venerdì 31 agosto 2012

Quando la vita di coppia diventa un ring

"Ogni volta che entro in quelle due case, dove faccio i miei interventi domiciliari, trovo le due mamme con nuovi lividi. Loro li mascherano - o cercano di farlo - e se io chiedo cosa sia successo inventano un sacco di scuse. Tutte le volte lo segnalo ai servizi sociali, ma non succede mai molto. Perché non lasciano i loro mariti? Qual è il meccanismo psicologico che le tiene legate a quegli uomini? E loro, i mariti, ogni volta fanno finta di nulla e chiacchierano con me come se nulla fosse. Mi viene voglia di menarli!"
 
 
Questo è il racconto di oggi pomeriggio di un'educatrice.
Ha portato in équipe il problema perché si sente inerme davanti a queste situazioni e ha chiesto aiuto per gestie la situazione:
Che ha fatto l'équipe? Ovviamente è partita una discussione su come intervenire e i pareri sono stati concordi su alcuni aspetti, ma discordi su altri.
C'era accordo da parte di tutti sul fatto che non si può fare finta di nulla altrimenti il ruolo dell'educatore verrebbe sminuito, come se avesse le fette di salame sugli occhi.
Il disaccordo era su come affrontare la situazione: qualcuno proponeva di parlarne apertamente con le mamme, qualcun altro suggeriva di parlarne anche con i mariti, altri rimandavano il compito della segnalazione all'assistente sociale, altri ancora proponevano di non affrontare apertamente il discorso...
Tutte posizioni assolutamente corrette anche se in disaccordo tra loro.
Ma non si riusciva ad arrivare ad una soluzione, perché non avevamo affrontato ancora il vero nodo della questione.
Che è semplicemente uno: qual è il meccanismo psicologico che trasforma queste donne in pungiball senza che se ne lamentino?
La mia opinione è che sia un problema di identità personale: queste donne hanno un'identità fragile, ma talmente fragile, che esiste e si regge solo in relazione al legame con il compagno. Nel momento in cui dovessero ammettere i limiti e la condotta violenta dei mariti non metterebbero in discussione solo loro, metterebbero in discussione anche sé stesse. E la loro identità ne uscirebbe a pezzi. Come un vaso di cocci caduto per terra.
Quindi sopportano, fingono, negano... perché non si tratta di altro che di un meccanismo di difesa. E solo un pericolo più grande (la loro vita o l'incolumità dei loro figli) potrebbe - e purtroppo devo sottolinare il condizionale - scuoterle e far cambiare loro condotta o atteggiamento.
Ma come è possibile che delle donne abbiano un'identità così fragile purtroppo non ci è dato saperlo, non abbiamo abbastanza informazioni (né ce ne possono offrire i servizi sociali) sul loro passato e sugli eventuali traumi che hanno subito.
Cosa può fare quindi un'educatrice davanti ad una situazione del genere? In primo luogo mostrare alla donna che la porta è sempre aperta, che l'occasione per affrontare il discorso è sempre disponibile, che l'ascolto è attivo.
E poi evitare il giudizio, fuggire dalle risonanze di gender che potrebbero fuorviare l'intervento.
Perché anche gli uomini che hanno condotte di questo tipo hanno delle "motivazioni" per farlo. Che non significa giustificarli (lungi da me!) ma vuol dire tenere in considerazione che anche l'aggressività e la violenza hanno dei traumi alla loro base. 

giovedì 30 agosto 2012

Mi "affido" a te: posso fidarmi?

M. ha 8 anni e da due vive in famiglia affidataria. Il suo è stato un lungo percorso: una famiglia d'origine difficile, l'allontanamento coatto da quelli che erano i suoi affetti, un periodo in comunità prima di trovare la tranquillità di un nido sereno. Ma ora la sua tranquillità è minacciata dall'arrivo di un altro bambino: la sua mamma affidataria è incinta. E così quello che sembrava un equilibrio sta diventando un nuovo calvario: la famiglia affidataria "non se la sente più" di tenerla, i servizi sociali sono all'affannosa e disperata ricerca di una nuova famiglia disponibile all'accoglienza (che non si trova) e nel futuro di M. si riaffaccia lo spettro della comunità. Anche se lei ancora non lo sa.
 
L. di anni ne ha 9 e vive in comunità quasi da tre. Anche lui ha alle spalle una storia terribile fatta di un nucleo familiare allargato multiproblematico, di una mamma con un disturbo psichiatrico conclamato, di un padre mai visto né conosciuto né addirittura mai sentito nominare, di problemi economici (si! Nel terzo millennio è ancora possibile soffrire il freddo in casa propria e aprire il frigorifero trovando un piatto di minestra da dividere in sei e nient'altro!). Anche per lui il servizio sociale è alla disperata ricerca di una famiglia affidataria perché L. non debba passare in comunità altri nove anni della sua breve vita. Ma L. è un bambino difficile, con un grave ritardo cognitivo e difficoltà comportamentali quindi non è affatto semplice trovare un nucleo familiare in grado di gestirlo.
 
Ma sono solo due bambini e - in quanto tali - aspirano semplicemente ad un affetto gratuito e ad una serenità che fino ad ora gli sono stati negati.
 
In Italia la legge sull'affido eterofamiliare è del 1983. Ma in questi ventinove anni, nonstante si siano fatti enormi passi avanti, la situazione delle famiglie affidatarie rimane ancora precaria e troppo spesso fallimentare.
Quali sono i motivi? Tanti direi, ma principalmente due.
Il primo che sempre più spesso chi sceglie di proporsi come affidatario lo fa senza una precisa cognizione di causa: spesso perché la strada è meno impervia di quella dell'adozione, quasi sempre senza rendersi conto che prendere in affido un bambino significa - in un certo qual modo - farsi carico anche del suo sistema familiare, talvolta confondendo un atto di amore e solidarietà con un modo per autogratificarsi o per ottenere una migliore immagine di sé davanti alla società.
Il secondo motivo è che - valido anche per le famiglie che affrontano questo percorso con estrema cognizione di causa - ci si sente soli. Le famiglie affidatarie si ritrovano ad affrontare tutte le difficoltà annesse e connesse senza il giusto supporto da parte delle istituzioni e dei servizi specialistici. Sempre per lo stesso bieco motivo: i soldi nel sociale sono sempre troppo pochi e le risorse esigue.
E questo porta al fallimento di un sempre più alto numero di affidi. Con conseguenti traumi su soggetti che già di loro partono in svantaggio.
Che fare dunque?
Occorre effettuare un processo di "educazione all'affido eterofamiliare" predisponendo una seria selezione delle famiglie che si propongono e ideando un progetto integrato, con la presenza di diverse figure professionali, che segua tutto il percorso dell'affido. Assistenti sociali, psicologi, pedagogisti, educatori: una squadra che segua tutte le fasi del processo fino a quando questo sarà terminato, cioè fino alla uscita (per il naturale termine dell'affido) del ragazzo dalla famiglia.
La legge è più che maggiorenne: quanti altri minori dovranno compiere 18 anni in strutture educative senza l'appoggio di famiglie affettuose?

mercoledì 29 agosto 2012

Per mezz'ora Peter Pan aveva ragione

Oggi abbiamo portato la nostra bambina in un parco dei divertimenti per festeggiare i suoi 6 anni e abbiamo assistito ad uno spettacolo su Peter Pan (https://www.facebook.com/PeterPanShowDiLeolandia). Spettacolo carino, adatto ai i bambini ma nulla di straordinario (soprattutto perché lo avevamo già visto lo scorso anno).
Ma non è di questo che volevo parlare.
Prima dello spettacolo c'è stato un monologo preparatorio di Capitan Uncino (che ancora non sapevamo essere lui, visto che non era ancora truccato ed abbigliato).
Voleva creare l'atmosfera, scaldare il pubblico, introdurre l'argomento.
In questo monologo ha parlato della differenza tra adulti e bambini: ha mostrato quanto gli agiti dei bambini siano più spontanei di quelli dei grandi citando una frase che spesso i cuccioli utilizzano per superare le difficoltà e andare avanti.
"Chissenefrega" era la frase.
Ha chiesto a tutti - per la mezz'ora che durava lo spettacolo - di ritrovare il bambino che c'è in noi e dimenticare le difficoltà, i limiti, le ipocrisie e le ipocondrie del mondo adulto.
Ci ha fatto urlare la magica frase in coro, a gran voce, per affrontare i successivi 30 minuti con uno spirito libero e puro.
Incredibile: c'è riuscito! Risate, coretti, canti... senza inibizioni e freni.
Perché nella quotidianità dimentichiamo il bambino che c'è in noi? Ovvio che la maturità porta responsabilità, impegno... ma se la affrontiamo con troppa adultità rischiamo di perderci le parti divertenti della vita e di soccombere nelle responsabilità e nei problemi.
Non ho mai condiviso la paura di Peter Pan di crescere (e spesso rimando ai miei adolescenti che diventare adulti non è poi così male come può sembrare), ma di una cosa sono certo: vivere ogni tanto una mezz'ora ritrovando il bambino che c'è in noi aiuta ad affrontare meglio il nostro essere grandi. 

martedì 28 agosto 2012

Comunicatori tecnodipendenti

Due giorni senza il computer e la connessione ad internet.
Dico: solo due giorni!
E cosa mi è successo? Ero incavolato nero perché non potevo scrivere i miei post e controllare il blog. Come facevo prima dell'avvento della tecnologia? Come mai la rete e tutto ciò che vi è connesso sono così profondamente radicati nella nostra quotidianità?
Computer, internet, cellulare, tablet... tutto rientra nella nostra vita in modo così automatico che quando non l'abbiamo ne sentiamo la mancanza.
O almeno così è per me.
La domanda mi è sorta spontanea: non si può comunicare senza tutta questa tecnologia?
Certo che si può - in questi due giorni ho ovviamente comunicato con le persone che mi stanno intorno - ma non si può negare che il progresso ci offre numerosi e ottimi strumenti per allargare il nostro raggio d'azione.
Le chiacchiere con l'affezionata lettrice (e ormai amica) di Arezzo - non esattamente due passi da casa mia, nonostante volesse venire a mangiare la torta di compleanno della mia bimba - , i commenti della lontanissima lettrice degli Stati Uniti o la meno lontana della Svizzera, la curiosità di verificare ogni giorno se i lettori che il sito mi dice essere in Germania, Russia, Spagna hanno raccolto il mio invito e hanno inserito un loro commento, hanno lasciato un segno tangibile (al di là della fredda statistica) del loro passaggio.
Ormai credo di avere il verme solitario della comunicazione, ne ho così bisogno che se mi manca la mia dose quotidiana vada quasi in crisi di astinenza.
Perché?
La risposta è semplice: ho voglia di comunicare! Ho voglia di esprimere i miei pensieri e di leggere e ascoltare quelli degli altri.
Ho bisogno di questa circolarità ogni giorno, perché la comunicazione mi fa esprimere, mi dà la possibilità di riflettere e di conoscere chi la pensa differentemente da me e quindi mi offre l'occasione di crescita.
Ecco perché non posso farne a meno!
Qualche giorno fa mi facevano (giustamente) notare che in alcuni contesti, per alcune situazioni, è però fondamentale comunicare guardandosi in faccia.
Verissimo, dato che - come già sottolineavo qualche post fa - la comunicazione non passa solo tramite il canale verbale.
Ma quando non è possibile guardarsi in faccia che si fa? Si rinuncia al processo comunicativo?
Assolutamente corretta anche tutta la disquisizione sui limiti della comunicazione online, dei rischi del web e dei pericoli che si possono correre quando la comunicazione in rete sostituisce completamente quella in presenza.
Adolescenti che si rinchiudono nei social network, persone (di varia età) che riescono a dire le cose solo tramite sms o mail... anche io condanno queste estremizzazioni.
Ma la comunicazione - tutta e globale - ritengo sia una parte fondamentale della nostra vita.
E quindi cerco di utilizzare tutti i canali che ho a disposizione.
Mi ritengo fortunato a non essere nato nel Medio Evo!

domenica 26 agosto 2012

Una lettera a Mamma e Papà


Cara mamma, caro papà,
Sono proprio felice di essere vostro figlio.
Con voi il mondo e la vita mi sembrano belli e gioiosi, non vi cambierei con nessuno al mondo.
Mamma sei la più bella del mondo, papà il più forte e sapiente di tutti. Mi piace tanto passare del tempo con voi, quando siete lì con me e mi date retta, mi ascoltate, mi coccolate, mi fate fare le cose dei grandi, mi preparate il cibo...
Sento talvolta quanto siete presi e occupati nei vostri pensieri e allora, per farvi accorgere che ci sono, ne invento un po' di tutti i colori, almeno poi mi date retta e siete lì con me. Tante cose che vi fanno arrabbiare  però io non le faccio apposta, non me ne accorgo proprio e poi mi dispiace tanto vedervi tristi perchè c'è disordine, mi sporco, urlo, corro, salto sul letto e sul divano... lo so che devo crescere e diventare come voi ma perché, per un momento, non facciamo l'inverso? Voi vivete alla mia altezza, vi mettete in ginocchio bassi, bassi come me e provate a guardare il mondo dal mio livello... Vedrete quante cose cambiano, il pavimento è così vicino che la cosa più ovvia è sdriarcisi su, gli oggetti sono più comodi per terra, le persone riconoscibili  dalle gambe o dalle ginocchia e poi qualcuno può sempre calpestarti se si muove di fretta e tu se lì tra i piedi. Non è che mi lamento, è bello anche vedere le cose da sotto in su, ma l'orizzonte è forse un po' più ristretto del vostro, e i pericoli un po' più vicini e la paure più facili.
tante cose cambiano nel mio mondo, forse se provate mi potrete capire, e la distanza fra noi, che c'è anche se voi non vi accorgete, potrebbe essere ridotta un po'.
Chissà che allora non riusciate a capire anche la paura che mi assale, per voi incomprensibile, di perdervi, di non vedervi più comparire dietro quella porta che si chiude alle vostre spalle a scuola, o quando papà va al lavoro e a me sembra che non torni mai, oppure l'ondata di tristezza che mi viene addosso quando sento nell'aria che qualcosa vi va storto.
Lo so che fate del vostro meglio e che la vita anche per voi è complicata ma io voglio vedervi sereni e aiutarvi, fin dove posso.
Un bacione.

venerdì 24 agosto 2012

L'utero automobilistico

Nel corso dei miei studi universitari ho più volte incontrato il concetto di setting educativo e ne sono sempre rimasto affascinato.
L'importanza, la cornice, la strutturazione del setting... sono stati argomenti che ho affrontato con interesse perché ho sempre ritenuto che una sua corretta progettazione fosse come avere un educatore in più, un collega virtuale entro il quale muoversi che aiuta con i suoi strumenti intrinseci.
Viene definito come "l'insieme delle costanti nel cui ambito si svolge un progetto educativo" ed è composto dagli spazi, dai tempi, dalle regole, dai soggetti coinvolti e dal ruolo che ricoprono, dalla relazione che li lega...
Bello leggerlo e studiarlo in teoria, altro è metterlo in pratica. 
Perché spesso il setting fa parte della cultura implicita di un'organizzazione e non è oggetto di riflessione consapevole. Inoltre viene influenzato anche dalle regole sistemiche a cui deve rispondere l'organizzazione stessa (tra cui la principale che è la propria sopravvivenza, ma di questo parlerò in futuro visto che è un tema che mi sta caro... soprattutto relativamente agli enti pubblici!).
Nel corso della mia professione mi sono trovato in un mucchio di setting differenti: strutturati, non strutturati, scelti, casuali (e di conseguenza da adattare o da sfruttare al meglio), progettati, caotici...
Ma il miglior setting in cui mi sia mai trovato ad operare è... la mia auto!
Quanti colloqui, discussioni, ragionamenti, silenzi ho vissuto con i miei ragazzi in quell'antro protetto. E devo dire che è stato uno dei migliori luoghi che anche i miei utenti abbiano mai gradito.
Quante confidenze, quanti pianti, quante confessioni... e quante soddisfazioni (per entrambi) una volta usciti da quel setting. E anche un po' di frustrazione perché il momento magico era finito, si era chiuso e nessuno sapeva se si sarebbe riaperto ancora.
Mi sono chiesto più volte il motivo di questa assurda ma positiva particolarità dell'automobile.
Di certo non era connessa al tipo di automobile: come tutti ho avuto dei cassoni assurdi (mia moglie mi rinfaccia sempre la fantastica opel corsa arancione che viaggiava a 3 cilindri con cui mi sono presentato al nostro primo appuntamento) o auto decenti; veicoli "mignon" (ah la mia smart... che bella!) o "normodotati" (la comodità interna della suzuki swift non ha paragoni con tutte le mie auto precedenti).
Né la differenza poteva essere negli attori coinvolti o nella loro relazione educativa: io ero sempre io, i ragazzi erano sempre i ragazzi. Avevamo la stessa relazione anche in altri contesti...
Quindi era proprio il setting ad essere differente.
Ma cosa caratterizza (almeno per me) l'automobile come un setting favorevole? 
Intanto credo che l'auto rappresenti un po' l'umanità del soggetto che la possiede: la mia è quasi sempre sporca, con la musica che preferisco, che puzza di sigarette e caotica, molto caotica. Ma riflette la mia personalità ed ho dedotto che questo "specchio dell'anima" venga respirato anche da chi viene con me. 
Inoltre in auto mi sento proprio me stesso: canto a squarciagola (posso farlo solo lì, altrimenti rischierei un arresto per disturbo della quiete pubblica), adoro guidare, mi sento libero ed euforico perché ogni viaggio (lungo o breve che sia) per me rappresenta il raggiungimento di una nuova meta, di una nuova avventura.
E anche questo credo traspiri dalla mia auto, e venga quindi percepito da chi mi accompagna.
Ultimo (ma non ultimo) l'auto è un contenitore limitato, con dei confini precisi all'interno della quale ci si sente comodi (o ci si può accomodare): personalizzare la posizione del sedile, togliersi le scarpe, regolare la temperatura... tutte azioni che compiamo per il nostro benessere.
Stare in auto è quindi un po' come tornare in un utero materno: un luogo accogliente che ci predispone alla relazione.
Ecco perché gli interventi educativi in auto sono sempre stati così efficaci. 

giovedì 23 agosto 2012

Che suono fa il cambiamento?




Fa caldo!
Aspettando che la nuova figura mitologica (Beatrice, la moderna eroina proveniente direttamente dal nord) arrivi a sconfiggere l'attuale nemico (Lucifero, l'infernale antagonista proveniente dal caldo deserto) liberandoci da questa opprimente calura, sono in auto e - spostandomi da un lavoro ad un altro - ascolto la radio.
Arriva una canzone che mi piace molto e - sebbene io l'abbia già ascoltata un milione di volte - oggi vengo colpito in modo particolare da un verso.
La poesia della neve che cade e rumore non fa...
Complice questa pestilenziale temperatura sahariana mi immagino in un bel panorama innevato, fresco, silenzioso.
Si, la neve che cade produce un silenzio innaturale, ovattato, quasi magico. E porta un grande cambiamento: di temperatura, di colori, di paesaggi, di poesia.
Quindi il cambiamento è silenzioso?
La mia perversa mente pedagogica si mette subito a ragionare su questo: sul rumore del cambiamento.
Io, che come educatore sono un agente del cambiamento, che rumore faccio?
Ripenso alla mia professione: spesso parlo, a volte urlo, qualche volta sussurro, raramente canto (e meno male, visto che sono stonato peggio di una campana).
Ma questi sono strumenti del cambiamento, non rappresentano il momento del cambiamento.
Allora mi accorgo che i cambiamenti spesso sono impercettibili, silenziosi e invisibili se non si ha l'occhio allenato.
Aiutare nel cambiamento è un processo lento, fatto di passi avanti e indietro, di scambi e di ricambi.
Ma oggi, solo oggi, mi accorgo che è un processo silenzioso.
Di un silenzio assordante.
E poetico.
Come la neve che cade e rumore non fa.

 

mercoledì 22 agosto 2012

L'educazione alla coppia: uno sforzo di tutti

La vera sfida è la quotidianità
(immagine tratta da  www.psicologaemocional.com)

Scrivevo già tempo fa su divorzi, difficoltà di coppia e bellicosità varie 
centrando il ragionamento sulle implicazioni che queste guerre hanno sui minori.
Ma nel mio lavoro - purtroppo - ne posso constatare gli effetti nefasti anche sugli adulti. Ed oggi vorrei concentrarmi su questi.
Non ho intenzione di soffermarmi sulle colpe: che sia l'uomo o la donna ad iniziare il conflitto poco importa. Perché spesso il conflitto nasce da uno dei due soggetti ma cresce su un terreno fertile, creato da entrambi e coltivato dalle rispettive responsabilità.
Né mi interessa riflettere sull'evolversi della battaglia o sui risultati giuridico-economico-sociali a cui porta.
Vorrei poter ragionare su altri due aspetti.
Il primo è come poter evitare che il conflitto (inevitabile in ogni incontro tra esseri umani) trovi un terreno fertile dove accrescere la propria violenza e trasformarsi in rottura. 
Quali sono le motivazioni che creano questo fertile humus di disaccordo? Credo che le principali siano la difficoltà comunicativa e la mancanza di attenzione ai bisogni dell'altro. Essere una coppia - infatti - significa essere di più che la somma di due individui. Il sentimento amoroso è di certo importante, fondamentale ovviamente, ma non è sufficiente perché anche l'affetto e la passione mutano nel tempo. Come tutte le cose.
Essere una coppia dovrebbe significare in primo luogo condivisione: comunicare i propri bisogni, pensieri e sentimenti; ascoltare i bisogni, pensieri e sentimenti dell'altro. E trovare una via comune che li accomuni, rinunciando per un pezzo al proprio in favore non dell'altro, ma della coppia.
Pensieri scontati si potrebbe affermare. Ma non è sempre così (come testimoniato dal sempre più alto numero di separazioni e divorzi) ma quand'anche fosse è sempre utile ricordar(se)lo.
Il secondo aspetto è la crisi identitaria dell'individuo quando la coppia scoppia. 
Perché parlo di crisi identitaria? 
Quando decido di formare una coppia - sulla base dei presupposti che ho appena descritto - in un certo qual modo rinuncio ad un pezzo della mia identità in favore dell'identità di coppia. Esisto come individuo anche in funzione del mio legame con la mia compagna (o compagno) di vita. A livello micro e macrosociale mi trasformo, divento "marito di...", "fidanzato di...".
E quando la coppia non c'è più? Mi riapproprio completamente della mia identità scordando il pezzo che ho "sacrificato" in precedenza?
Io credo di no. Penso che il cambiamento ormai sia avvenuto ed è difficile tornare indietro. Illusorio, più che altro.
Nella mia esperienza professionale vedo uomini (e donne) dilaniati dalle separazioni, con traumi e ferite che - nonostante il processo di negazione - esistono e sono ben visibili a tutti. E creano difficoltà quotidiane, lasciano il segno anche nelle relazioni che si cercherà di costruire in futuro.
Sento spesso dire da persone di altre generazioni frasi tipo "Ai miei tempi il divorzio non esisteva... altrimenti non sarei stata/o sposata/o così tanto tempo!".
Forse un'affermazione del genere è reale ma non completa. Credo che in un passato, peraltro non troppo remoto, si affrontassero le difficoltà in un modo diverso, senza pensare alla fuga come alla prima soluzione di un conflitto.
Quale potrebbe essere allora la via d'uscita di questo processo?
L'educazione alla coppia.
Un processo che comincia in famiglia e nella società, dove si impari a dare più importanza alla comunicazione, all'esempio, al piano di realtà.
Non cercando di evitare i conflitti, ma affrontandoli con lucidità e consapevolezza.
Perché in una coppia la vera sfida è la quotidianità.

martedì 21 agosto 2012

Dov'è la felicità?


 "A volte ci si mette una vita, o quasi, per capire che la felicità è lì dove non ci saremmo mai aspettati. Basta solo avere il coraggio di guardarla in faccia"
"Ci si mette una vita" - F. Russo




"Felicità" - Ideogramma


La ricerca della felicità, un obiettivo che tutti dovrebbero avere e perseguire, per essere completi in sé stessi e con gli altri.
Ma è proprio vero che tutti cercano la felicità? E ancora: la felicità è soggettiva od oggettiva? Cos'è la felicità per me? Da cosa è rappresentata la felicità per un bimbo, un anziano, un single, un malato terminale, un malato psichiatrico?
Cavolo, ragionare su questo tema rischia di diventare complicato!
E allora perché farlo?
Credo che la felicità - intesa come ben-essere - debba sempre essere l'obiettivo principale di ogni singolo intervento educativo. Un obiettivo che non vale solo per l'educando ma anche per l'educatore!
Lo stato di ben-essere però non può essere inteso semplicemente come il contrario di mal-essere (cioè la presenza di una malattia o più generalmente la mancanza di qualcosa nella nostra vita) ma deve essere considerato come uno stato globale, sistemico, inteso come "tutto": se l'individuo è un sistema complesso anche la rappresentazione della felicità (del ben-essere) non può avere dimensione oggettiva. Questo è tanto più chiaro se pensiamo alla nostra rappresentazione di quello che significa "stare bene".
Come progettare un obiettivo educativo, quindi, se non ne conosciamo le caratteristiche? Come possiamo aiutare i nostri educandi a raggiungere la felicità se non sappiamo che tipo di accezione attribuiscono a questo stato? E se addirittura nemmeno loro la conoscono?
Possiamo trovare una via d'uscita in uno strumento fondamentale del nostro lavoro: l'osservazione. Il processo osservativo serve all'educatore per effettuare un'attenta analisi dei bisogni e una corretta valutazione delle risorse. 
E poi c'è un altro strumento che ci può venire in aiuto: la relazione.
Proprio perché parlavo del raggiungimento della felicità di entrambi i soggetti coinvolti non possiamo prescindere dalla relazione educativa, primo e vero fondamento di ogni intervento.
Intesa però in senso globale, bidirezionale, che agisce effetti su entrambi gli attori coinvolti e li reindirizza verso nuovi livelli di relazione.
Osservazione e relazione - dunque - per capire cos'è la felicità e come raggiungerla insieme, tenendo a mente che si tratta di un concetto dinamico, in continuo mutamento. Come il processo comunicativo, come la relazione educativa...
Ed è sempre importante l'attribuzione di uguale importanza  allo stato di ben-essere dell'operatore, che lo mette nelle condizioni migliori per poter lavorare.
Ricordando che la felicità può essere anche nei piccoli momenti.

Oggi per me la felicità è vedere il sorriso di mia figlia senza il dentino che la fatina si è portata via questa notte!



lunedì 20 agosto 2012

L'acchiappatore nella segale: una metafora educativa?

"...ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell'immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c'è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull'orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l'acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l'unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia."
 da "Il Giovane Holden" - J.D. Salinger

Ho letto questo romanzo ultimamente, l'ho terminato un paio di giorni fa. E onestamente non ne ho capito molto il senso.
Però ho colto questa frase che mi ha attaccato addosso un po' di inquietudine. Perché mi sembra molto una metafora del lavoro educativo.
Holden - notoriamente inconcludente in ogni aspetto della sua vita - interrogato dalla sorellina su quale sia la cosa che gli piace fare nella vita (nella vana speranza di accendere in lui un lume, un obiettivo che potrebbe voler raggiungere) - risponde che vorrebbe fare l'acchiappatore nella segale.
Cioè salvare tutti coloro che - inconsapevolmente - rischiano di cadere nel burrone. Li identifica come bambini cioè come soggetti che, differentemente da lui che è un adolescente, hanno meno risorse, meno strumenti.
E non è questo il senso del lavoro educativo? Cercare di aiutare chi ha meno strumenti? Chi si trova in una situazione di difficoltà?
Ma dove sta allora il senso di inquietudine?
In due aspetti, principalmente.
Il primo è di certo il senso di onnipotenza: voler "salvare" tutti coloro che sono in difficoltà. Che è un grosso rischio per l'educatore poiché tutti noi professionisti sappiamo che ognuno è artefice del proprio destino. Il nostro compito, infatti, non deve essere salvifico ma di opportunità. Offrire agli altri una possibile differente visione di sé stessi e della propria situazione. Sarà poi l'altro a scegliere.
Ma si sa bene che gli educatori - in fondo in fondo - hanno anche un grande Ego e nel loro intimo sperano di cambiare il mondo, le persone, insomma... tutti.
Dove sta quindi la differenza tra equilibrio professionale e senso di onnipotenza? Nel "giusto mezzo", dove stanno spesso le cose - appunto - giuste. A mio parere il senso di onnipotenza è il motore del nostro lavoro, quel motore che ci fa andare avanti anche quando (spesso) ci si deve confrontare con il fallimento e il conseguente senso di impotenza. Ma l'onnipotenza va razionalizzata, ridimensionata e qualificata come sentimento non umano e quindi irraggiungibile. E lo si può fare solo attraverso diversi strumenti professionali come il team, la supervisione, la formazione continua, il confronto e il dialogo.
Il secondo aspetto che mi ha provocato quella sensazione di inquietudine è stata la conclusione a cui arriva il giovane Holden: "Lo so che è una pazzia".
Qual è la follia? Salvare tutti? O tentare (una volta che ci si è scontrati con i propri limiti umani) di salvare?
Il lavoro educativo è una follia?
Certe volte, in effetti, me lo chiedo. Mi domando quale sia il senso di combattere, spesso, contro i mulini a vento, nelle battaglie perse, in situazioni che già in partenza - sulla carta - ci vedono come sconfitti.
Eppure da quasi vent'anni, giorno dopo giorno, vado avanti in questa mia follia. Anno dopo anno continuo a lavorare, a fare l'educatore, a tentare di "salvare" quanti più riesco.
Anche se qualche volta mi dico che vorrei tanto andare a lavorare in un supermercato dove la relazione con l'altro è limitata ad un più semplice "Buongiorno... vuole un sacchetto?... Carta o bancomat?... Arrivederci" senza nessuna implicazione personale, senza alcuna domanda. Una relazione superficiale che non lascia segno ma non arreca nemmeno danno o dolore.
Perché allora continuo a fare l'educatore?
Per un solo motivo: se riesco ad aiutare anche un solo individuo in tutta la mia carriera ho raggiunto il mio obiettivo e ho gratificato (almeno per un pezzettino) il mio ego onnipotente.
Si tratta di follia?
Probabilmente si.
Ma è la mia. E me la tengo stretta.






Colui che non ha mai fatto un errore,
non ha mai tentato qualcosa di nuovo. 
Albert Einstein 

domenica 19 agosto 2012

Fare il padre oggi: una sfida o una dannazione?


Cambiare il pannolino, fare il bagnetto, preparare il brodo vegetale e la pappa, pettinare, cantare la ninna nanna e raccontare storie, vestire e fare i codini... Tutte attività da mamme!
E se le svolgono i papà? Un mucchio di complimenti, ma vengono chiamati "mammi".
"Mammo": mai definizione mi fece più infuriare!
Perché non si può riconoscere che questi compiti sono anche di competenza del "sesso forte"?
Normalmente si ritiene che il prendersi cura dei cuccioli sia di competenza esclusiva del gentil sesso. Perché fino a quando i figli non vanno a giocare a calcio i padri sono inutili! Quale altro compito educativo potrebbero avere se non di accompagnarli a fare sport? E se - come, per fortuna, è accaduto a me - il cucciolo è una cucciola? Non avrò un compito fino a quando non si tratterà di spaventare potenziali fidanzati?
Io mi oppongo!
E non solo per affetto, ma per una sana convinzione che nel naturale processo di crescita di un figlio il compito di entrambi i genitori è importante.
Qualche post fa ragionavo sulla differenza tra "to care" (=curare) e "to cure" (=prendersi cura). In questo caso, però, non c'è differenza di gender nei due compiti: padre e madre devono curare e prendersi cura dei propri cuccioli.
La differenza sta nel ruolo perché ogni genere ne ha uno suo nell'educazione. Che non significa - secondo me - che ognuno ha dei compiti precisi ma distinti, quanto che ogni singolo compito va svolto secondo le proprie capacità e peculiarità.
Perché se è universalmente noto che la madre deve rappresentare il legame simbiotico che porta all'attaccamento sicuro, quando il padre non si occupa di spezzare questo legame e introdurre il piccolo uomo (o donna) nei rapporti sociali il legame simbiotico si trasforma in patologia.
La mamma rappresenta l'affettività, l'accudimento, il porto sicuro in cui approdare nei momenti di difficoltà... Ma il papà deve essere il traduttore dei legami sociali, il veicolatore delle norme e dell'autorevolezza.
Ma per quanto riguarda l'accudimento primario? Un papà può cambiare un pannolino senza ricoprire un ruolo improprio naturalmente attribuito esclusivamente ad una madre? 
Ancora una volta io rispondo no!
Perché il cambio del pannolino da parte di una mamma è notoriamente differente da quello di un papà! Ma entrambi sono fondamentali poiché il modo in cui si affronta la genitalità (aperitivo della differenziazione sessuale) deve essere globale: uomo e donna vivono i propri organi genitali in modo differente, ma conoscere come l'altro gender vive il rapporto con questa sfera molto delicata della nostra vita diventa estremamente formativo.
Tutto vero e sacrosanto?
Può essere.
Ma come vive l'uomo la propria mascolinità quando viene definito "mammo"? Come può essere convinto della positività delle proprie azioni se vengono qualificate come poco virili?
Certamente non in modo positivo visto che sentirsi attribuire una caratteristica femminile - diciamoci la verità - a noi maschietti dà un po' fastidio.
Nella moderna società il ruolo maschile viene messo all'angolo nell'educazione dei figli, nel processo di emancipazione, nella moda... La crisi dell'uomo - dunque - di chi è colpa? A chi bisogna attribuirne la responsabilità?
La donna - dagli anni 70 in poi - ha dovuto lottare per vedere riconosciuto il proprio ruolo all'interno della società.
Giustamente.
Ma l'uomo che ha fatto in proposito?
Per paura di opprimere la lotta femminil-femminista ha abdicato al proprio ruolo. 
Perché senza la supremazia fisico-aggressiva il maschio non sa più da che parte stare?
Senza il machismo e il celodurismo l'uomo non sa come posizionarsi?
Ridicolo! E primitivo!
In educazione anche i padri hanno un loro ruolo, semplicemente non devono avere paura di ricoprirlo!
E forse comincerà una vera rivoluzione culturale che porterà - seriamente - alla parità dei sessi.
In educazione e nella società.

sabato 18 agosto 2012

Complemese

Oggi il blog compie un mese: il primo post risale infatti al 18 luglio 2012...
Mettere una torta con una sola candelina mi sembrava triste... allora metto questa perché in un solo mese il blog ha avuto più di 2000 visite.
Ne sono felice e orgoglioso.
Grazie a tutti. 
Continuate così, anzi di più!


venerdì 17 agosto 2012

Istinto educativo nel lavoro di comunità

Said, l’ orco cattivo...
Said è cattivo, violento, ruba, minaccia, tutti i giorni picchia qualche compagno più debole, non rispetta le regole, è menefreghista, provocatorio, scorretto.
Said fa il duro, risponde in modo maleducato, ti manda al diavolo ma non riesce a guardarti negli occhi, se gli chiedi come sta prende la sedia e ti si piazza davanti parlando di qualsiasi cosa pur di stare lì con te, tranne forse dirti come sta, Said fa fatica ad addormentarsi, anche quando è piegato dalla fatica, si agita e urla durante la notte, ma dice sempre di aver dormito bene. Ha occhi da bambino in un corpo da uomo, un corpo imponente, muscoloso, forte ma pieno di cicatrici che raccontano la sua storia...cicatrici di coltelli, di bastonate, di frustate...cicatrici visibili, segni appena insignificanti rispetto alle cicatrici più profonde che non si possono vedere, che non si possono contare, che non si possono spiegare, le cicatrici nel cuore di questo ragazzo così cattivo, così violento, così arrabbiato...
Lo staff degli educatori si interroga, c’è chi propone le dimissioni, valutando giustamente che non si può tollerare oltre, che bisogna tutelare gli altri ragazzi, che non è educativo non dare una risposta decisa ad un comportamento così inadeguato...c’è però chi non vuole arrendersi, chi vuole dargli un’occasione perché, al di là di tutti gli atteggiamenti chiaramente deplorevoli, al di là di ciò che si può dimostrare, a livello emotivo, di sensazione, d’istinto, ha ‘avvertito’ qualcosa che non deve, non può, non vuole ignorare. Lo staff discute, si confronta e alla fine, correttamente o meno, sceglie di dare senso a questa intuizione, emotiva e irrazionale ma abbastanza forte da essere promossa e difesa, forse quindi anche significativa.
Si pongono delle condizioni a Said: deve ‘ripagare’ la nostra disponibilità con la sua, deve accettare di trasformare i suoi errori e le sue difficoltà in risorse, deve accettare le nostre regole e permetterci di avvicinarci a lui, a quello che pensa e a quello che prova.
Said accetta e si impegna a controllare l’istinto all’autodifesa, ascolta i consigli degli educatori e sperimenta nuove modalità per gestire la sua aggressività: affronta con più pacatezza gli scontri con i compagni, cercando la mediazione degli adulti; si confronta con maggior disponibilità con gli educatori, accogliendone quotidianamente gli stimoli. Si scopre un ragazzo sensibile, molto intelligente, capace di ironia. Probabilmente costretto a crescere troppo in fretta, obbligato a imparare presto la legge della sopravvivenza, a colpire per primo per non essere colpito, all’uso della violenza e della forza per non soccombere, ha ancora voglia di giocare, di commuoversi, di affetto.  Comincia un tirocinio lavorativo come apprendista verniciatore, riportando risultati talmente positivi che il responsabile dell’azienda vorrebbe assumerlo in regola, dichiarandosi disponibile anche per aiutarlo nell’inserimento nella rete sociale del territorio. Frequenta il corso di alfabetizzazione, dimostrando forte volontà di imparare e migliorarsi.
Eppure è ancora sfuggente...i suoi occhi continuano a sembrare pieni di lacrime che non possono cadere, ancora si ritrae a un contatto fisico che seppur d’affetto teme come un’aggressione, come un animale ferito che non può difendersi...
Gli educatori vivono la sensazione di una profonda solitudine, di una paura inespressa che soffoca Said...cercano un contatto per poter capire, per poterlo accompagnare nella fatica di sopportare un peso che sembra non abbandonarlo mai...gli chiedono di fidarsi, di esprimere la sua disperazione, gli offrono uno spazio esclusivamente per lui. Con molta fatica e vergogna Said racconta che ci ha ingannati, che ha mentito rispetto alla sua età e che tra poche settimane sarà maggiorenne. Said sa che il suo compleanno corrisponde alla dimissione, sa che tornerà per strada a combattere per non soccombere, a dover essere il più forte e il più cattivo, ad essere solo. Non ha scelta: in Marocco non può tornare, in Italia non potrebbe stare.
‘Avevo paura e non volevo che finisse...mi dispiace’.
Gli educatori non possono fare nulla: la legge è chiara e va rispettata, la mediazione con i Servizi Sociali è impraticabile, il Tribunale non si occupa del caso. Avvertono insieme a Said la sensazione di impotenza e di solitudine, si arrabbiano per l’ingiustizia, per l’assurdità di questa situazione...
Said ha provato a inventarsi una vita. Voleva poter essere diverso, voleva qualcuno che potesse amarlo, voleva non doversi difendere, voleva una casa, del calore, una mano da stringere. Sapeva che sarebbe finito, che era una solo una puntata di un film molto più lungo...ma voleva viverla comunque. Ora rimane solo lui a far da autore, regista e protagonista, con il suo corpo da uomo, il suo cuore da bambino e i suoi occhi finalmente pieni di lacrime...
di Michela



Questo è il racconto di un'educatrice (una collega, ma soprattutto un'amica) che - come me - ha lavorato tanti anni in comunità adolescenti.
Ma non è solo un racconto: è una storia dentro ad una storia.
Perché in queste righe non si legge solo la vita di Said (ovviamente un nome di fantasia) ma anche la lettura che gli educatori danno ai suoi comportamenti e ai suoi agiti.
E tra le parole di questa storia emergono anche i sentimenti degli operatori: paura, rabbia, frustrazione, impotenza... Tutti sentimenti comuni a chi lavora in questo ambito, visto che i "risultati positivi" non si raggiungono quasi mai...
Ma tra tutti prevale - e questa è la fortuna dell'orco cattivo - l'istinto di una persona e la sua caparbietà nel convincere i colleghi che sotto alla corazza c'è dell'altro - appena percepibile - che potrebbe essere importante, una risorsa da non perdere, da non tralasciare.
Nasce come una scelta, ma si trasforma in un atteggiamento. Una modalità di relazionarsi che emerge negli adulti e colpisce Said, fa vacillare la sua corazza, gli permette di aprire uno spiraglio e lasciare che l'altro entri. Superando la paura e le difese imparate sulla sua pelle nel passato.
In poche parole si predispone alla relazione.
E questo gli permette di pensare, ipotizzare, valutare l'idea di un cambiamento. Una diversa modalità di presentarsi e di vivere il mondo.
Ma purtroppo i limiti di contesto rimangono e la storia non cambia.
O forse si?
Forse l'orco cattivo ha subito una trasformazione, interiore e profonda. Probabilmente si è concesso un'opportunità e ha verificato (ancora una volta sulla sua pelle ma, questa volta, senza farsi male) che le occasioni non fanno sempre paura, che il mondo non è sempre cattivo, che non bisogna sempre essere sulla difensiva.
E forse quest'occasione se la ridarà anche in altri contesti, senza abbassare la guardia - certo - ma con la consapevolezza che il rischio vale il traguardo.
Magari questa esperienza lo ha davvero cambiato e l'occasione si è trasformata in una scelta di vita, in una modalità concreta.
Magari... perché Said non lo abbiamo più visto, e non possiamo sapere se la storia si è chiusa con un "...e vissero tutti felici e contenti!".

giovedì 16 agosto 2012

Il falso problema dell'educazione

La solita annosa questione!
Anche oggi leggevo dell'importanza del titolo di studio dell'educatore, delle lotte intestine tra classi di laurea e facoltà universitarie, di chi può o non può fare l'educatore...
"Il problema del titolo è un falso problema, il vero problema è garantire che chi lavora in ambito psico-socio-educativo faccia una reale formazione permanente, che continui a lavorare su di sé e ad interrogarsi, a mettersi in gioco." scriveva (finalmente!!!) qualcuno questa mattina...

Lo scorso anno, nel Tempo-Famiglia in cui lavoro, c'era un nonno che accompagnava il suo nipotino di due anni. Un nonno: quindi un uomo non certo giovanissimo con la responsabilità di gestire un bimbo piccolo (e non solo nel contesto del servizio, perché fa il nonno a tempo pieno dato che figlia e genero escono di casa la mattina alle 7 e tornano alla sera all'ora di cena...).
Mi ha sorpreso molto (e mi ha fatto anche pensare a quanto spesso io sia ottuso, nonostante il tentativo di avere una mente aperta) perché era davvero bravo con questo suo nipotino. Attento, accorto, presente... 
Ma più che da questo sono rimasto stupito da un aspetto ancora più importante: la sua continua voglia ("necessità" la chiamava lui) di confrontarsi con gli altri adulti e con noi educatori sul processo evolutivo, sulle modalità educative, sugli stili, sui limiti: quello che più lo preoccupava era la sua età; il fatto che il "modo" in cui aveva educato sua figlia trent'anni prima non fosse più congruente con il contesto attuale.
Il suo bisogno di confronto nasceva da un senso di inferiorità che provava, dalla profonda preoccupazione che aveva nello svolgere un "ruolo" che non aveva scelto, che gli era stato imposto ma che lui riteneva di grande valore.
Nel corso dell'anno - naturalmente - la conoscenza con questo nonno si è approfondita e abbiamo scoperto altri aspetti della sua vita.
La sua grande passione è il canottaggio: rema da sempre, rema ancora (gareggia per i "campionati over", come li chiamano loro) ed è diventato allenatore. Di bambini tra gli 8 e i 12 anni. Un'età "difficile" come la definisce lui. Un momento del processo evolutivo molto delicato e pieno di difficoltà, che spaventa molti adulti.
Beh: nonostante considerasse il suo ruolo come "marginale" nella vita di questi bambini/ragazzi ("Li vedo due pomeriggi alla settimana, come posso pensare di essere un punto di riferimento nella loro vita? Sono solo l'allenatore...") non si è posto solo come un preparatore sportivo, come un "professionista" del canottaggio. 
Ha capito che la relazione con questi ragazzi è molto più importante.
Ed ha sentito sempre di più il peso della sua inesperienza.
Ha cominciato quindi a leggere libri, ad informarsi e a formarsi, a partecipare a corsi, a confrontarsi con noi operatori non solo per l'educazione del suo nipotino ma anche dei "suoi" rematori.
Ha allargato il suo orizzonte cercando di approfondire il rapporto con i genitori di questi ragazzi, di comprendere quali stili di vita hanno, quali difficoltà, quali modalità educative... Perché ai suoi occhi di nonno apparivano evidenti le dinamiche relazionali, i limiti e le risorse di questi giovani, le difficoltà che il contesto attuale pone, la mancanza di valori, di riferimenti, di opportunità.
Il dialogo con quest'uomo è stato per me molto formativo perché le sue osservazioni, le sue riflessioni, i suoi dubbi e le sue domande potevano essere traslate anche nel mio lavoro e rispecchiavano uno spaccato di realtà giovanile importante.
Quest'uomo non è laureato, non fa l'educatore, non è un professionista.
Ma qualcuno potrebbe affermare che non è un educatore?
Io no.

Grazie Nonno Ivan.

mercoledì 15 agosto 2012

La poesia del lavoro educativo

IL MIO LAVORO

Con quali parole descriverò il mondo
Di chi non ha parole?
Posso dare un nome
A ciò che vedo
E vedo sguardi, sorrisi,
occhi spalancati,
sopracciglia aggrottate,
mani che afferrano,
mani inerti, senza forza,
corpi curvi, nascosti al mondo,
corpi mobili, senza posa e senza strada,
Non sono parole di un libro che leggo
Ma echi che risuonano
dentro di me.
Accolgo quelle parole mute
E solo allora sono in grado
D’intenderne il  riflesso,
e inizio a dare forma a ciò che è
senza forma,
che è quello che le parole fanno.
E inizio a dare senso a ciò che sembra
(ma solo sembra)
Senza senso.
Perché le loro tristezze
Assomigliano alle mie tristezze,
come le loro gioie
assomigliano alle mie gioie,
i loro dolori ai miei.
Perché i nostri cuori sono fratelli
sotto lo stesso cielo.

di Laura

La difficoltà della professione educativa sta nel cogliere le risonanze degli altri in noi. La sofferenza, la solitudine, le difficoltà che i nostri utenti provano si rispecchiano in noi e aprono porte che a volte sarebbe meglio lasciar chiuse.
L'educatore deve sapere che queste porte si aprono, non averne paura ed entrarci, per guardare cosa c'è dentro e rileggerlo in un'ottica nuova.
Solo sperimentando questa opportunità su di sé potrà poi proporla in modo costruttivo agli altri, dimostrando in prima persona che è possibile entrare in quelle porte senza uscirne con le ossa rotte.
Solo allora l'educatore sarà davvero agente di cambiamento per gli altri.
E avrà adempiuto al suo compito.

C'è chi ha la possibilità di effettuare questo percorso in gruppo, in équipe, con il supporto di un supervisore esterno (professionista o meno) e chi si deve arrabattare a trovare nuove soluzioni (http://labirintipedagogici.blogspot.it/2012/07/leducatore-solitario-nuove-prassi-di.html): l'importante è che questo lavoro su di sé venga fatto.
Gli strumenti sono innumerevoli, alcuni vengono trattati in questo blog, altri li stiamo sperimentando, altri ancora sono (purtroppo) a noi al momento sconosciuti.
Solo una cosa non va dimenticata: occorre trovare il senso e dare un senso!

Sai che cosa penso
Che se non ha un senso
Domani arriverà
Domani arriverà lo stesso
V.Rossi

martedì 14 agosto 2012

A mia suocera non piacciono i blog? Colpa del TG.

Domenica ero all'abituale pranzo familiare. Come sempre si mangia, si beve, si chiacchiera... Ad un certo punto - non so nemmeno come - è venuto fuori l'argomento del mio blog. Era la prima volta che se ne parlava, la prima occasione in cui se ne citava l'esistenza.
E mia suocera se n'è uscita con una frase che suonava più o meno così: "Io non capisco: in questo mondo dove tutti difendono la propria privacy, chiunque mette in piazza gli affari suoi su internet".
Ora: mia suocera è una donna molto intelligente, curiosa, ragionevole e alla quale piace andare a fondo nelle cose, capirle, prima di criticarle o di esprimere la sua opinione.
Ma non ha mai letto un blog. Soprattutto il mio.
Non ne conosce il titolo, gli argomenti, i temi, la cadenza con cui scrivo, ciò che tratto, gli obiettivi che vorrei raggiungere...
Perché allora è stata così categorica?
Ho cercato di approfondire, ho tentato di comprendere da quale ragionamento uscisse la sua affermazione.
Ed ho scoperto l'arcano!
Al TG hanno parlato del blog di Beppe Grillo. Non so cosa abbiano detto, non è importante. Come non è importante se mia suocera leggerà o meno il mio blog.
Ciò che è importante è che ho compreso nuovamente quanta influenza a livello educativo abbia il telegiornale. 
E di conseguenza quale grande responsabilità.
Se una persona adulta, dotata di discreta intelligenza, con una buona capacità di discernimento e di ragionamento riesce a farsi "indirizzare" in questo modo mi chiedo cosa possa succedere a chi non ha le stesse capacità intellettive. 
Penso ai miei utenti, già tristemente martellati dalle pubblicità - studiate apposta per convincere all'acquisto -, dalle soap opera, dai programmi di "intrattenimento"... 
Ma il telegiornale ha un ruolo fondamentale: ha il compito di far conoscere a tutti ciò che succede nel mondo, ciò che accade, per aiutare le persone ad aumentare la propria conoscenza e la propria capacità di critica. Perché ogni nuova informazione offre una nuova opportunità di scelta.
Il TG ha una responsabilità enorme nella formazione delle persone. E purtroppo non sempre prende sul serio questo compito.
In educazione è indispensabile agire in assenza di giudizio o - quantomeno - di esplicitare il proprio pre-giudizio (inteso nel senso letterale del termine) così da non influenzare l'altro, per lasciargli la libertà di decidere in proprio.
Ogni educatore, ogni agenzia educativa (ivi compreso il TG) ha il dovere di tenere sempre in considerazione il proprio ruolo, quanto la relazione asimmetrica con l'altro possa essere potente (e negativa) se non correttamente condotta.
Altrimenti si abdica al proprio ruolo educativo.
Di formazione e di informazione.

lunedì 13 agosto 2012

Paura che le parole cadano nel vuoto

PADRE E FIGLIO

Nel sole chiaro d’inverno
Due uomini camminano nel bosco,
raccolgono mele selvatiche
rinnovando un’antica complicità.

Un padre e un figlio.

Ci sono padri e figli
Uniti da una stretta
Linea di sangue.

E padri e figli
Che sono tali
Per scelta.

Padri che amano
D’un solo amore
I propri figli
E i figli senza padre
Dispersi per le vie del mondo.

Parole e silenzi,
gesti ed attese,
ogni cosa nelle loro mani
parla di questo amore.

Tanto semplice
Da parere banale
E tanto forte
Da suscitare meraviglia.


di Laura.

Questa è la poesia scritta da un'educatrice. E questa educatrice ha deciso di condividerla con me.
Quando l'ho letta mi è piaciuta subito, ma io credo di essere di parte. Perché sono padre. E quindi mi ha colpito nel mio intimo.
Ma non è per questo che ho deciso di pubblicarla (anche se il fatto che mi sia piaciuta molto ovviamente ha avuto la sua influenza), almeno non dopo averne parlato con lei.
Ho chiesto a Laura di poterla postare nel mio blog perché quando le ho chiesto per quale motivo non l'avesse già fatto lei la risposta è stata "Paura che le mie parole cadano nel vuoto?".
Questo mi ha colpito.
Nessuno dovrebbe aver paura che le proprie parole non vengano ascoltate. Anche se - giustamente - Laura mi ha fatto notare che il mondo è pieno di gente che parla...
Vero. Ma io ho risposto che solo alcuni vengono ascoltati. Solo quelli che dicono o scrivono cose intelligenti o interessanti.
Sono però anche convinto - e l'ho detto a Laura - che tutti debbano avere un'occasione. Ma soprattutto che tutti possano darsi un'occasione. Tutto poi dipende da come se la giocano.
Questa è l'occasione di Laura. 
Non perché gliel'abbia data io, non mi sarei mai permesso di pubblicare una sua creazione senza il suo permesso.
Se l'è concessa da sola, dandomi il permesso di postare la sua bellissima poesia. Poesia che riveste un forte senso educativo e quindi è perfettamente nello spirito di questo blog.
Mi piacerebbe che le sue parole non cadessero nel vuoto, con me non è successo.

Il parchetto: un microcosmo sociale?


Andare al parco giochi è una grande esperienza educativa.
Bisogna - ovviamente - tenere gli occhi ben aperti. Altrimenti il parco giochi sembra un normale luogo in cui giocano dei bambini accompagnati dagli adulti.
Ma se si cerca di carpire i segreti dell'essere umano è un luogo ricco. Ricchissimo.
Basta osservare come i bambini si muovono, quali relazioni intrecciano (o quanti rimangono solitari), come si comportano, che capacità motorie hanno, quali e quante regole sono in grado di rispettare...
Da ciò si possono dedurre le linee educative, quanto gli adulti insegnano (o no) ai loro pupilli, che priorità danno.
Ma ancora più interessante è osservare gli adulti che frequentano il parchetto.
Perché da questo si può imparare come cambia la società.
Mamme, papà, nonne, nonni, italiani, stranieri... Un mondo di adulti variegato.
Di mamme ce ne sono di diversi modelli: giovani e inesperte (poche per la verità, dato che ormai i figli si fanno in tarda età), impacciate, attente, svampite, ansiose, rigorose, lassiste.
Per la verità la maggior parte delle mamme che vedo sono più concentrate a parlare con le amiche (o con chi le accompagna) piuttosto che guardare i loro bambini. Una boccata d'aria dalle fatiche quotidiane dell'educatore o una costante del loro ruolo? La risposta spesso sta nei figli: se i bambini si mostrano autonomi e sicuri sembra che normalmente vivano senza particolari attenzioni; se si muovono con circospezione e cercano con lo sguardo la madre forse sono abituati alle loro attenzioni. 
E le nonne? Si possono suddividere in due grandi gruppi: le nonne "anziane" che normalmente stanno sedute sulla panchina con il loro ventaglio in costante sorveglianza dei fanciulli e le nonne "del terzo millennio" sempre in piedi e con il cellulare che squilla. Quali differenze? Le "anziane" sono più ansiose, sembrano non abituate a gestire i nipoti, stanno all'interno del loro ruolo. Quelle "del terzo millennio" sembrano a proprio agio in quel luogo, sono spigliate, si destreggiano in ogni situazione in cui i bambini si vanno a cacciare. Insomma: più che delle nonne sembrano delle mamme, e si perdono ciò che - secondo me - è il bello di quel ruolo, ovvero viziare i propri nipoti e non sentirsi troppo responsabili dei loro processi educativi.
E i papà? Di padri se ne vedono sempre pochi! Certamente i più nel pieno del pomeriggio saranno a lavorare... Ma forse qualcuno non ha voglia di andare al parchetto con il proprio cucciolo? O ritengono di non essere in grado di gestirli da soli? Oppure questa svalutazione viene da qualcun altro?
I papà presenti, però, hanno tutti una caratteristica in comune: se la godono! Giocano con i loro figli!
Perché ritornano bambini o semplicemente perché sanno di avere poco tempo da condividere con i loro figli e non vogliono sprecarlo?
Senza dubbio i pensieri e le osservazioni che si possono fare in un parchetto sono ipotetiche (anche se verosimili) ma tutte da verificare.
Non credo nell'assolutezza di ciò che vedo ma sono certo che in un contesto come quello del parco giochi si può esercitare la propria capacità osservativa e diventa quindi una buona lezione di pedagogia.
Quante storie e quante identità si incontrano...


domenica 12 agosto 2012

Saremo pronti? Genitori quarantenni tardo-adolescenti.

Sabato sera. Ora dell'aperitivo. Mi ritrovo con moglie, figlia ed amici a bere qualcosa in attesa di andare in pizzeria.
Sono in un classico bar del lungolago luinese: sgabelli all'aperto, sullo sfondo il lago incorniciato dalle montagne e incastonato in un bel cielo azzurro che - essendo estate - ancora non si appresta a scurirsi. Le barche ormeggiate, i motoscafi che sfrecciano, gli ultimi bagnanti (tedeschi, per lo più, che si godono il sole fino al suo ultimo raggio) che si preparano malvolentieri a tornare a casa.


Intorno a me - ovviamente - un mucchio di gente.
Normale, dato che è sabato sera e che è estate.
Mi guardo in giro e, come sempre, scruto con interesse l'umanità che mi circonda. 
Vedo pochi giovanissimi e tanti (quasi tutti) più o meno coetanei. Molti quarantenni che, come me, si godono un aperitivo. Qualcuno in compagnia di amici, altri con la compagna-moglie-fidanzata, alcuni con figli. 
Piccoli i figli, tutti in età prescolare.
Quindi la domanda - nella mia mente - sorge spontanea: quarantenni con figli piccoli (se ne hanno) che bevono un aperitivo il sabato sera corrispondono a tardo-adolescenti non ancora cresciuti?
I miei genitori (e tutti quelli dei miei coetanei) a quest'età età avevano figli già adolescenti, già "licenziati" dalla scuola media, alcuni al liceo, altri magari già inseriti nel mondo del lavoro. 
Una delle bambine più grandi di questo scorcio di società (mia figlia) a settembre andrà a scuola, la maggior parte sta ancora nel passeggino.
E i miei genitori il sabato sera non andavano certo a bere l'aperitivo, al massimo una passeggiata per un gelato dopo cena. Ma proprio al massimo. Solo d'estate.
Sulla crisi dei quarantenni, sull'allungamento dell'età adolescenziale (fino ad età imbarazzanti, visto che si parla di ultratrentenni) hanno già parlato, scritto e commentato.
Ma io ci sono in mezzo. Nel senso che faccio parte di questo target e in questo target ci vivo.
Cosa differenzia quindi la realtà dalle pagine e pagine scritte su questo fenomeno dai massmediologi?
Come siamo arrivati a questo punto e dove stiamo andando?
Ho sempre creduto che il rallentamento del processo di crescita e autonomizzazione della mia generazione fosse imputabile alla generazione precedente: genitori che non hanno avuto la possibilità di vivere la loro adolescenza, che sono stati costretti a crescere in fretta e cominciare ad arrangiarsi presto, che hanno formato una  famiglia molto giovani. E che hanno risentito di questa mancanza e si sono ripromessi che i loro figli non avrebbero dovuto "patirla". 
E si sono impegnati in questo: hanno permesso che noi studiassimo, che ci divertissimo, che andassimo in vacanza, che scoprissimo il mondo... tutte cose che a loro non erano permesse. 
Ma tutto questo a cosa ha portato? A quelli che, un "simpaticissimo" ex-ministro, ha definito bamboccioni.
Ad aggravare questa situazione ci si è messa anche la crisi economica: ai giovani che, lavorando ma abitando ancora con i genitori si dedicava alla bella vita, si è aggiunto il fatto che i soldi a disposizione non sono molti e quindi anche per coloro che vorrebbero uscire dal nido famigliare raggiungere l'autonomia diventa ancora più complesso.
Ma la responsabilità non può essere solo della generazione precedente, perché noi ci abbiamo messo del nostro: non ci è dispiaciuto viaggiare, studiare, sognare... mentre qualcun altro si preoccupava di tirare avanti il carro del ménage economico-familiare.
Tutto questo, a livello educativo, a cosa ha portato?
Appunto ad una generazione di tardo-adolescenti che stentano ad essere autonomi, che ritardano il più possibile il momento in spiccare il volo, che diventano genitori con 10 o 15 anni di ritardo rispetto a prima, che non prendono seriamente gli impegni presi, che si separano o divorziano continuamente.
I nostri figli si trovano quindi a crescere con degli adulti di riferimento "vecchi" - a volte single o con famiglie allargate - e saranno adolescenti quando noi andremo in pensione (se ci andremo... perché una delle ripercussioni di questa crisi economica è proprio che ci toccherà lavorare fino a 80 anni).
Noi quarantenni saremo pronti ad educare i nostri figli? Avremo le energie fisiche e la prontezza psicologica per affrontare questo compito?
Io credo di si, perché la storia è fatta di equilibri.
I nostri genitori hanno "patito" delle mancanze e ci hanno viziati, a noi toccherà trovare il giusto mezzo ed educare la prossima generazione in un modo differente.
Occorre solo che ci accorgiamo, tra un aperitivo e una vacanza, che abbiamo un compito. Importante.

sabato 11 agosto 2012

Intrecci di storie: dall'autobiografia all'eterobiografia


“… e vissero felici e contenti”.
Così ci piaceva pensare al termine di ogni favola infantile e ancora oggi tendiamo o speriamo in un lieto fine. Anche quando gli eventi della nostra storia ci indicano di cambiare, di mutare ottica, di raccontarci la nostra famiglia e le nostre scelte in modi più fantasiosi. Meno abitudinari, meno ripetitivi. E di conseguenza di rischiare verso nuove posizioni, di orientare la nostra vita a trasformare i limiti in risorse.
E. Longhi – Di testa e di pancia – in “Cresciuti quasi da soli” a cura di A. Fiocchi – Franco Angeli, Milano 2002

Raccontare la propria storia, analizzarla in un’ottica differente attraverso lo strumento autobiografico, è un passo necessario per conoscere meglio sé stessi e comprendere come e perché ci relazioniamo con gli altri.
Il lavoro degli operatori, però, non è semplicemente quello di sapere come relazionarsi ma, soprattutto, utilizzare metodi e tecniche che siano produttivi per gli utenti con cui lavorano.
Passato il primo momento di empasse (quando cioè si scopre che il detto “Medico cura te stesso” è reale e tutti coloro che scelgono di lavorare attraverso la relazione d’aiuto lo fanno perché – loro per primi – hanno una fame atavica di relazione e sentono la necessità di ridare un volto nuovo ad una storia, quella personale, che richiede aggiornamenti frequenti) occorre concentrarsi sul significato che hanno le storie degli altri – per loro e per noi operatori –, significato da ricercarsi per noi che queste storie le ascoltiamo e per coloro che, raccontandole, le rivivono e le rielaborano,

Il lavoro con gli altri attraverso la ricostruzione della loro storia narrata mediante le più diverse forme comunicative (il racconto orale o scritto, il disegno, il mimo, la recitazione, l’autovideonarrazione) implica in primo luogo un’autoformazione da parte dell’operatore. Comporta cioè la preventiva applicazione su di sé delle pratiche e delle tecniche che, poi, si adotteranno con i soggetti con i quali si lavorerà, dal momento che la raccolta delle storie di vita altrui ed i procedimenti di analisi relativi producono effetti personali in chi studia tali racconti e invogliano ad interrogarsi sulla propria vicenda esistenziale.
L’educatore che lavora con il metodo autobiografico incontra spesso la difficoltà di porre le necessarie distanze tra la sua vita e il racconto di coloro che aiuta, spesso a scapito di un sano equilibrio relazionale. Diventa quindi essenziale lo scambio e il contatto con i colleghi, per evitare scivolamenti empatici (l’identificazione con le situazioni raccontate o con il narratore) o retropatici (l’identificazione con gli eventi di una storia pregressa che gli evocano momenti critici della propria). Inoltre, parlare delle storie di vita con cui si lavora insieme ai colleghi, oltre a portare un sollievo dalla fatica del parlare – ascoltare – pensare, è utile per una più obiettiva ricostruzione e analisi dei racconti autobiografici.

La raccolta delle storie altrui, il fondamentale ruolo di stimolatore che ha colui il quale ascolta la storia, l’importanza del sistema educatore-utente per la rielaborazione del vissuto, per la ricerca di significati latenti all’interno della propria storia, la scoperta (o la riscoperta) di alcuni aspetti mai visti, di alcune sfumature diversamente interpretate fanno si che la storia non sia mai raccontata solo dal narratore.
La storia – la propria storia – viene raccontata a più voci, in un coro polifonico e sistemico, fatto di retroazioni, sollecitazioni, ridondanze, domande, feedback, curiosità. È proprio in questo senso che il ruolo dell’educatore che utilizza il metodo autobiografico può, in un senso esteso, “raccontare le storie degli altri”. Perché è lui, in un atto non solo comunicativo ma meta-comunicativo, che rende esplicita l’importanza della storia che diventa atto di formazione solo nel momento in cui viene raccontata.
Il dispositivo autobiografico è proprio degli utenti: è una metodologia utilizzata per restituire la stessa storia raccontata con l’aggiunta di una interpretazione che, attraverso la rielaborazione, può diventare senso.
Il processo di formazione degli operatori che utilizzano il dispositivo autobiografico diventa quindi “eterobiografico” perché l’educatore deve essere in grado di raccontare all'altro  una nuova storia, che sia la sua ma che venga in qualche modo letta “tra le righe” per evidenziarne le latenze e le discrepanze di significato.