sabato 29 giugno 2013

Caffé pedagogico


appunti

dalla pagina fb
Educatori, Consulenti Pedagogici e Pedagogisti
(grazie a Laura Ghelli)



Una figlia si lamentava con suo padre circa la sua vita e di come le cose le risultavano tanto difficili. Non sapeva come fare per proseguire e credeva di darsi per vinta. Era stanca di lottare. Sembrava che quando risolveva un problema, ne apparisse un altro.


Suo padre, uno chef di cucina, la portò al suo posto di lavoro. Riempì tre pentole con acqua e le pose sul fuoco. Quando l’acqua delle tre pentole stava bollendo, in una mise delle carote, in un’altra mise delle uova e nell'ultima mise alcuni grani di caffè. Lasciò bollire l’acqua senza dire parola. La figlia aspettò impazientemente, domandandosi cosa stesse facendo il padre. Dopo venti minuti il padre spense il fuoco.
Tirò fuori le carote e le collocò in una scodella.
Tirò fuori le uova e le collocò in un altro piatto.
Finalmente, colò il caffè e lo mise in un terzo recipiente.



Guardando sua figlia le disse:
“Cara figlia mia, carote, uova o caffè?” fu la sua domanda.
La fece avvicinare e le chiese di toccare le carote: la figlia le toccò e notò che erano soffici; dopo le chiese di prendere un uovo e di romperlo, e mentre lo tirava fuori dal guscio, osservò l’uovo sodo.
Dopo, il padre le chiese di provare il caffè: sorrise mentre godeva del suo ricco aroma.
Umilmente la figlia domandò: “Cosa significa questo, papà?”
Il padre le spiegò che i tre elementi avevano affrontato la stessa avversità, “l’acqua bollente”, ma avevano reagito in maniera differente. La carota arrivò all'acqua forte, dura, superba; ma dopo avere passato per l’acqua, bollendo era diventata debole, facile da disfare. L’uovo era arrivato all'acqua fragile, il suo guscio fine proteggeva il suo interno molle, ma dopo essere stato in acqua, bollendo, il suo interno si era indurito. Invece, i grani di caffè, erano unici: dopo essere stati in acqua, bollendo, avevano cambiato l’acqua.
“Quale sei tu figlia?” le disse.
“Quando l’avversità suona alla tua porta; come rispondi?”
“Sei una carota che sembra forte ma quando l’avversità ed il dolore ti toccano, diventi debole e perdi la tua forza?”
“Sei un uovo che comincia con un cuore malleabile e buono di spirito, ma che dopo una morte, una separazione, un licenziamento o una pietra durante il tragitto, diventa duro e rigido? Esternamente ti vedi uguale, ma sei amareggiata ed aspra, con uno spirito ed un cuore indurito?
“O sei come un grano di caffè? Il caffè cambia l’acqua, l’elemento che gli causa dolore. Quando l’acqua arriva al punto di ebollizione il caffè raggiunge il suo migliore sapore.”
“Se sei come il grano di caffè, quando le cose si mettono peggio, tu reagisci in forma positiva, senza lasciarti vincere, e fai si che le cose che ti succedono migliorino, che esista sempre una luce che illumina la tua strada davanti all'avversità e quella della gente che ti circonda.”



Per questo motivo non mancare mai di diffondere con la tua forza e positività il “dolce aroma del caffè”

sabato 15 giugno 2013

Il corpo: strumento di relazione o confine?


Every body.
Ogni corpo. Tutti i corpi.
Questo il tema degli oratori estivi: letture, giochi, attività e laboratori che diventano strumento per bambini e preadolescenti nella conoscenza e gestione del proprio corpo.
Un tema sempre attuale in una società in cui pubblicità, cultura televisiva, abitudini alimentari non sempre sono in linea con una corretta considerazione del nostro corpo.
Senza dimenticare che - per la religione - il corpo è anche il contenitore dell'anima.



Manca un pezzo però, secondo me.
Quale?
Se osserviamo più da vicino l'esperienza degli oratori - come mi sta capitando in questo periodo - ci accorgiamo che c'è un aspetto che rischia di essere dimenticato.
Chi gestisce, nel concreto, l'esperienza dell'oratorio?
Nel mio caso (come credo anche in molti altri visto quanto raccontato circa la giornata degli oratori a Milano e le conseguenti emozioni) da un gruppo di adolescenti.
Sono bravi, sono entusiasti, sono ispirati, sono attenti... 
Ma sono [e restano] adolescenti.
Con un loro corpo che devono imparare a [ri]conoscere ogni giorno perché in continuo mutamento.



Il corpo però non è solo un contenitore ma anche il confine e il tramite tra me e l'altro da me.

L'oratorio infatti è abitato da bambini e bambine dei primi anni di scuola che necessitano di un contenimento fisico e affettivo che li aiuti ad affrontare la nuova esperienza sociale in un contesto differente da quelli a cui sono stati abituati. Piangono, ti prendono per mano, ti si siedono sulle gambe, ti abbracciano... 
Ma questo luogo è anche attraversato da ragazzini che si stanno confrontando con i primi cambiamenti del loro corpo: la crescita della loro muscolatura, la competizione fisica con gli altri, l'immagine a volte più paffuta o infantile di quanto si vorrebbe.
Senza dimenticare che ci sono anche le ragazzine con il loro corpo che diventa femminile con il quale si devono confrontare ogni giorno, che oltre ai corpi dei loro papà o dei loro fratelli nei giochi da bambina cominciano a confrontarsi con "altri" corpi maschili (a volte nascosti, a volte esposti) facendo i primi conti e i primi esperimenti con l'utilizzo del linguaggio femminile nella relazione con il maschile.



E i nostri adolescenti come gestiscono tutto questo? Come sintonizzano la relazione già complicata con il proprio corpo insieme a tutti questi altri corpi?
Usano il corpo come tramite? Si ricordano che è anche un confine?
Ecco quindi che mi ritrovo a sottolineare loro un aspetto che ritengo fondamentale: va bene il concetto di "servizio" e di "essere a disposizione di" ma non si può prescindere dal rispetto del proprio spazio e del proprio corpo.

Il nostro corpo - oltre che importante strumento di relazione con gli altri - deve però anche essere il confine invalicabile della nostra persona.
Questo ho ricordato ai miei animatori.
Che il loro corpo è uno strumento ma non deve essere oltraggiato, offeso, sfruttato o sminuito. 
Perché Every Body vuol dire Ogni Corpo.
Quindi anche il loro.

domenica 9 giugno 2013

[met@]comunic@zione

Qualcuno inizia un nuovo scampolo di conversazione.
Bisogna decidere che linea prendere.
Di cosa sto parlando?
Se volete ve lo dico, ma non è molto importante.
Parlo di un dialogo (a 5 bocche) su un gruppo in un sociale network. Siamo gli amministratori di un gruppo su facebook. Ma non siamo solo questo: siamo anche educatori-pedagogisti-consulentipedagogici.
Questo conta?
Per quanto sto scrivendo si.
Ma non dovrebbe contare così tanto.


Dunque, dicevo: inizia un nuovo scampolo di conversazione nel quale dobbiamo decidere qualcosa. 
Quale sia l'oggetto del contendere poco importa, perché dopo i primi preamboli cominciano a delinearsi le prime dinamiche comunicative.
Caratteri.
Contesti.
Linguaggi.
Qui-ed-ora.
Queste sono le prime discriminanti.
La conversazione prende diverse pieghe, segue differenti stimoli di discussione, affronta molteplici aspetti o punti di vista.
Se a tutto quanto detto fino ad ora aggiungiamo che non tutte le persone si conoscono fuori dal mondo virtuale il tutto diventa ancora più complesso. A volte, complicato.
Per metacomunicazione (termine nato dalla fusione tra meta e comunicazione) si intende, in  psicologia, la comunicazione relativa alla comunicazione stessa.
È un concetto introdotto dagli psicologi della scuola di Palo Alto. Gregoy Bateson la definisce come "l'insieme di tutti gli indici e proposizioni scambiati in relazione alla (a) codifica e (b) relazione tra i comunicatori". Nella metacomunicazione gli schemi concettuali vertono su di essa, mentre il linguaggio rimane l'unico mezzo espressivo utilizzabile.

Qualcuno ride, altri scherzano, chi la prende molto [troppo?] sul serio, chi riporta tutti all'ordine... Sta di fatto che di metacomunicazione si tratta. Non stiamo più parlando dell'oggetto del contendere, stiamo definendo i ruoli tra noi, stiamo parlando del nostro parlare, stiamo definendo una relazione tra noi.

Nella nostra professione quotidiana quante volte ci imbattiamo nella metacomunicazione e non ce ne accorgiamo? Quante volte non ci rendiamo conto che la qualità della nostra relazione viene definita anche attraverso il modo in cui comunichiamo [verbalmente o meno] tra di noi? 
Quante volte comunichiamo di noi?

Alziamo la posta.
Questa comunicazione (e la sua conseguente meta-comunicazione) avvengono all'interno della rete, dove le relazioni umane sono ulteriormente complicate dalla matrice comunicativa specifica del virtuale.
La definizione della relazione tra i soggetti [noi, non dimentichiamolo] viene complicata dal livello astratto della relazione stessa.
Non c'è il contatto fisico, non c'è il tono della voce, non c'è la comunicazione non verbale.
Manca la fisicità, manca l'odore dell'altro, manca lo scambio di sguardi. Tutti tratti specifici della comunicazione e della relazione educativa.
Quanto incide questo sulla meta-comunicazione? Quanto queste carenze/assenze influiscono sulla costruzione/definizione del livello di relazione tra noi?

A mio parere molto poco.
Perché i ruoli e le dinamiche emergono senza nessuna difficoltà. Lo spiritoso appare subito per lo spiritoso, il leader si mostra fin dall'inizio per il leader, l'insicuro si presenta immediatamente per quello che è...
Come normalmente accade in ogni comunicazione umana, in ogni definizione di relazione [educativa e non].
Il ruolo della metacomunicazione sembra quindi superare le barriere del virtuale.
Forse perché c'è naturalezza nella conversazione? Probabilmente perché nessuno intende mostrarsi diverso da quello che è? O magari perché siamo tecnici dell'educazione e di conseguenza poniamo attenzione ad ogni atto comunicativo consapevoli che questo determinerà la qualità della nostra relazione con l'altro?

Non so quale sia la risposta a questi ultimi quesiti. 
Quello che so è che la [meta]comunicazione virtuale non differisce così tanto dalla [meta]comunicazione reale.
A prescindere dalle teorie sulla rete e dalla [presunta] freddezza delle comunicazioni virtuali.

Le relazioni umane evolvono.
La comunicazione evolve.
La rete è la nuova missione educativa.

Imparare a [meta]comunicare è la nuova frontiera?






sabato 1 giugno 2013

"Ho visto padri che voi umani non potete nemmeno immaginare"

"Ho visto padri che voi umani non potete nemmeno immaginare."
[Blade Father]




Diventare padre, nella mia esperienza, è stato un attimo. Nel senso che ricordo precisamente il momento in cui sono diventato padre in modo consapevole, lucido. Ed è stato quando l'ostetrica è uscita dalla sala parto e mi ha detto "È nata!".
In quel momento sono diventato padre.

Non è così per le donne: loro hanno tutta una vita di (spesso inconsapevole) desiderio materno, hanno un intero DNA in cui sono impresse generazioni e generazioni di istinto alla procreazione, senza dimenticare che hanno nove lunghi mesi per diventare "ufficialmente" madri.
Nove mesi in cui percepiscono i loro mutamenti fisici e durante i quali sentono la vita che cresce in loro.
Nove mesi in cui sono GIÀ in due.

Per noi uomini non è così: rimane tutti teorico fino a quel momento.
Se siamo particolarmente coinvolti leggiamo libri, cerchiamo su internet, partecipiamo ai corsi pre-parto, parliamo alle pance, le accarezziamo ed osserviamo, nella speranza di vedere un movimento.
Ma quand'anche siamo così fortunati da azzeccare il fuggevole istante in cui la nostra futura creatura si rigira o si stiracchia vedremo solo un sobbalzo della pancia della nostra compagna.
Nulla di più.

Per fortuna noi uomini siamo persone concrete. 
Ma nella paternità (o meglio nell'attesa di essa) questo "per fortuna" si tramuta in un "purtroppo".
Ecco perché ricordo con così tanta precisione quel momento.
Perché volevo fortemente essere padre. Con tutto il mio essere, con tutta la mia razionalità, con tutto il mio cuore.
Ma - nonostante gli sforzi - non ci sono riuscito. 
Non sono diventato papà prima di quel momento.

Ma diventare padre è sostanzialmente differente dall'essere padre.

Essere padre è un'esperienza.

Allucinante, entusiasmante, agghiacciante, divertente, preoccupante, disarmante, preoccupante, intrigante, martoriante, esaltante, formante, stancante, massacrante, imbarazzante, energizzante... ante... ante... ante...
Aggiungete ciò che volete
Ma oltre ad essere un'esperienza è [soprattutto] un processo.
Essere padre è un percorso che non finisce mai.
Dopo [prima? durante?] essere diventato padre ho deciso consapevolmente che sarei stato padre.
E con cosa mi sono confrontato?
Con la mia immagine di figlio. Con il padre che ho avuto. Con l'immagine (ideale) del padre che avrei voluto essere. Con i padri con cui (come educatore) lavoro.
E che ne è venuto fuori?

Procediamo con ordine.
Io che tipo di figlio sono stato?
Bella domanda. Da padre direi... un figlio impossibile! Da figlio direi... un figlio esemplare!
Che figlio ero? 
Mannaggia, ma essere padre mi obbliga a pensare a che tipo di figlio ero?
Certo.
Perché essere padre mi impone di confrontarmi con queste e altre domande:
  • Che tipo di figlio sono stato?
  • Cosa prendo (di buono) o scarto (di cattivo) dal rapporto con mio padre? [e con mio nonno? perché mio padre da quell'educazione arriva. e con il mio bisnonno? perché mio nonno da quell'educazione arriva. e via così...]
  • Come, quanto, dove e perché è cambiata la società dei padri? Degli uomini? Delle donne?
  • Che tipo di padre vorrei essere?
  • La società che tipo di padre vorrebbe che fossi?
  • La mia compagna che immagine di padre ha?
  • La mia compagna che tipo di padre vorrebbe per sua figlia?
  • I padri che ho intorno a me come sono?
  • Mia figlia che tipo di padre vorrebbe?
Le discriminanti dell'essere padre sono davvero tante. Come districarsi? 
Un ginepraio.
Forse questo è il motivo perché alcuni padri diventano tali ma scelgono di non esserlo?
Forse.

Nella mia esperienza di padre imperfetto ho però deciso una cosa: devo assumermi la responsabilità dell'essere padre, perché mia figlia non può pagare il prezzo di una mia eventuale defezione.

Le colpe dei padri ricadranno sui figli.

Professionalmente questa frase [per me] è un assioma.
Personalmente mia figlia non dovrà mai pagare le mie colpe.
Almeno non quelle consapevoli.

Azz... ma la consapevolezza apre un nuovo capitolo?

1000 capitoli possono essere aperti sull'essere padre.
Ma una domanda sola è fondamentale.
Porsi questo quesito è già un buon punto di partenza. Da qui si va verso nuovi orizzonti di paternità.

Mai smettere di porsi domande.
Mai accontentarsi delle risposte.

#esserepapà
un progetto di @AValsasina 



Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se rende degno.
 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, 1879