un paio di piedini (si fa per dire) conficcati nel fianco a guardare il soffitto.
Alla disperata ricerca di un senso.
Ore 4:30.



Ore 6:50
"Papà la gatta si sta infilando nell'armadio!"
Ecco il secondo risveglio di questo venerdi, brusco come il primo.
Ormai è quasi ora di rialzarsi quindi non ci penso nemmeno a tergiversare.
"Cos'hai sognato di tanto brutto questa notte che ti ha fatto svegliare?"
Così, giusto per andare a fondo.
"Che c'era un vampiro che giocava con me e le mie amiche e quando ci toccava ci attaccava un bollino e noi non potevamo più muoverci."
"E ti sei spaventata perché non potevi muoverti?"
"Si"
Poi arriva la mamma che le fa la medesima domanda.
"Io e te mamma eravamo cadute con la macchina in un burrone e papà non riusciva più a trovarci."
"E come abbiamo fatto ad uscire?"
"La macchina ha messo le ali."
"Allora non era così brutto il sogno. La nostra macchinina ci ha salvate. Abbiamo una super-macchina."
Lei è così brava a sdrammatizzare e io mi sento stupido. Così tanto che mi sento in obbligo di aggiungere il primo pezzo del sogno. Come a confermare che non si è spaventata per niente.
Si va a fare colazione e tutto passa. Tranne che mi porto dietro per tutta la giornata la fatica di un sonno interrotto e una domanda


Perché i bambini fanno i brutti sogni?

Ho letto Freud e tutti i suoi amici che discorrevano sul tema, conosco le diverse teorie sui sogni, l'inconscio, la rielaborazione dei vissuti, l'energia psichica cerebrale utilizzata durante la notte eccetera eccetera.
Faccio l'educatore da anni e spesso mi trovo a parlare con genitori che cercano di capire i loro figli o che tentano di trovare nuove risorse e strategie per affrontare le fatiche quotidiane.


Ma quando capita a me fatico ad utilizzare appieno le mie conoscenze professionali e mi perdo negli occhi impauriti di mia figlia che mi dice di aver fatto un brutto sogno.

E allora faccio tutto ciò che ogni genitore dovrebbe fare: chiedo aiuto.
Consapevole che non si può sapere tutto e che il ruolo di genitore è il più complesso del mondo.


Perché i bambini fanno brutti sogni?