sabato 30 novembre 2013

"Padri Imperfetti" incontra l'educazione naturale

Succede che da un po' di tempo a questa parte si parli di paternità in crisi, della difficoltà del maschile di ritrovare un ruolo – il proprio ruolo – in una società che già nel lontano 1963 si identificava come “senza padri” (Alexander Mitscherlich - Verso una società senza padre. Feltrinelli, Milano, 1970).
Succede poi che questa krìsis (nel senso greco del termine) spinga alcuni uomini verso la ricerca di un senso nuovo e differente a questa paternità, tanto che un uomo-padre-educatore che con i padri lavora quasi quotidianamente decida di scrivere un libro sull'imperfezione della paternità.
Poi qualcuno, che il libro lo ha letto e [probabilmente] lo ha apprezzato, decide che può essere condiviso, che vale la pena di utilizzarlo per aprire una discussione, una riflessione sulla paternità.
Succede allora che viene organizzata una presentazione, che gli inviti vengano inviati, che (come in tutti i piccoli paesi di provincia) il passaparola diventi il vero amplificatore della notizia e che – inaspettatamente – la sale dedicata sia più piena di quanto chiunque si potesse aspettare.
L'autore (che scrittore non è, fa l'educatore, per chi l'avesse dimenticato) comincia a parlare del suo libro. Timidamente. Quasi con timore.
Parte poi una prima domanda, seguita da una seconda e anche da una terza... e la serata supera i vincoli che il libro pone con i suoi contenuti e le sua storie trasformandosi in un dialogo, in una riflessione comune sulla paternità, sul ruolo genitoriale e sulla responsabilità che gli adulti hanno nei confronti delle nuove leve.
Si parla del senso del limite che i giovani sembrano non avere e che (forse) non hanno ricevuto come insegnamento.
Si parla di comunicazione. Comunicazione genitoriale, di coppia, familiare. Con gli annessi e connessi canali di comunicazione. Passando per il web e i pericoli-vincoli-vantaggi che può dare. Senza dimenticare le paure che provocano in chi nativo digitale non è.


L'educazione professionale incontra l'educazione naturale. E l'alchimia che si forma è calda, attiva e produttiva.
Un seme gettato.
Una promessa di incontrarsi di nuovo.
E confrontarsi ancora.
Su questo tema o su altri.

Segnale di un bisogno di “fare rete” anche nel nostro ruolo educativo e genitoriale. Consapevoli che “insieme forse è meglio”.

educareè

sabato 9 novembre 2013

Scontrarsi con l'Educazione

In vista della seconda Assemblea generale e materiale sulla CONSULENZA PEDAGOGICA che si terrà a Milano il 16 novembre 2013, alcuni blogger che ne prenderanno parto hanno deciso di lanciare in rete un blog crossing day nel quale parleranno, in un breve post, del perché hanno scelto l'educazione come professione e di come sono entrati in contatto con il gruppo Facebook "Educatori, Consulenti pedagogici e Pedagogisti" da dove tutto ha avuto inizio.


I blogger che partecipano sono:
Anna Gatti, blog "E di Educazione"
Alice Tentori, autore ospite di "E di Educazione"
Monica Cristina Massola, blog "Ponti e Derive"
Elisa Benzi, autore ospite di "Ponti e Derive"
Christian Sarno, blog "Bivio Pedagogico"
Laura Ghelli, autore ospite di "Bivio Pedagogico"
Manuela Fedeli, blog "Nessi Pedagogici"
Alessandro Curti, blog "Labirinti Pedagogici"
Vania Rigoni, blog "La bottega della pedagogista"
Sylvia Baldessari, blog "Il Piccolo Doge"

I contributi saranno condivisi sui diversi Social con #assembleagenerale e #consulenzapedagogica
Buona lettura!

Per avere ulteriori informazioni sull'evento clicca qui.

L'educazione come professione e l'incontro con essa. 
Ecco su cosa ragionare in questo post completamente dedicato ad un tentativo di rivalutazione culturale del tema "consulenza pedagogica" da parte di un gruppo di persone che in questo campo si trova quotidianamente.

E dunque: quando e come ho incontrato l'educazione come professione?
Nel mio caso più che di un incontro si è trattato di uno scontro. Frontale, peraltro. Ma per fortuna non doloroso.
Ero un giovane studentello universitario aspirante (ma molto aspirante!) ad un percorso nella facoltà di Lingue e Letterature Straniere con in testa tante belle idee sul mio futuro professionale quando un giorno mi arrivò una cartolina.
Lo Stato mi chiamava. 
Ma io, che in quei tempi ero un po' più veloce dello Stato (almeno su questo aspetto che mi stava molto a cuore), avevo già la risposta pronta: "Rifiuto le Armi. Mi offro per il Servizio Civile."

...non avrei mai potuto immaginare quanto quell'ideale avrebbe cambiato la mia vita!

Sono stato catapultato in una comunità per minori risucchiato da un vorticoso turbinio di persone, voci, problemi, urla, risate, difficoltà, affetto, regole... insomma: ci ho messo credo meno di cinque minuti a decidere che quella sarebbe stata la mia professione.
Mai stato un istintivo io, però quella decisione (che ebbi la fortuna di ponderare per i successivi 12 mesi prima di renderla ufficiale) era già stata presa.

Ed evidentemente è stata quella giusta visto che sono ormai passati vent'anni e ancora sono un professionista dell'educazione.

Da lì al gruppo su Facebook il passo è stato breve. 
La rete e il web sono ormai parte integrante della nostra vita (personale e professionale) e chi non se ne rende conto rischia di essere inglobato da essi. 
Io invece vorrei poter governare gli strumenti che ho a disposizione per utilizzarli al meglio e per questo ho scelto di "farmi educare" da altri, più geek di me, in questa nuova avventura, tutti insieme alla ricerca di nuovi stimoli, significati, domande e riflessioni sul nostro lavoro.

Un'altra decisione giusta, credo.

Alessandro Curti


Ecco l'elenco degli altri blogger e dei loro articoli

Christian Sarno, "Perché lo fai, disperato ragazzo mio."
 Laura Ghelli, "Parole e sguardi"
 Monica Cristina Massola, "In spostamento, tra uno spazio e l’altro"
Elisa Benzi, "Guest Post."
Anna Gatti, "L'educazione tracciata.
Alice Tentori, "Lascio che le cose mi portino altrove."
Alessandro Curti, "Scontrarsi con l'educazione."
Manuela Fedeli "Chi l'avrebbe mai detto"
Vania Rigoni, "Blog crossing day in bottega."
Sylvia Baldessari, "L'educazione è un incontro."

lunedì 7 ottobre 2013

Quanto pungono gli aculei di un porcospino?

Alcuni porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali. finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.
Parerga e paralipomena – Arthur Schopenhauer


Ho sentito la storia dei porcospini questa mattina in una terza media. 
Avevo di fronte a me un gruppo di ragazzetti di 13 anni e ho provato a figurarmeli come un'accozzaglia di istrici infreddoliti, cercando di immaginare quali sarebbero state le loro reazioni. Chi sarebbe morto congelato? Chi invece avrebbe sopportato le ferite provocate dalla vicinanza dei suoi simili pur di sopravvivere? 
Ma anche oltre: chi avrebbe borbottato? chi si sarebbe immolato silenziosamente? chi avrebbe tentato di mantenere la pace nel gruppo? chi avrebbe fomentato la rivolta?

Stavo osservando un piccolo microcosmo sociale, una metafora di quello che accade quotidianamente nelle relazioni umane, e attraverso un lavoro di immaginazione ho provato a traslarlo nella mia quotidianità personale e professionale.
Ogni essere umano è un animale sociale, non può fare a meno di avvicinarsi ai suoi simili. Ma la vicinanza porta inevitabilmente a ferite, piccole o grandi lacerazioni che alcune volte passano, altre lasciano un segno indelebile che ci fa ricordare quanto accaduto. 
Come un monito. O una promessa.

Ed è così anche la relazione educativa: un avvicinarsi/allontanarsi costante, fatto di bisogni e di paure, di tentativi ed errori. Alla ricerca di un equilibrio relazionale che ci permetta di soddisfare i nostri bisogni ma, al contempo, di evitarci dolori insopportabili. Di trovare una "moderata distanza reciproca" che rappresenti per noi il meglio.
Per noi. Per ognuno di noi.
Perché ogni relazione (educativa o non) deve essere commisurata ai soggetti che la stanno co-costruendo, nel rispetto delle reciproche posizioni. E dei reciproci bisogni. 
Un incontro di aculei appena appena spuntati per evitare di recidere troppo la pelle del nostro vicino.

Probabilmente è proprio questo il bello dell'umanità: la ricerca di una “formula perfetta” che non esiste, ma che è bello pensare si possa un giorno trovare.

Sarà proprio da questa caccia della felicità che nascono le energie che governano il mondo? Da questo continuo avvicinarsi e allontanarsi che produce un'infinita energia?

Non lo so. 
Ma oggi - nonostante le fatiche che l'umanità mi ha buttato sulle spalle e complice l'autunno che sta inesorabilmente arrivando - gira così: mi sento un porcospino alla ricerca del giusto equilibrio tra bisogno di calore e timore delle ferite.
Sto producendo energia?



martedì 1 ottobre 2013

Snodi Pedagogici


Una directory per chi scrive e chi legge di pedagogia.
Un luogo di incontro, di scambio e di connessioni (reali e virtuali) per chi questo lavoro lo fa e lo racconta anche.

giovedì 26 settembre 2013

Da SOS Tata alla rivolta dei Pediatri: quali connessioni tra Medicina e Pedagogia?

Non sono un grande appassionato di ospedali. Ma credo che questa mia caratteristica sia presente in molti miei simili, appartenenti alla specie umana.
Capita però che io ci debba andare. Se posso evito, ma se non si può fare altrimenti ci vado.
Un po' più volentieri quando si accompagna qualcuno, un po' meno quando tocca a me direttamente...
Ieri ero quindi in quello strano limbo rappresentato dal mio andare in ospedale ma del non dover essere oggetto di visita da parte di alcuno.
La visita era per la mia piccina. Niente di preoccupante: un normale controllo oculistico per capire se il bruciore agli occhi è semplicemente perché assomiglia ad una topina da biblioteca che passa ogni suo momento libero a leggere il sempreverde Topolino o se qualche diottria sia stata smarrita per strada e occorra porvi rimedio in modo artificiale.
Una cosa è certa: mia figlia non è Riccardo-Cuor-di-Leone e di fronte a ciò che non conosce si intimorisce. Ma credo che anche questa caratteristica sia comune a molte appartenenti alla specie umana di sette anni.
Prova a spiegarle che una visita oculistica non è come un prelievo del sangue o un tampone oro-faringeo, che nulla di invasivo o di doloroso o anche solo di lontanamente fastidioso le verrà fatto, che il papà sarà al suo fianco per farle coraggio... Quando la fifa è blu, solo l'esperienza insegna. Ne sa qualcosa il dito del medico che ha fatto l'ultimo tampone a mia figlia alla ricerca di un possibile streptococco. 
Ma sono abbastanza tranquillo da questo punto di vista perché non sto andando in un Ospedale Pediatrico Specializzato ma ci sono vicino: è l'ospedale della zona con i reparti di ostetricia e ginecologia, neonatologia, pediatria... insomma è dove normalmente si va con i piccoli malati perché sono più attenti.
Senza farla tanto lunga nella descrizione della visita riassumo il tutto con la frase detta al telefono di mia moglie appena uscito dall'Ospedale: "Io in questi posti con mia figlia non ci devo venire! Metterei le mani addosso a tutti!".

Torno a casa e sul mio gruppo di Facebook preferito incappo in una conversazione che, partendo dalla bagarre creata dal programma SOS Tata, affronta la preparazione pedagogica dei pediatri.
Come buttare benzina sul fuoco!
Mi butto nella conversazione con un commento quasi al fulmicotone "...Se non ho messo le mani addosso a quel medico è solo perché sono educato e avevo davanti mia figlia...".
Ma poi, meno padre e più educatore, aggiungo la mia idea sulla situazione. L'importanza dell'antropologia medica come punto di partenza per la formazione dei medici; l'evoluzione della scienza medica che - da disciplina che considerava il paziente come un tutt'uno tanto da utilizzare solo sanguisughe e purghe per curare il tutto - si è trasformata in disciplina clinica che ha completamente annullato il soggetto-paziente concentrandosi esclusivamente sull'organo malato e sulla possibile cura (anche a discapito di altri organi, a volte...); la necessità che si arrivi ad una medicina sistemica che metta al centro la persona e non la malattia, perché la salute non può solo essere assenza di malattia ma deve essere considerata uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale come già nel 1984 la definiva l'Organizzazione Mondiale della Sanità. E dunque "[la definizione di salute dell'OMS del 1984 è una] definizione che, pur bisognosa di chiarimenti e integrazioni, ha avuto il merito di liberare il problema salute dalla gabbia medico-specialistica in cui lo si era confinato e di aprirlo a considerazioni di più vasto respiro, che hanno a che fare con la psicologia, con la filosofia, con l'etica, con la pedagogia, con la vita concreta delle persone, a cominciare dalla famiglia" (Corradini L. Cattaneo P. - 1997 - Educazione alla salute, La Scuola, Brescia). 

Come posso allora coniugare l'esperienza ospedaliera nella quale la mia povera piccina si è dovuta confrontare con un medico che nemmeno sarebbe stato in grado di relazionarsi con un adulto e l'Associazione Culturale Pediatri che muove "guerra a quella che forse è la più popolare trasmissione dedicata ai bambini seguita dai genitori"?

A prescindere dalla mia personale opinione sulla trasmissione SOS Tata mi ritorna in mente il monito di un gruppo di educatori, pedagogisti e consulenti pedagogici che un paio di settimane fa si sono incontrate sulla sponda di un lago per ragionare, tra le altre cose, su come diffondere una cultura pedagogica non solo mirata alla marginalità e alla devianza, ma in ogni aspetto della vita quotidiana.

martedì 17 settembre 2013

Genitore1, Genitore2... GenitoreN

Uff... una nuova polemica che fa il giro del mondo.
Dalla Francia a Venezia e via per tutti i social (che ormai assomigliano sempre più a casse di risonanza che a veri e propri luoghi di condivisione e riflessione) rimbalzano le opinioni pro o contro l'abolizione dei termini madre e padre dai moduli di iscrizione ad asili e scuole (ovvero dai primi cancelli che i nostri figli attraversano per entrare in società e smettere di essere “solo” figli nostri) sostituendoli con genitore 1 e genitore 2.
Personalmente questi due termini mi fanno venire in mente le Bananas in Pyjamas, personaggi semi-divertenti anche noti come B1 e B2 che quelli che come me hanno un figlio mediamente piccolo avranno ben presente. Chi non li conosce... beh, sono due Banane (ovviamente abbigliate con un pigiama a righe) che vivono nel magico mondo di Cuddlestown tutte le loro avventure. Come noi genitori viviamo le nostre avventure nel mondo reale.


So che la questione andrebbe affrontata più seriamente che con un parallelo ai cartoni animati perché apre – come sempre – un mucchio di questioni più o meno politico-legali come il riconoscimento delle coppie di fatto, l'adozione da parte di coppie omosessuali, le sempieterne diatribe sulla potestà genitoriale, sulla monogenitorialità e sull'affido più o meno condiviso; ma a me piace semplificare e calare la questione su situazioni concrete. Così, giusto per capirci un qualcosa di più.
E quale modo più semplice per sciogliere una matassa così contorta che ribaltare la situazione e affrontarla come farebbero dei bambini chiedendosi cosa ne penserebbero i nostri figli? D'altra parte staremmo discutendo di come loro devono chiamare noi anche se non sanno (né gli tocca, per fortuna) compilare moduli, non conoscono il significato di “chi ne fa le veci” o di “potestà genitoriale”. I bimbi sono solo abituati a chiamare gli adulti che gli stanno intorno con... gli appellativi che sono stati educati ad utilizzare.
Eccolo il vero nodo della questione, secondo me. A prescindere dall'essere riconosciuto come G1 o G2 sulla modulistica di iscrizione a qualsivoglia gruppo sociale, è come un adulto si pone nei confronti del cucciolo di cui è responsabile ad essere prioritario.

Ci sono genitori naturali che gettano i propri figli nei cassonetti (e nemmeno nella raccolta differenziata), conosco genitori adottivi che amano la loro prole giuridica più di coloro che li hanno messi la mondo (e abbandonati), ho incontrato mono-padri e mono-madri che si sobbarcano il doppio ruolo con il triplo della fatica per evitare ai propri figli di subire la mancanza dell'altra metà della mela che [per un motivo o per l'altro] non c'è, mi confronto con famiglie allargate che si adoperano per fare del loro meglio nell'educazione dei figli, ho lavorato con educatori professionali che – in strutture di accoglienza per minori – si relazionano con “minori non accompagnati” con un ruolo educativo-affettivo importante nel processo di crescita di quei ragazzi lasciati soli dalla vita o peggio buttati in un mondo che nemmeno conoscono.
Tutto nell'interesse del minore.

Cosa direbbero questi bambini-ragazzi in merito alla questione di G1 e G2?
Se chiedessi a mia figlia “Chi sono io per te?” sono certo che mi abbraccerebbe forte forte e mi risponderebbe “Sei il mio Tati”.
E poi magari tornerebbe a guardare B1 e B2 ignara di quanto la società attuale sia rappresentata in quel cartone animato.


lunedì 2 settembre 2013

Apologia della maternità distorta?

- Papà, perché questa sera non vieni a dormire a casa? - 
- Devo lavorare Principessa, lo sai che devo fare la notte! - 
- Ma perché non puoi venire a dormire qui con me? - 
- E chi li sveglia domani mattina i miei ragazzi? Chi li manda a lavorare o a scuola? Lo sai che che se non li butto giù io dal letto non si alzano. - 
- Li butti giù dal letto? - 
- Certo, e a qualcuno faccio anche il solletico sotto i piedi. -
- E loro ridono, papino? - 
- Certo. - 
- Ma domani arrivi a casa? - 
- Certo amore e domani sera ti darò il bacio della buona notte. Questa sera te lo dà mamma! -
- Ma io voglio anche il tuo... - 
- Domani amore, domani te ne do due. Uno anche per oggi. - 
- Buona notte papino. -
- Buona notte Principessa. - 
Immagine di Pascal Campion - tratta da http://pascalcampion.com/

Oggi leggevo un articolo da un blog che titolava "Di mamme ce n'è una sola..." e mi è tornata alla mente la conversazione telefonica che ho appena descritto. 
Il medesimo copione che si ripeteva ogni volta che telefonavo, dal turno di notte nella comunità per minori in cui lavoravo, per dare la buona notte alla mia piccola.
Una buona notte telefonica che non riusciva a sostituire quelle reale.
Uno dei motivi (forse il principale) che mi hanno indotto a lasciare un lavoro che amavo e che svolgevo da diciotto anni era proprio la sofferenza che provavo ascoltando quelle parole al telefono. 
Due volte a settimana. Otto volte al mese.
Tanti erano i turni notturni che mi toccavano, e altrettante erano le occasioni in cui sentivo la mia piccolina che mi diceva quelle frasi.
Me la immaginavo accoccolata sul divano con la sua adorata mamma, a lei abbracciata e mezza addormentata dopo la lunga giornata trascorsa.
Ma non potevo abbracciarla io. Non potevo darle il bacio della buona notte. 
E lei di questo soffriva.

Poi oggi mi imbatto in questo articolo, postato su un gruppo di padri separati su Facebook. 
Come gettare benzina sul fuoco.
Ma non sono i commenti di quei padri a colpirmi, perché altro non sono che le urla di dolore di esseri umani feriti (a torto o a ragione) dalla mancanza di qualcosa.
Sono le parole della scienziata a scazzottare la mia pancia e a scaturire in me alcune riflessioni di stampo pedagogico.


"Una gatta, una leonessa, una tigre, una cavalla reagiscono con violenza inaudita di fronte a chi porta via loro un cucciolo, fino a morire! E questo è programmato nei comportamenti innati insiti nel nostro DNA, probabilmente tramandato da migliaia di anni di evoluzione ed è comportamento comune a tutti i mammiferi.
Tale comportamento di difesa della prole è fondamentale visto che serve alla conservazione della specie. Né il gatto, né il cavallo, né il leone, né il maschio della tigre hanno un analogo comportamento. Il cervello di una donna, all’atto del parto, subisce, per opera della cascata di ormoni, cambiamenti anatomici e funzionali che ne alterano il comportamento verso lo sviluppo di un atteggiamento di difesa e di accudimento della prole."

Il parallelo con il mondo animale mi colpisce. 
Il cambiamento anatomico e funzionale del cervello della donna a seguito del parto mi incuriosisce. Davvero ci sono una serie di cascate di ormoni che "trasformano" una donna in una mamma?
Scientificamente sono ignorante e quindi, come ogni buon ignorante di terza generazione può fare, mi butto in rete e provo a googolare diverse frasi chiave.
Non emerge nulla di scientifico che confermi (e che nemmeno disconfermi, ad onor del vero) quanto dichiarato dalla dottoressa.
Un mucchio di articoli sulle mestruazioni, sulla depressione post-parto, sui cambiamenti fisici delle donne... ma nulla a livello cerebrale.
Ripeto: scientificamente sono un ignorante e quindi proseguo nella lettura e nella ricerca.

"Quando nasce un bambino nasce una mamma! E mamma resterà per sempre, anche se il figlio muore."

Ecco la successiva frase con cui il mio igno-cerebro si scontra.
Se me l'avessero proposta a vent'anni avrei giurato (sputo per terra e croce sul cuore) che si trattava di un assioma perché "Una mamma è per sempre".
Ma i vent'anni passano in fretta. E nel mio caso ancora di più perché - arrivati i ventuno - ho cominciato a lavorare in una comunità per minori allontanati dalla famiglia e mi sono scontrato con un'immagine di "madre" differente da quella a cui ero abituato.
Madri che uscivano di senno e si [pre]occupavano più di sé che dei propri figli; donne che utilizzavano la gravidanza come arma di ricatto per tenere legati a sé uomini che non trovavano altro motivo (e spesso nemmeno quello) per rimanere con le proprie compagne; coppie composte da tardo-adolescenti che per superare il trauma di non essere stati "figli" cercavano di diventare "genitori" nella speranza di un riscatto... Maternità e Paternità "patologiche" che producevano "carne da comunità"... Ed io ero uno di quelli che...

"Non c’è matrigna al mondo che possa far da madre, non c’è suora, educatrice, puericultrice, non c’è padre che possa sostituire la madre. I bambini devono stare con la loro famiglia, se la famiglia è disunita i bambini devono stare con la madre. Ed i padri devono aiutare la mamme a fare le mamme, perché la mamma non è sostituibile."

... si occupava della cura e dell'igiene personale; 
abbracciava e consolava quando la nostalgia diventava troppa; 
seguiva nei compiti, parlava con i professori e le maestre, si ricordava il grembiule ogni mattina; 
si occupava di fare i letti, di controllare che gli abiti fossero puliti e di preparare i cambi di stagione; 
cucinava con/per i ragazzi che erano ospiti in struttura; 
aspettava i "genitori naturali" insieme ai ragazzi pronto ad ammorbidire ogni bordata emotiva che [inevitabilmente] arrivava; 
si arrabbiava, sgridava, urlava e impartiva punizioni quando le regole non erano rispettate; 
accompagnava al mare verificando che costumi, secchielli e palette fossero sufficienti per tutti; 
consolava per i primi amori non corrisposti; 
rideva per barzellette sentite miliardi di volte;
andava a dormire solo dopo che tutto era davvero a posto, per quel giorno e per quello successivo...
Ma non ero madre, suora, puericultrice... Ero un semplice Educatore, ancora nemmeno padre a quell'età...

Eppure avevo a che fare con i Tribunali, quelli "veri" che [allora e ancora] si occupano di prendere le decisioni relativamente ai minori.
Non posso affermare che TUTTI i giudici e TUTTE le assistenti sociali fossero adeguati al ruolo che ricoprivano: come in ogni ambito sociale c'è chi sa fare, chi vorrebbe fare, chi preferisce non fare e chi farebbe se... Ma ho incontrato Giudici e Assistenti Sociali che le iniziali maiuscole. Che sapevano cosa fare, cosa dire, cosa non fare e cosa non dire...
In nome e per conto dei minori che rappresentavano...

Ma la dottoressa oggi mi ha fatto riflettere nuovamente su queste realtà, perché quando si parla di minori non si scherza, non si deve sbagliare, bisogna riferirsi a verità incontrovertibili, occorre costantemente farsi delle domande...
D'altra parte... la scienza è scienza!

"Questo dovrebbe essere insegnato nei Tribunali ai giuristi da consulenti “veri”, che conoscono, veramente, la scienza e la biologia. Tutto diventerebbe più facile se la scienza, quella vera, non le fandonie, fosse contrapposta i pregiudizi medioevali.
I figli si levano ai genitori, ed in particolare alla madre, SOLO se si teme per la loro sopravvivenza in vita o per grave abuso, ed anche in questo caso…non è il bambino che lascia la famiglia se con questa ha un rapporto di tenerezza, amore, dipendenza, cure, ma è il Sociale e la Giustizia che “entrano” dentro la famiglia vi si installano e difendono il bambino fino a quando non si abbiano le prove inequivocabili di una impossibilità al recupero di un rapporto di tutela da parte della famiglia di origine."

Condivisibile questa affermazione, soprattutto da uno [Io] che quotidianamente entra nelle case altrui cercando di supportare, sostenere, indirizzare, aiutare, veicolare... le famiglie nel loro compito primario di cura e di educazione dei giovani virgulti.
Con tutte le difficoltà del caso...
Ma la Scienza (quella "vera") non è discutibile. Ed ogni ragionamento pedagogico nulla può in confronto alle verità scientifiche assolute. Quelle che sette anni fa mi hanno magicamente "trasformato" in un padre. Biologico. Quindi "scientificamente vero".

Ma...

"Il padre si può fare anche da lontano, come dimostrano migliaia di anni di storia, la mamma no! Un padre che leva la mamma al suo bambino non è un bravo padre, un padre che combatte per la custodia esclusiva non è un bravo padre. Un padre che così possa esser chiamato, non leva la mamma al suo bambino!"

Io al telefono non riuscivo a fare il padre al 100%. Cercavo di fare del mio meglio, ma proprio non ce la facevo.
Ho fallito?
Sono un pessimo padre?
Sono un pessimo educatore?

La scienza (secondo la dottoressa Maria Serenella Pignotti) mi darà torto.
Ma schiere di minori inseriti in comunità forse potrebbero dire il contrario.
E quando mia figlia si sveglia alla mattina e pretende il "bacio in tre" da sua madre e da suo padre dà una prova scientifica dell'importanza [per entrambi i ruoli] della presenza fisica.

D'altra parte Darwin non parlava di "evoluzione della specie"?
Io non lo so. 
Sono scientificamente ignorante.

Magari la dottoressa ha qualcosa di scientifico da dire...




sabato 24 agosto 2013

Educazione + Tecnologia. Un mondo possibile?

Facciamo finta che una persona stia leggiucchiando qua e là su facebook (in un gruppo di educatori, perché questo è quello che sono) e trovi un giovane ragazzo che sta chiedendo un'informazione professionale. E facciamo ancora finta che questa persona sia in possesso di questa informazione e che decida di condividerla nel gruppo, pensando che possa essere utile non solo a chi l'ha richiesta ma anche a qualcun altro che non sa se e quando potrà essergli utile. In una situazione normale qualcuno potrebbe ringraziare, qualcun altro (magari scettico) potrebbe chiedere la fonte di quell'informazione per poterla verificare personalmente qualcuno potrebbe prendere l'informazione senza dire nulla, qualcun altro potrebbe snobbare l'intero post... 
Facciamo invece finta che l'informazione, per quanto vera e verificabile facilmente, non piaccia a qualcuno e che questo qualcuno cominci ad attaccare colui che ha fornito l'informazione rispetto al contenuto di quest'ultima. Ipotizziamo che il soggetto attaccato sottolinei di aver solo proposto l'informazione e non un giudizio di valore su di essa, senza appunto giudicarla "giusta" o "sbagliata". Nella nostra storia inventata potrebbe succedere poi che la persona che non condivide il contenuto dell'informazione se la prenda così tanto con colui che l'ha fornita da bannarlo, segnalandolo al sistema come "commentatore offensivo". 
E così, il povero informatore, si ritrova imbavagliato per 12 ore senza poter più commentare, difendere sé stesso o chiedere spiegazioni. 

Perché il sistema prima ti blocca, poi ti chiede se ritieni di essere stato bloccato ingiustamente e (in caso di risposta affermativa) ti invita ad inoltrare una segnalazione specificando che non è sicuro che venga letta dato l'alto numero di segnalazioni.
E purtroppo questo non è un "facciamo finta" perché mi è accaduto realmente.

Ora: il problema non è quella conversazione, quella persona o quel thread di discussione. Perché le 12 ore sono passate ed io ho facoltà di poter commentare nuovamente, di scegliere se far valere le mie comunicazioni o se tacere per non gettare benzina sul fuoco.
Il problema è la gestione della comunicazione da parte del sistema operativo di un social network utilizzatissimo come Facebook.

Io sono sempre stato un accanito difensore dell'utilità dei social e della veridicità delle comunicazioni che in essi si possono sviluppare, ma questa volta rimango un po' basito di fronte all'accaduto. 
Come dire: una macchina stabilisce chi ha torto e chi ha ragione sulla base di chi effettua per primo la segnalazione? 
E se mentisse?
E se non avesse nessun motivo per stigmatizzare l'interlocutore?
E se volesse consapevolmente ledere un'altra ignara persona?
Come si fa a governare uno strumento se questo stesso ci blocca prima che si possa provare a governarlo?
Non è solo un problema di comunicazione, quanto un problema di educazione.
Perché un processo comunicativo deve essere governato da regole, e queste regole non possono essere di tipo matematico. Non possono rispondere ad una serie di 1 e di 0. Di "lampadina accesa" o "lampadina spenta".

Non è forse venuto il momento in cui educatori e pedagogisti possano (debbano?) mettere mano - insieme ai tecnici informatici - alla progettazione dei sistemi operativi che vengono utilizzati?
I social e la tecnologia in generale stanno diventando sempre più una costante della nostra vita, di quella dei nostri figli, dei nostri educandi.
Credo sia fondamentale educare/educarci ad un corretto utilizzo della tecnologia.
Ma credo anche che la tecnologia stessa debba essere educata al rispetto di corrette regole di comunicazione.
Umane.




martedì 20 agosto 2013

Quando manca un lettone...

La notte appena trascorsa è stata lunga e faticosa. Faceva caldo e le zanzare attaccavano insistentemente, peggio che durante i bombardamenti su Milano della prima guerra mondiale.
Poi arriva la ciliegina sulla torta: "Posso stare qui con voi?". 
Chi mi conosce o ha imparato un poco di me leggendomi sa che mi è impossibile rispondere negativamente a questa domanda. Sorrido, mi posiziono sul bordo più esterno del letto e accolgo la mia piccolina già pregustando la gioia che proverò quando mi sveglierò con lei accanto.
Anche se le zanzare continuano ad attaccare (nonostante il tentativo di sterminio di mia moglie), anche se il caldo (in tre) si fa ancora più opprimente, anche se so già che domani il risveglio sarà faticoso per tutti.
Poi il giorno dopo arriva, e tutte le aspettative notturne si confermano.
Il risveglio è faticoso.
Il caldo mi ha fatto soffrire tutta la notte.
Le punture di zanzare sono evidenti sulla pelle.
Svegliarmi accanto alla mia principessa mi fa cominciare bene la giornata!

Mentre la mia piccola ancora dorme e la mia dolce metà è già andata a lavorare (eh si, qualcuno dovrà pur farlo!) io mi godo il silenzio della casa e il bagno tutto per me. Visto che in una casa con una donna e mezza non succede praticamente mai!
Mentre mi faccio la barba la mente corre e i pensieri si accavallano velocemente.

Proprio ieri, mentre passeggiavo sul lungolago con uno dei miei ragazzetti mostrandogli le foto del mare, è spuntata un'immagine della mia piccolina che se la dorme beatamente (e decisamente di traverso) nel giaciglio di mamma è papà.
"Perché è nel lettone?" mi ha chiesto.
Sembra una domanda semplice, ma non lo è. Perché lui è in comunità e non ha un lettone a cui approdare nelle notti di bisogno.
Il pensiero successivo è naturalmente volato a quando io facevo l'educatore in comunità, a quei cinque anni in cui - invece dei "soliti" adolescenti - ho lavorato nella comunità dei "piccoli". 
Ricordo come se fosse oggi quella "notte prima degli esami" di tanti anni fa. L'esame non era il mio, ma quello di uno dei giovani ospiti della struttura. 
L'agitazione era talmente forte che lo ha spinto ad alzarsi, a superare il timore di entrare di notte nella camera dell'educatore (anche se la porta era - fisicamente e metaforicamente - sempre aperta) e dichiarare apertamente la sua paura. 
Un passo estremamente difficile per un ragazzetto orgoglioso e cocciuto come lui.
Non ho potuto far altro che accoglierlo nel piccolo lettino, aspettare che si addormentasse e trasferirmi sul divano per concludere il sonno.
Lasciandolo ancora solo con le sue paure.

Ecco la mancanza del lettone. 
E dei suoi occupanti.
Non voglio entrare nel merito della discussione se sia educativamente corretto o no far dormire i propri figli nel lettone, o entrare nel merito delle dinamiche di coppia.
Riflettevo semplicemente sul fatto che quando un luogo accogliente manca, le discussioni sono superflue.
Manca e basta.
Il lettone è la metafora dell'abbraccio di mamma e papà, della sicurezza di poter dormire protetto tra le due persone che più ci sono vicine nei primi anni della nostra vita, della tranquillità che non si verrà mai respinti in un momento di paura, di difficoltà, di bisogno o semplicemente di "voglia di coccole".
Il lavoro educativo deve trovare la strada per sopperire a questa carenza?
Certamente si, ma lo può fare solo in minima parte.

Perché un Lettone Educativo, purtroppo, non potrà mai sostituire l'originale.



martedì 13 agosto 2013

La solitudine dei numeri ultimi



"Sono omosessuale. Tutti mi prendono in giro."
Questo l'ultimo messaggio che un quattordicenne ha lasciato al mondo prima di togliersi la vita.
Due frasi. Una self-centered ed una di relazione.

La prima affermazione è una definizione di sé. Lapidaria. 
"Sono omosessuale."
Ma come si può a quattordici anni essere così certi su sé stessi? 
Si badi bene: non sto mettendo in discussione l'orientamento sessuale di quel giovane, le sue certezze raggiunte probabilmente con grandi sofferenze. Mi sto solo chiedendo quanto ineluttabile sia una definizione di sé. Non solo a quattordici anni. 
Parlo in generale.
L'adolescenza è il periodo dei cambiamenti, delle indecisioni, dei tentativi ed errori... Ma è anche l'età dell'intransigenza, del bianco o nero, dell'assenza di mezzi toni o sfumature, del passaggio repentino tra un'emozione e il suo esatto opposto.
Quindi una certezza così forte tutto sommato può starci.

Ma il livello di relazione?
"Tutti mi prendono in giro."
In adolescenza la qualità delle relazioni è fondamentale per il riconoscimento di sé. Un quattordicenne esiste soprattutto in funzione dell'opinione degli altri ed essere preso in giro da tutti è un giudizio di valore che difficilmente si può accettare.
Fuori dall'orientamento sessuale.

Omosessuale, nerd, povero, sfigato, extracomunitario... qualifiche spesso citate dagli adolescenti. Una categorizzazione paradossalmente necessaria al suo opposto: non appartenere a quel sottogruppo significa avere un posto nella normalità. Nel comune livello di accettazione sociale.
Ma cosa è normale nella nostra società? Essere figlio di genitori sposati o separati? Avere gli ultimi Ray-ban rossi con le lenti a specchio o indossare All Star del giusto colore? Essere un campione di PlayStation o sapersi destreggiare alla Wii? Andare in chiesa tutte le domeniche o rimanere in piazzetta? Essere una Belieber o una Directioner?
Gli adolescenti (ma anche gli adulti che convivono con la mancanza dell'I-phone o l'invidia per il Suv del nostro vicino, con la voglia di andare all'aperitivo con gli amici o la necessità della vacanza più cool) hanno bisogno di far parte di una categoria [riconosciuta] per appartenere a sé stessi.
E la ghettizzazione - di qualsiasi genere si tratti - va contro questo bisogno.

Ma non è ghettizzazione appartenere ad un qualsiasi gruppo? Non siamo "diversi" anche se ci riconosciamo in un gruppo? Diversi dagli altri, diversi da quello che gli altri riconoscono in noi.
Una sola certezza mi viene da questa riflessione: che la discriminante viene fatta dal livello di relazione. Io esisto solo in funzione di un Altro-da-me. Questo legame fortissimo (anche se non riconosciuto) viene sempre più amplificato in caso di sua assenza.
Nella solitudine, nella mancanza di relazione è l'individuo che perde sé stesso.
Perché non può riconoscere le sue differenze se non in relazione con l'altro.

La solitudine di quel quattordicenne che si è buttato dalla finestra prescindeva forse dal suo orientamento sessuale?

mercoledì 7 agosto 2013

Bisogni evolutivi

[posa della prima pietra - nuovi progetti crescono]

Chi si occupa di educazione è abituato a ragionare sui bisogni evolutivi dei propri utenti. A prescindere dalla tipologia di utenza: età, sesso, [dis]abilità di ogni tipo, momento di processo della vita...
Ma sempre di utenti si tratta.

A me però, come sempre, piace ribaltare la frittata. 

Oggi infatti mi sono trovato a ragionare sui bisogni evolutivi [miei] degli operatori, degli educatori, dei pedagogisti, dei consulenti pedagogici... Insomma, di tutti coloro che di educazione (ad ogni livello e grado) si occupano. 
Anche noi abbiamo bisogno di evolvere. 
Ma verso dove? In che modo?
In biologia, con il termine evoluzione, si intende il progressivo ed ininterrotto accumularsi di modificazioni successive, fino a manifestare, in un arco di tempo sufficientemente ampio, significativi cambiamenti morfologici, strutturali e funzionali negli organismi viventi. (fonte: wikipedia)
Dove si posizionano, dunque, i bisogni evolutivi?
E quanto tempo occorre perché l'evoluzione [cambiamento] avvenga?
Chi si occupa di educazione è [dovrebbe essere] abituato ai processi di cambiamento, perché ogni progetto educativo che si rispetti ha obiettivi da raggiungere oltre che tempi e strumenti per il loro conseguimento.
L'educazione è però un processo circolare, dove - a prescindere dalle posizioni "asimmetriche" dei soggetti coinvolti - non ci può essere cambiamenti a senso unico.

Oggi il mio bisogno educativo si è concretizzato su una spiaggia lacustre, dove - con una collega - mi sono entusiasmato davanti ad un nuovo progetto che prevede l'evoluzione della nostra professionalità. 
E della nostra figura professionale.
Ribaltando forse la credenza comune che vede educatori e pedagogisti in posizioni differenti? 
Forse.

Perché ognuno ha i suoi bisogni.

domenica 28 luglio 2013

Mal-Educazione Automobilistica


Il rientro dalle vacanze, si sa, è sempre difficoltoso per tutti e per un mucchio di motivi.
  1. Se hai finito le vacanze significa che devi tornare al lavoro... e questo già di per sé sarebbe sufficiente per trasformarti in una scimmia urlatrice...
  2. Come se non bastasse devi fare i conti con il fatto che hai passato un lungo (beh, lungo... diciamo un paio di settimane) periodo di tempo esclusivamente con la tua famiglia, cosa che succede solo in vacanza senza le interferenze della vita quotidiana, e devi metabolizzare le lacrime della tua cucciola mentre ti dice "Papà, io non voglio tornare a casa...".
  3. Sei anche riuscito a dedicare del tempo a te stesso leggendo, scrivendo o semplicemente nulla-facendo in spiaggia.
  4. Infine se il viaggio d'andata profuma già di vacanza ed è un piacere affrontarlo, quello di ritorno ha una puzza orripilante.
Tutto questo senza aggiungere le eventuali complicanze...
Il caldo torrido.
Il traffico bestiale.
Le code chilometriche.

Poi ti ritrovi in fila davanti al casello e l'unico pensiero che hai in testa guardandoti intorno è che tutti i maleducati del mondo si sono concentrati lì. Quasi fosse un flash mob. 
Ecco la scena.
Ci sono un mucchio di autoveicoli, ma le regole su come incolonnarsi a seconda della tipologia di pagamento sono visibili e comprensibili già da chilometri, prima ancora che la fila si formi.
Tu scegli la tua corsia, ti metti in fila e pazientemente aspetti.
Dopo qualche minuto si scatena l'inferno!
Le auto impazzite arrivano e si infilano in ogni pertugio vuoto che riescono a trovare, a prescindere dalla tipologia di pagamento segnalata.
Poi cercano tutte di raggiungere la loro meta, anche se si trova in un'altra coda o due/tre/quattro colonne più in là. Oppure provano ad abbreviare i tempi di attesa cambiando continuamente fila. 
Il tutto senza nessun rispetto per le regole della strada o delle persone che stanno loro intorno.

Ecco perché parlo di Mal-Educazione.
Intanto se stai guidando un autoveicolo significa che hai frequentato la scuola guida e sei quindi stato Educato alle regole della strada. 
Quindi non puoi essere In-Educato.
Mi rifiuto di credere che tutte le persone presenti non guidassero da anni.
Non posso allora classificarli come Dis-Educati.
Restano allora solo Mal-Educati.

Mentre la scimmia urlatrice che c'è in me esprimeva tutto il suo disappunto per la situazione (e dopo 5 ore e mezza di viaggio credo che qualsiasi scimmia diventerebbe urlatrice, anche una afona!) la mia parte di cervello deputata al ritorno alla normalità professionale ha cercato di osservare la situazione da un punto di vista pedagogico.

Ma le urla della scimmia e il gran caldo hanno evitato che la metafora di un mondo senza regole diventasse il punto 5 dell'elenco di ciò che rende difficoltoso il rientro dalle vacanze.

In fondo non ero ancora arrivato a casa.
La vacanza non era ancora ufficialmente terminata.

giovedì 25 luglio 2013

Autonomia allo specchio.

- Papà, posso andare alla roulotte della mia amica? - 
- Si, però torna qui tra mezz'ora che poi andiamo in spiaggia... -
- Va bene. -
Passa mezz'ora e la bimba non si vede.
Trascorrono trentacinque minuti e della cucciola nemmeno l'ombra.
Il papà comincia a girare per il campeggio alla ricerca della sua pargola. 
"Siamo in un luogo chiuso, protetto." Comincia a pensare tra sé e sé. "Non può esserle successo nulla. Solo a sette anni non ha la cognizione del tempo... o si sarà persa via con la sua amica a giocare..."
Passano altri cinque lunghissimi minuti durante i quali il padre comincia a sudare freddo e ad allungare il passo percorrendo affannosamente tutte le stradine del villaggio-vacanze in cui si trova. Nella sua mente cominciano ad affacciarsi immagini di rapimenti, orchi cattivi, troupe televisive e ricerche con gli elicotteri.
Sta quasi pensando di abdicare alla sua immagine di "padre responsabile" e chiedere alla signorina della reception di chiamare al microfono la sua piccola.
Magari con un tono perentorio che la faccia arrivare più in fretta.
Suda, ma non è più solo il calore di un'afosa giornata estiva.
Poi la bimba emerge da uno dei vialetti, tutta sorridente.
- Andiamo al mare papà? -
La sua naturalezza è quasi sconcertante.
- Certo. - risponde lui, nascondendo l'ansia dietro ad un gran sorriso.


Storie di ordinaria autonomia. 
Racconti di esperienze protette propedeutiche ad un processo di crescita e di apprendimento.
Tradotto: una bimba di sette anni che sgomita per diventare grande e un padre-educatore che le offre la possibilità di sperimentarsi senza correre pericoli. Consapevole che "questo calice deve passare".
Ma a quale costo?
Il processo di autonomia implica una diversificazione delle dipendenze ed è corretto che le esperienze possano essere effettuate in un ambiente protetto, che permetta il distacco senza il rischio correre alcun pericolo e con la possibilità di tornare al porto sicuro degli affetti familiari senza traumi. 
Così che "l'elastico della dipendenza" diventi gradualmente più lungo.

Tutto giusto, tutto corretto.
Ma di chi stiamo parlando?
Chi è il soggetto in questo caso? Chi sta sperimentando il distacco?
Generalmente si guarda a questo processo tenendo il focus sul bambino, sul suo processo di graduale distacco - in nome dell'autonomia - dagli adulti di riferimento.

Ma proviamo a ribaltare la situazione.

Rileggiamo la narrazione dell'esperienza tenendo al centro del nostro pensiero un altro soggetto che sta testando una nuova situazione educativa propedeutica ad un processo di crescita.
Facciamo finta per un attimo che il soggetto sia il padre.
Cambia la situazione? In che cosa?

Sarà che mi ci sono trovato in mezzo... sarà che proprio oggi mi è stato ricordato che in educazione la prassi e la teoria hanno la stessa valenza (e - anzi - sono legate in modo indissolubile come due entità che si alimentano reciprocamente)... sarà che sono in vacanza e quindi il tempo delle riflessioni non è inficiato dalla frenesia della quotidianità...

...ma...

Come educatore sono consapevole di quanto la valenza di una sperimentazione di autonomia come quella descritta sia fondamentale nel processo di crescita di mia figlia.
Come padre ho vissuto momenti di vero terrore quando non avevo il pieno (per come lo intendo io!) controllo della situazione.
La difficoltà è sempre trovare un equilibrio tra il mio ruolo educativo e il mio essere un educatore del terzo tipo.
Però nell'ottica di una "circolarità dell'educazione come un qualcosa che nasce in un modo e nel vortice del quotidiano si trasforma, tornando ad essere altro al punto di origine, donando nuove esperienze e così nuovi punti di partenza" [cit. Il Piccolo Doge in un dialogo pedagogico su Facebook] oggi ho re-imparato che l'autonomia è un processo educativo non lineare, ma circolare. Reciproco, oserei dire!

In questa situazione è stato il padre che ha sperimentato la "diversificazione delle dipendenze" sulla propria pelle. 
Un padre che non riesce ad accorgersi che deve diventare lui stesso autonomo dalla cosa più importante della sua vita forse non sta adempiendo al meglio il suo ruolo.

I nostri figli si staccheranno da noi, a prescindere dalla nostra volontà.
Noi saremo in grado di separarci da loro quanto basta per sopravvivere?
Sapremo diventare autonomi?

mercoledì 17 luglio 2013

trecentosessantacinquesimo giorno


Oggi è il trecentosessantacinquesimo giorno di vita di questo blog. 
Del mio blog.
Ho cominciato un anno fa scrivendo il mio primo post inconsapevole di quello a cui sarei andato incontro.

Avevo voglia di raccontare, sentivo il bisogno di condividere pensieri ed esperienze, speravo che il processo di scrittura mi avrebbe aiutato nel mio percorso di ricerca di nuovi significati.
Ma mai avrei immaginato di vivere un'esperienza come questa e con le evoluzioni che sono inaspettatamente arrivate.
Ho pubblicato 132 post, ho ricevuto 250 commenti, ho avuto 44371 clic tra visualizzazioni e condivisioni.

Ma non sono solo i numeri gli aspetti significativi di questa esperienza.

Perché in primo luogo - attraverso questo blog - mi sono esposto. Sono uscito dal comodo nido pedagogico in cui mi ero accoccolato e mi sono sperimentato nel mondo dei grandi.
Già. 
Perché un anno fa ero un "bravo educatore" (così definito non da me, ovviamente) che nel suo lavoro ci metteva anima e corpo ma che - in fondo in fondo - navigava nelle sicure acque del conosciuto.
Scrivere e pubblicare in rete ha significato, in primo luogo, confrontarsi con la paura di non essere letto.
Credo sia proprio questo il primo scoglio da superare quando si vuole scrivere, per professione o per diletto che sia, evitando di lasciare nel cassetto la propria produzione.
Si scrive perché si spera che gli altri ti leggano. 
Questo è il primo step.
Il secondo è conseguente ma non meno importante.
Scrivere e pubblicare (nel web o altrove) ed essere letti porta inevitabilmente a doversi confrontare con le critiche (positive o negative che siano) da parte di chi ti legge.
Se è piaciuto quello che hai scritto ti leggeranno ancora (e se ti va bene ti faranno anche qualche complimento), se non è piaciuto non ti leggeranno mai più (e se ti va male magari ricevi anche qualche commento che mina la tua autostima, grande o piccola che sia).
Ma la mia esperienza mi ha ricordato che se si scrive ciò che si pensa, l'eventuale critica non è solo alla produzione pubblicata, ma anche [e soprattutto] a colui che l'ha scritta.

Scrivere questo blog - per me - ha significato espormi come persona, come professionista e come possibile scrittore.
Ecco perché a trecentosessantacinque giorni dal primo post è importante per me fare dei bilanci.
Che sono positivi.
Anche se qualcosa poteva andare meglio.
Ciò che mi lascia un po' di amaro in bocca è la frequenza con cui scrivo. 
Un anno fa pubblicavo un post al giorno. Forse erano anche troppi (come qualcuno - che ringrazio - mi ha anche fatto notare!) ma c'era l'enfasi della nuova avventura, il brivido della novità, il continuo controllare le statistiche per comprendere se venivi letto oppure no.
Poi il numero delle pubblicazioni è calato.
Forse un po' troppo ultimamente. 
E questo un po' mi dispiace, sia per me che per coloro che mi leggono.
La vivo un po' come una sorta di "tradimento" nei confronti di chi questo blog lo apprezza, di chi (mi piace pensare) finito di leggere un post aspetta che ne arrivi un altro...
Ma la vita è sempre più complicata e bisogna trovare il tempo per stare dietro a tutti e a tutto, senza dimenticare che oltre agli impegni lavorativi e alle gratificazioni personali ci sono anche delle parti umane e familiari che non devono sentirsi private di qualcosa a causa dell'ego personale.

In più questa avventura mi ha dato il coraggio per aprire un sacco di altre porte, sempre connesse alla scrittura, che meritano di essere attraversate.
Perché questo blog - e il mondo del virtuale in generale, tra social network e quant'altro - mi ha anche offerto l'opportunità di uscire dal comodo nido pedagogico ed entrare nel mondo dei grandi, come scrivevo poco sopra.
E questo significa aver avuto la possibilità di conoscere e incontrare (virtualmente e non) altre persone, altri educatori, altri pedagogisti, altri professionisti, altri genitori con i quali confrontarsi e continuare a crescere.
D'altra parte era proprio questo l'obiettivo dei miei Labirinti Pedagogici: creare un luogo dove Educazione e Pedagogia potessero trovare nuove strade.

Bastava avere un centimetro di coraggio sopra la paura.

sabato 6 luglio 2013

Obiettivi e strumenti: una confusione pericolosa?

"Salve a tutti. Volevo porgervi una domanda: qualcuno di voi ha esperienza di educativa domiciliare? Che attività avete proposto alle famiglie?"

"Gente buongiorno! Voi che attività proporreste in una comunità mamma-bambino? Ah i bimbi vanno dai 2 ai 12 anni!!!"

"Ciao! Inizio a lavorare in un nido. Mi suggerite qualche attività da svolgere con i bambini?"

"Chi di voi ha prestato servizio nelle scuole d'infanzia? Chi mi suggerisce attività da far svolgere ai bambini?"


Questi sono solo alcuni dei post che si trovano nei gruppi per educatori professionali di Facebook.

I social network sembrano la nuova frontiera della formazione e della supervisione degli educatori. Lì si trovano le più disparate richieste di supporto nel lavoro quotidiano.
Già questo sembrerebbe un paradosso! 
Perché cercare supporto alla propria professione sul web mi dice che i dispositivi di formazione e di supervisione evidentemente non funzionano come dovrebbero.

Ma non è questo l'aspetto che mi ha colpito in questi post.
Attività, attività, attività...
Tutti alla ricerca di suggerimenti per le attività da svolgere, per i laboratori da proporre... metodi e tecniche per riempire il tempo.
Due quesiti mi piace dunque portare alla comune riflessione relativamente a questo argomento.
  1. Gli educatori (soprattutto i neo-educatori) conoscono la differenza tra obiettivo e strumento? 
  2. Cosa si nasconde dietro a questa spasmodica ricerca dell'attività intesa come "qualcosa da [far] fare"?
Il primo quesito già di per sé propone una grande riflessione su come il lavoro educativo viene percepito.
Confondere un obiettivo (pedagogicamente pensato) con uno strumento significa - forse - non avere chiaro che la prassi pedagogica deve essere basata su un processo mentale non indifferente e su step che non possono essere saltati e/o dimenticati. 
Questo processo mentale viene riassunto nel progetto educativo.

Il progetto educativo descrive i bisogni che devono essere soddisfatti. L'educazione considera il bisogno come la distanza esistente tra la situazione educativa che si vorrebbe ottenere e quella effettivamente presente in un contesto. L'operazione che permette di individuare i bisogni di natura educativa è definita analisi dei bisogni educativi
(Fonte: Wikipedia)

Osservazione, valutazione dei bisogni, analisi delle risorse, risoluzione dei problemi... sono tutti aspetti che devono essere presi in considerazione nel momento in cui si va ad affrontare una "situazione educativa" che necessita di un intervento di tipo professionale.
Lo strumento (in sé) altro non è che la concretizzazione delle azioni che l'educatore ha progettato nella sua mente per il raggiungimento degli obiettivi individuati.

E da qui nasce il secondo quesito.
Ogni corso o percorso formativo ci insegna che l'educatore agisce "attraverso il fare". "Il fare [con]" è lo specifico dell'educazione che rappresenta però uno strumento, una modalità operativa che ci è di supporto nel nostro operato quotidiano.
"Il fare" non deve confondersi con "l'essere".
Cosa si nasconde quindi dietro a questa prassi educativa?
Quella che io chiamo "organizzazione da villaggio turistico".

ore 8.00 risveglio muscolare
ore 8.30 stretching
ore 9.00 laboratorio teatrale
ore 10.00 laboratorio emozioni
ore 11.00 laboratorio cucina
ore 12.00 gioco aperitivo

La confusione tra animare ed educare diventa quindi facile [ed è qui - peraltro - che le altre discipline sociali riescono, meglio della pedagogia, a vendersi sul mercato relegandoci ad un ruolo marginale e non riconosciuto].
Con l'aggravante che quando un educatore si nasconde dietro al fare come attività principale del proprio lavoro dimostra una fragilità pedagogica problematica confermando l'ipotesi di coloro che pensano che "essere un educatore" significa "far giocare i bambini".

Giovani (e vecchi) educatori: riflettiamo sulla vera natura del nostro lavoro e ricordiamo[ci] che l'attività pedagogica non può esimersi da una progettualità e da una intenzionalità.