giovedì 27 febbraio 2014

Studenti miei, a cosa vi educo?


Ogni mese il gruppo Facebook "Educatori, Consulenti pedagogici e Pedagogisti" propone un tema, una riflessione educativa, alla quale partecipare con un proprio contributo scritto.

Una volta raccolti, quest'ultimi vengono ospitati e divulgati dal circuito blogger di Snodi Pedagogici.

Il tema del mese di febbraio: Pedagogia e Scuola

"Con l'ingresso nel circuito scolastico i bambini smettono di essere “esclusiva proprietà” delle famiglie ed entrano a pieno diritto nella società come soggetti. Subito dopo il contesto educativo per eccellenza (la famiglia) è la scuola il luogo in cui bambini e ragazzi passano la maggior parte del loro tempo. 
Come e quanto viene percepito dalla scuola e dai suoi attori il ruolo educativo che viene loro chiesto? Qual è l'anello mancante nel processo insegnamento-apprendimento? Come vivono la scuola coloro che ci lavorano?”

Buona lettura.


#pedagogiaescuola - Studenti miei, a cosa vi educo?

Ho lavorato nella scuola come docente per quattro anni e in due scuole, mentre e dopo aver lavorato come educatore e come formatore. Potrei tornarci a lavorare anche in futuro, la mia laurea in lettere d'altronde mi offre questa possibilità, forse succederà anche e in tal caso dovrò cercare di nuovo un equilibrio tra competenze educative e competenze didattiche. Come ho cercato di fare in quei quattro anni, con alterni successi, di sicuro con grande fatica.
Prima scuola: centro di formazione professionale regionale, corso triennale di addetto alle vendite rivolto a soli ragazzi con certificazione di disabilità, a Rozzano, profondo hinterland milanese. C'era consapevolezza del ruolo educativo della scuola? Se con ruolo educativo intendiamo l'attenzione alla persona in toto, una programmazione che tenga conto dei limiti del gruppo e si adegui a quelle possibilità di apprendimento e una modalità di insegnamento che preveda varianti alla lezione frontale allora direi di sì.
I cfp sono l'ultimo step dell'istruzione a cui gli studenti si aggrappano prima di uscire dal circuito scolastico, sono scuole in cui il tasso di disagio socio-cultural-educativo richiede di fatto ai docenti di far fronte a tali e tanti problemi che non possono esimersi dal mettersi in gioco nella relazione. Inoltre il corso per ragazzi con disabilità certificata (per la metà erano dislessici e agli altri avevano certificazioni di vaghi ritardi cognitivi, di fatto tutti provenivano da famiglie di bassa estrazione culturale) prevedeva una particolare, anche se vaga, proposta didattica, una riunione settimanale di coordinamento e una supervisione mensile. Una struttura quasi da servizio educativo.
Ed io ero ben contento di questo, potevo programmare il mio corso come preferivo, gestire la lezione secondo le modalità che ritenevo più funzionali, inventarmi sanzioni creative per tenere i ragazzi sul pezzo e confrontarmi con i colleghi. In più incontravo i genitori e seguivo i ragazzi in tirocinio sul posto di lavoro.
Il problema era che dovevo insegnare tecnica commerciale e informatica, che non sono esattamente materie su cui leggo libri la sera prima di dormire! O almeno fino ad allora.
Due anni dopo, chiuso il corso per disabili, mi ritrovo a insegnare italiano (ecco finalmente la mia materia!) e poi anche storia e geografia, con un intermezzo di sostegno allo studio di cosmetica e anatomia, alle studentesse (ben pochi i maschi) del corso professionale per estetiste e parrucchiere. Dieci classi, una o due ore a settimana con ogni classe e anche in questo caso programmazione totalmente delegata a me docente. Nessun momento di confronto se non per prendere decisioni di tipo disciplinare. Il fatto di conoscere la materia mi era di scarso aiuto perché quello che non sapevo, e non capivo, era come renderla degna di senso per dei gruppi classe che venivano a scuola con grande fatica e comunque soltanto perché interessati ad imparare il mestiere di estetista o di parrucchiere.
Domande che peraltro mi ponevo anche al corso per addetti alle vendite disabili, con la differenza che in quel caso le materie che insegnavo erano quelle di indirizzo e se stavi sulla materia nel modo più concreto possibile un po' di legittimazione la ottenevi.
Il punto comunque è che una risposta alla domanda "a cosa mi serve studiare prof?" la devi trovare ogni giorno e non soltanto a parole ma anche nei modi in cui costruisci la tua lezione, nell'intelligenza con cui ti opponi alle loro provocazioni, nella costanza con cui continui a parlare di informatica, tecnica commerciale, italiano o storia pur parlando di tutt'altro. Ma non solo. Fare educazione, in una scuola professionale, è prima di tutto riconoscere il setting in cui si è inseriti e quel setting dice "insegnami un mestiere" e quindi, tutto quello che insegni, deve essere funzionale a imparare quel mestiere. I ragazzi questo concetto essenziale ce l'hanno chiaro, noi insegnanti no, preoccupati come siamo di trasmettere un sapere che abbia alta dignità curricolare. Eppure acquisire questa chiarezza di obiettivi è, a mio avviso, il gesto più educativo che gli insegnanti possono fare con gli adolescenti di un Cfp, e per estensione con quelli degli altri indirizzi superiori, perché significa far superare le difficoltà nella direzione che la scuola ha pattuito con loro all'inizio del percorso, al momento dell'iscrizione. E mantenere i patti non è forse profondamente educativo?
Come diceva Pennac in Diario di scuola: "Prof non me ne frega niente!" "Ecco bravo, che cos'è quel ne?"


Luca Franchini

"Penso che il bello dell'educazione sia che non ti annoi mai e che ti metta sempre in movimento, con la mente, con le emozioni, con il corpo. Forse per questo ho attraversato tanti contesti, organizzazioni, luoghi, incontrato e formato gruppi, persone, per poi ritrovarmi con i miei figli, in casa, fermo, a fare la stessa cosa.
Oppure a scrivere storie, pensieri, per incontrare qualcun altro con le parole, per creare nuovi movimenti.
Forse per questo amo lo sport, per la stessa idea di movimento del corpo, del pensiero e dell'emozione.
Vivo sul mare, vengo dalla pianura, attraverso spesso l'appennino."




Tutti i contributi su # pedagogiaescuola verranno raccolti qui 

I blog che partecipano:

Il Piccolo Doge
Ponti e Derive
La Bottega della Pedagogista
Allenare, Educare
Nessi Pedagogici
E di Educazione
Bivio Pedagogico
InDialogo
Labirinti Pedagogici
Trafantasiapensieroazione


domenica 23 febbraio 2014

Di Educazione e Mal-Educazione a scuola

In attesa del blogging day del 27 febbraio che racconterà di pedagogia e scuola...



... come sempre ero in quella terza media, seduto di fronte ai ragazzi. Con un orecchio rivolto a quanto diceva la professoressa e con i restanti sensi ad osservare i ragazzi.
Lo faccio ormai da quasi tre anni.
Li guardo e vedo le loro reazioni alle suggestioni, alle spiegazioni, alle battute o ai rimproveri dei loro docenti.
Li osservo e vedo, quasi come un copione consumato dall'usura, il loro livello di educazione nei confronti del mondo adulto

Li vedo annaspare nel loro crescere e noto una discrepanza enorme: gli educati sono molto educati, i mal(dis)educati sono molto mal(dis)educati.

Difficilmente riesco a vedere una via di mezzo.

Non è questione di carattere o di esuberanza.
Ciò che contraddistingue gli uni dagli altri è il senso del limite.
Nonostante la stupidera caratteristica dell'età, la voglia di trasgredire, la ricerca dello svago, la noia o la fatica alcuni sanno quando fermarsi.
Riconoscono quando l'adulto chiede loro uno stop. E sono in grado di rispettarlo 
Sanno fermarsi, ricomporsi, contenersi.
Perché in fondo il loro senso del limite si basa sul rispetto dell'altro, giovane o adulto che sia.
E questo arriva dalla loro educazione.
Da nessun altro luogo.


Il 27 febbraio pubblicheremo i guest post relativi a Pedagogia&Scuola.
Seguite l'hashtag #pedagogiaescuola.

#educareè


domenica 16 febbraio 2014

...di ragazze "Bollate" di bullismo

Il video ha fatto il giro della rete. Tutti lo hanno visto, ne hanno parlato, hanno seguito le retroazioni successive...
Una bulla che pesta un'altra ragazza mentre viene filmata dai suoi amici-coetanei che la incitano, non la fermano, mettono il video in rete. 
Si urla allo scandalo per questo video.
Peccato che già cinque anni fa, sul cellulare di uno dei ragazzini ospiti della comunità in cui lavoravo, di video simili ne ho visti a decine: ragazzi che si picchiavano, ragazze che si menavano, bambini (i fratellini minori) che venivano incitati ad allenarsi in questa sorta di sport. Sempre filmati. Non ancora pubblicati in rete.
Ma già lì, tutti perfettamente identici a quello visto dal mondo del web.
Ragazzi per strada privi di una qualsiasi guida o controllo da parte degli adulti. Che nei video non ci sono mai. Come (spesso) anche nelle vite di quei ragazzi.
Con a disposizione solo la possibilità di fare Peer-Education. Senza valori morali, ma risultato di una strategia di apprendimento. Se i grandi non mi insegnano, imparo da solo.

A Bollate hanno parlato di bullismo. La ragazza bionda è stata catalogata.
Ma a me - che piace sempre guardare le cose da un'angolazione inusuale - quella ragazza non sembra un bulla. Quell'episodio non mi sembra un atto di bullismo.
Nel bullismo ci sono due soggetti coinvolti: il "bullo o istigatore" (sia esso singolo o gruppo) e la "vittima". Il primo perpetra atti violenti (fisici o psicologici) che recano danno al secondo.
Inoltre il bullismo si basa su tre principi: intenzionalità, persistenza nel tempo e asimmetria nella relazione. Vale a dire un'azione intenzionale eseguita al fine di arrecare danno alla vittima, continuata nei confronti di un particolare compagno, caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi compie l'azione e chi la subisce. (*)


L'episodio in questione, quindi, sembra essere di un altro tenore. 
Non sembra bullismo perché la vittima non assomiglia ad una vera vittima visto che la cronaca (e i compagni) raccontano quanto fosse stata lei a cominciare; non appare come una vera vittima perché non trovo asimmetria nella relazione. 
E l'aggressore sembra in una posizione di inferiorità, "costretta" all'uso della violenza fisica per rispondere ad un'aggressione (psicologica) subita, per vendicare un torto subito, per "ripulire" la sua immagine di fronte al gruppo, verso il quale (forse) si sente in difetto, in una posizione di inferiorità togliendo anche un'altra discriminante tipica del bullismo che vede l'aggressore come il leader carismatico del gruppo che - anzi - pare più interessato a godersi lo spettacolo piuttosto che ad esserne succube.

L'episodio che abbiamo visto a me pare molto più una scena di violenza. 
Violenza primitiva, primordiale, irrazionale. Una ragazza che non ha altri strumenti per affrontare la situazione che basarsi sulla superiorità fisica. Una violenza diretta, di tipo maschile, basata sulla corporeità piuttosto che indiretta, fondata sulla psiche, più tipicamente femminile. Una violenza che sembra anche abituale, ripetuta, troppo spesso utilizzata come risposta ad una provocazione, ad un'ingiustizia subita.
Una violenza forse ereditata? Frutto di un'educazione distorta?

La domanda che la società si è posta alla vista di quelle scene è stata "Dov'erano gli adulti?"
Già: dov'erano?
La scuola si è subito affrettata a prendere le distanze dall'accaduto; i genitori (o una parte di essi) sembravano dietro l'angolo ad attendere che "giustizia fosse fatta" in una sorta di alleanza al ribasso; la società si è sollevata urlando allo scandalo, indignata che certe cose possano succedere senza rendersi conto che quella ragazza ha lanciato una grande (e inconsapevole) richiesta di aiuto.
La domanda non è "Dov'erano gli adulti?"
La vera domanda è "Dove sono gli adulti? Cosa intendono fare?"

Dall'esperienza si dovrebbe apprendere. E tutti noi adulti dovremmo imparare che il nostro agito educativo deve essere intenzionale e preventivo.
Sappiamo quanto sia inutile chiudere il recinto dopo che i buoi sono scappati?

#educareè

mercoledì 5 febbraio 2014

Campare di educazione


In Italia c'è crisi e questa non è una novità. Una crisi economica e lavorativa che colpisce tutti i settori, produttivi e non.
Non è strano quindi, gironzolando per la rete, leggere post o commenti (soprattutto sui social) che trattano questo argomento.
Problemi ad erogare credito o microcredito soprattutto alle piccole e medie imprese, aumento delle tasse dirette ed indirette, tagli a tutti i settori pubblici...

Come sempre, in momenti di ristrettezze economiche come queste, il mondo del sociale è il primo a vedersi falcidiati i finanziamenti. 
Come se il welfare non fosse una priorità.

Ma non è una lezione di politica economica che intendo fare. Non ne sarei capace nemmeno se volessi...

Leggo spesso - appunto sui social - educatori che lamentano la mancanza di lavoro, ragazzi che si sono laureati da uno o due anni che non sono ancora riusciti ad avere la prima esperienza professionale... con tutto quello che ne consegue: rivendicazioni sui titoli più o meno riconosciuti (con minacce di class action contro le università colpevoli di moltiplicare le possibilità formative senza adeguarsi al mercato del lavoro), aggressività verso 'altre professionalità' che (in nome della crisi) effettuano invasioni di campo ' rubando' il lavoro; corsi, microcorsi, kit, libri, cd ed audiocassette (queste per fortuna ormai no, sono scomparse) che promettono di farti raggiungere presto e bene il tanto agognato obiettivo di portare a casa lo stipendio a fine mese.

Premetto che da questo punto di vista mi sento un privilegiato perché la crisi (non diciamolo troppo ad alta voce!) non ha influito sulla mia attività professionale né oggi né mai da quando sono entrato nel mondo del lavoro.
E so che questa è una fortuna, che purtroppo non capita a tutti.
Non è quindi dal mio "piedistallo" che voglio distribuire consigli o perle di saggezza.
Come sempre attingo dalla mia esperienza, dall'osservazione di ciò (di chi) mi circonda.
Perché ho intorno a me persone che la crisi l'hanno sentita (e la sentono ancora): donne autonome che devono sobbarcarsi la gestione [economica] della loro vita senza nessun appoggio, padri di famiglia che sentono il senso di responsabilità verso i loro figli [e verso quelle madri di famiglia loro compagne/mogli che, da sole, non potrebbero garantire la sicurezza], coppie che arrancano nell'arrivare a fine mese perché le entrate sono nettamente diminuite... e tutti lavorano nel campo dell'educazione.

Da qui la domanda.
Si può campare di educazione?

Una risposta io ce l'ho ed è che si deve campare di educazione. Perché l'educazione è uno dei fondamenti della nostra società atta a garantire il miglioramento dell'individuo e del gruppo a cui appartiene. Perché chi l'educazione l'ha scelta come professione (dedicando sé stesso, appunto, alla società a cui appartiene) ha il diritto di vivere il resto della giornata (quella non professionale) con dignità e tranquillità.

Certo, ma come si fa a campare di educazione?
Qui sta il nodo della questione, il problema a cui bisogna trovare la soluzione.
Come si fa? Come si può galleggiare in un momento di crisi economica mondiale (si, mondiale, che non riguarda solo il nostro piccolo! non dimentichiamolo...)?

Io credo che la professione educativa debba essere considerata come un progetto educativo.
Perché la società cambia e di conseguenza cambiano i bisogno che noi educatori/pedagogisti dovremmo saper analizzare.
Perché il primo strumento di un progetto educativo è proprio l'educatore/pedagogista e quindi il soggetto deve osservare sé stesso e capire quali sono i suoi punti di forza, i suoi limiti, come declinarli in un'azione che porti [con tutte le variazioni in corso d'opera] all'obiettivo che si vuole raggiungere.
Perché la comunicazione è cambiata e di conseguenza anche i modi, i tempi e i luoghi dell'educazione ed allora occorre trovare nuove strategie, dare spazio alla propria creatività calandola nel setting che altri hanno costruito per noi.
Perché anche il sistema di dipendenze a cui apparteniamo probabilmente è variato ed occorre, forse, osservarne nuovamente le dinamiche e capire quali processi di autonomia/attaccamento stiamo portando avanti, e se sono ancora validi oppure no.

Questo dovrebbe saper fare un buon educatore. E questo, secondo me, è il modo con cui si dovrebbe affrontare la crisi del welfare.
Perché di educazione (come vediamo tristemente ogni giorno) c'è un gran bisogno.
Si deve solo trovare il modo di renderla produttiva, per noi e per gli altri.

p.s. quando incontrerò i colleghi che mi hanno suscitato queste riflessioni per ringraziarli di un nuovo insegnamento offrirò loro un ottimo ginger pedagogico. alla salute!

#educareè