domenica 23 novembre 2014

La cultura pedagogica del terzo tipo

Ieri si è svolto a Voghera il Convegno "I primi 1000 giorni di vita" organizzato da Asilo Nido Ama Voghera. Insieme alla collega e amica Monica D'Alessandro Pozzi siamo stati invitati per un intervento inerente l'Educazione. Ecco l'estratto di ciò che abbiamo raccontato.


Educazione naturale vs Educazione professionale
La cultura pedagogica del terzo tipo
di Alessandro Curti e Monica D'Alessandro Pozzi

"Quando nasce un bambino non sempre nasce un genitore".

Non si diventa genitori nel momento in cui si concepisce un bambino: si diventa madri o padri nel momento in cui si sceglie di educare quel bambino.
Ma da dove nasce la cultura pedagogica che ci sostiene nel complesso compito di educare i propri figli? Da dove si attingono risorse e saperi da tradurre in agiti pedagogici?
L'educazione nasce naturale e nel passato la trasmissione dei saperi avveniva nelle famiglie allargate: erano l'esempio e le esperienze vissute e narrate da nonni, genitori e zii che formavano i novelli genitori e li trasformavano da “educandi” (nel loro ruolo di figli) ad “educatori” (nel loro nuovo ruolo di madre e padre).
Le trasformazioni sociali hanno però fatto sempre più scomparire questi grandi clan familiari che si sostenevano e aiutavano vicendevolmente. La necessità di portare a casa due stipendi per far fronte alle nuove necessità economiche e l'allungamento del ciclo produttivo che allontana sempre di più il momento dell'uscita dal mondo del lavoro hanno diminuito il tempo a disposizione dei figli rendendo necessaria la nascita dell'educazione professionale in sostituzione di quella naturale.
Genitori e nonni ancora e troppo impiegati nel mondo del lavoro hanno sollecitato la nascita di servizi educativi a cui delegare il compito di cura ed educazione della prole.
La necessaria formazione di “educazioni professionali” è stata demandata a scuole ed università che attingendo ai saperi filosofici, pedagogici e psicologici hanno creato una cultura apparentemente “alta” non a misura di genitore.
Asili nido, scuole di ogni ordine e grado, servizi ricreativi ed educativi, società sporitve, oratori hanno assunto il compito di sostituire il ruolo genitoriale nella quotidianità.
Nulla di nuovo: solo una descrizione – forse nemmeno troppo originale – della situazione in cui viviamo oggi.
Il processo però porta con sé dei rischi.
La professionalizzazione dell'educazione è evidentemente necessaria, per evitare che “chiunque” si improvvisi in una mansione così importante senza avere gli strumenti idonei ad esperirla ma, dall'altro lato, rischia di indurre gli operatori a peccare di superiorità rispetto alla famiglia relegandola ad un ruolo marginale.
D'altro canto i genitori, attraverso la decisione più o meno volontaria di delegare la cura dei propri figli a dei professionisti, si sentono delegittimati e depauperati del loro ruolo naturale e rischiano di peccare in “eccesso di delega” sollevandosi dall'incarico di assunzione di responsabilità.
Sembra che in questo momento, quindi, sia necessario ritrovare una connessione tra educazione naturale e professionale che si stanno allontanando perdendo la giusta complementarietà ed alleanza per restituire il valore di cura ad ogni soggetto coinvolto e costruire una cultura pedagogica che sia in grado di fondere il sapere pedagogico con le prassi educative quotidiane.
Ma dove si può ritrovare un luogo in cui la “trasmissione del sapere” sia possibile se “il cortile” di una volta non esiste più? Se non esistono spazi di condivisione e di c-costruzione e di scambio?
La risposta viene dalla rete: un luogo virtuale dove la condivisione è possibile a dispetto della vicinanza fisica. Espressione di questa necessità di scambio è la nascita di infiniti blog, piattaforme, forum in cui tecno-madri e tecno-padri cercano occasioni formative e di supporto al ruolo educativo ponendo domande e fornendo tentativi di risposte.
Il mondo dell'educazione naturale e di quella professionale però sembrano restare ancora molto distanti e distaccati perché manca, a mio parere, la costruzione di un linguaggio comune che faciliti il dialogo. I professionisti dell'educazione, per necessità o per vanto, utilizzano ancora un linguaggio tecnico (e a volte poco concreto) che non viene riconosciuto dalle famiglie come utile ai bisogni (espressi o latenti che siano) nel tentativo (forse?) di mantenere quella superiorità intellettuale che conferma la necessità della sua presenza nel pieno rispetto di quella legge sistemica che afferma che un sistema lavora per la sua sopravvivenza a discapito degli altri sistemi.
Anche questo intervento, provocatoriamente, vuole indurre questo pensiero.
Per stuzzicare in ognuno di noi quella sensazione di deja-vu che porta gli educatori naturali a pensare “Ecco: un altro spocchioso tecnico dell'educazione che ci vuole insegnare come si educano i nostri figli” e gli educatori professionali a sentirsi tranquilli nella condivisione di un linguaggio che appartiene loro e che ne conferma l'esistenza.
Ma io, oltre ad essere un educatore ed un pedagogista, sono anche un genitore. Sono quello che un collega e amico definisce “educatore del terzo tipo” cioè colui che si occupa di educazione professionale e naturale.
E so per esperienza che tra i due mi risulta più semplice il ruolo professionale perché quello naturale mi crea quell'ansia e quel timore che accomunano tutti i genitori di questo millennio.
La risorsa, credo, è proprio quella di accomunare i due saperi – ciò che ho studiato e ciò che ho imparato nel rapporto con altri genitori, primi fra tutti i miei e che ho vissuto come figlio – nel tentativo di offrire a mia figlia il padre migliore che riesco ad essere.

E in tema di accomunare i saperi voglio soffermarmi sul pensiero che molti genitori si trovano ad affrontare quando riconoscono, per differenti e spesso urgenti motivi (il rientro lavoro, ad esempio), di dover “lasciare” il proprio bambino o la propria bambina, letteralmente nelle mani di “altri”.
E anche in questo caso il confronto tra chi ci è già passato è motivo di rassicurazione e confronto; il dialogo promuove buone prassi educative, aiuta a mettersi in discussione; difficile trovare ogni volta una risposta “univoca”( credo davvero che sia difficile trovarne una che vada bene per tutti. E questo viene confermato sia dall'educazione al naturale che da quella professionale...siamo soliti e coscienti nel dire che ogni bambino e ogni bambina sono a sé, unici).
Succede anche di mettersi online per capire, scovare”ricette” per comprendere meglio “il come e cosa fare”.
Alla fine arriva l'invito ad un incontro davanti a un caffè; il famoso caffè pedagogico. E il ritorno dall'esperienza virtuale, la conoscenza o i dubbi, vengono condivisi di nuovo nel piccolo, nel “cortile”, nell'ingresso all'asilo,da cui si era partiti per diventare piazza.
Condividere davvero la scelta educativa dei nostri figli con chi si occupa di loro è un atto di grande fiducia. Significa dare senso e portare avanti un “progetto educativo” che viene calato nella quotidianità.
“Se all'asilo ormai sono capace di mangiare da solo...prova anche a casa a lasciarmi il cucchiaio, anche se sporco un po' in giro, ma ce la faccio”; potrebbe essere una risposta “pensata”, non riuscirebbe ancora, forse a dirla di un bambino o una bambina alla prime cucchiaiate. Un pensiero di “connessione” tra un piccolo e un grande che provano a dialogare.
Il piccolo prova con il suo disappunto a dire”no, ce la faccio io”. Il grande, davanti a questa “ribellione”, trova aiuto e dialogo con l'educatrice di riferimento che gli spiega che il momento è arrivato “lascialo fare”.

Da qui comincia un cammino tra persone che si interrogano e provano a offrire gioia a chi con fiducia condivide momenti di vita con noi, educatori , mi piace dire, al confine. Un confine labile che trova soluzioni con e insieme all'altro. E si cresce, “virtualmente e non”.


Partecipare, come Educatori e Consulenti Pedagogici, ad un Convegno in qualità di professionisti riconosciuti accanto a Pediatri, Neuropsichiatri Infantili, Infermieri, Nutrizionisti e Assistenti Sociali è stato certamente importante ma, ancora più importante per me, è stato trovare (e ri-trovare) un clima di progettazione e di scambio di visioni pedagogiche che da un po' mi mancava.
Un ringraziamento particolare a Monica ed Elisa (soprattutto per il caffé e le risate).

E a Sara che fa tutto questo per amore.

mercoledì 19 novembre 2014

Riecco Snodi; partecipazione alla conferenza “I primi mille giorni di vita”

Dopo aver rimandato, causa maltempo, la presentazione del libro “Padri imperfetti” di Alessandro Curti, organizzato da CulturAma Associazione Culturale Polivalente presso il caffè Leon d’Oro a Voghera, questo sabato, 22 novembre Snodi Pedagogici sarà ancora protagonista  del “pedagogico” .
La conferenza “I primi mille giorni di vita” organizzata dall’Asilo Nido Studio AMA, da poco diventata impresa sociale, di Voghera con il patrocinio della Provincia e dell’Asl di Pavia e del Comune di Voghera, vedrà come protagonisti differenti relatori accomunati dal “prendersi cura” dei bambini e delle bambine in questa importante e delicata fase della vita. 
Saranno presenti: 
  • il Dr. Alberto Chiara, Primario della pediatria dell’ospedale di Voghera, 
  • il Dr. Enrico Contri del Progetto Manovre Disostruzione pediatrice dell’Associazione “Pavia nel Cuore”, 
  • la Dr.ssa Giulia Castellani, referente del reparto della Neuropsichiatria dell’Infanzia e del’Adolescenza di Voghera, 
  • la Dr.ssa Antonella Albrigoni, Assistente Sociale dell’Asl di Pavia, 
  • la Dr.ssa Carla Torti, dietologa dell’Asl di Pavia,
  • la Dott.ssa Monica D'Alessandro Pozzi che insieme a me porterà un contributo sulla condivisione del sapere pedagogico, oggi, attraverso la rete e non solo.

A moderare gli interventi il Dr. Fabrizio Brusorio dello Studio AMA che insieme alla moglie, l’educatrice Giuliana Cadorna, da tempo desideravano un confronto e un dialogo per “aprire” , non solo fisicamente, ma attraverso il pensiero e il contatto le porte che l’asilo nido Ama ogni giorno apre ai bambini e alle famiglie.
Dunque, l’appuntamento è per sabato 22 novembre alle ore 16:00 presso la sala Rosa della Fondazione Adolescere, v.le della repubblica 25 a Voghera. Massimiliano Alloisio (chitarra) e Loris Stefanuto (percussioni) saranno protagonisti dell’intrattenimento musicale mentre si potranno gustare alcuni dei “piatti dei bambini” a cura della ristorazione Concordia.
E non dimentichiamoci che questa è la settimana dei “Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989. In quegli stessi giorni a Berlino cadeva il muro…e da tempo i mattoni dentro i “muri” dell’educazione e della pedagogia cercano “aria e spazio”.

mercoledì 5 novembre 2014

...di paternità ed educazione

Un nuovo appuntamento a Voghera.
Grazie all'Associazione Culturale Polivalente CulturAma e a Snodi Pedagogici

Per chi vuole partecipare ad una serata in cui confrontarsi su paternità ed educazione.


mercoledì 29 ottobre 2014

Io sono DSA

"Allora ragazzi, i DSA alzino la mano che organizziamo le interrogazioni programmate."

"Prof io sono DSA, non può interrogarmi a sorpresa."

"I ragazzi DSA possono scaricare le mappe di fisica da sito."

"Prof alle medie ero DSA. Perché non posso usare la calcolatrice? Lei deve farmela usare!"

"Come faccio a sapere se sono DSA? Anche io voglio fare le interrogazioni programmate come i miei compagni..."

DSA, DVA, dislessico, discalculico, disortografico, iperattivo, BES... dove sono finito Marco, Sofia, Luca, Martina e tutti i loro compagni?
Per questa nuova scuola sembrano non esistere più, confusi dietro ad una etichetta che gli è stata appiccicata e che non possono più togliersi.
O che non vogliono più togliersi, perché avere un disturbo specifico dell'apprendimento oggi può essere un vantaggio. Un dito dietro cui nascondersi per non mostrare la poca voglia di studiare, di faticare nel processo di apprendimento.


Le frasi citate poco sopra (udite dalle mie povere orecchie di educatore alla ricerca di peculiarità individuali) sono state espresse con naturalezza, con provocazione alcune volte.
Ma mai con vergogna o imbarazzo.
Intendiamoci: avere un disturbo dell'apprendimento non è una colpa e come tale non deve essere vissuto.
Però il disturbo non può arrivare prima della persona o - addirittura - al suo posto!
Marco può essere dislessico, Sofia discalculica, Luca disortografico, Martina iperattiva... ma restano dei ragazzi che oltre al loro disturbo hanno altro.
Risorse, caratteri, interessi, paure, certezze! Questo e tanto altro.

Approfondire il fenomeno è giusto, ricercare nuove strategie e modalità di studio è doveroso, capire come offrire a tutti pari opportunità di apprendimento è obbligatorio.
Ma non a discapito della persona e del suo essere globale. 
Non sostituendo la problematicità con l'educazione.
Non mettendo in disparte l'approccio sistemico per semplificare ed uniformare gli interventi.

Perché categorizzare può essere utile ma etichettare diventa pericoloso.

Io questa lezione l'ho imparata anni fa quando, durante un esame universitario utilizzando un lessico professionale troppo gergale, parlai di "tossicodipendenti" e venni fermato da docente che, con sguardo truce, mi chiese: "Scusi chi?"
Solo correggendomi con un "Persone affette da tossicodipendenza" riuscii far cambiare espressione al docente e superare un esame che, sebbene brillante, aveva rischiato di essere inficiato da quella disattenzione.


Chi insegna questa lezione ai nuovi studenti?
Quale scuola semplifica, permettendo agli studenti stessi di semplificare, le persone?

mercoledì 22 ottobre 2014

La morsa: rischio d'impresa vs qualità professionale

Sembra di essere sempre stretti in una morsa.

Il privato sociale lotta per la sopravvivenza, rimbalzando tra una commessa e l'altra, partecipando a bandi "con offerta al ribasso", accettando incarichi che possono terminare dall'oggi al domani per le intemperanze degli utenti, accontentandosi di pacchetti ore risicati e che non contemplano (quasi mai, ma il quasi è d'obbligo) nemmeno un minuto retribuito per tutto il lavoro che non è a diretto contatto con l'utente.
Eppure gli educatori si lamentano, aprono lunghi thread di discussione sui social in cui demonizzano le cooperative perché non pagano abbastanza, non pagano regolarmente, non assumono a tempo indeterminato...

Gli Enti Pubblici - di contro - richiedono operatori di qualità, che sappiano affrontare situazioni complesse con professionalità e competenza. Doti che si acquisiscono solo con un adeguato titolo di studio e anni di esperienza. Però offrono (e non possono fare altrimenti, purtroppo, perché strangolati dai continui tagli economici imposti dall'alto) bandi "con offerta al ribasso", incarichi che possono terminare dall'oggi al domani per le intemperanze degli utenti, pacchetti ore risicati e che non contemplano (quasi mai, ma il quasi è d'obbligo) nemmeno un minuto retribuito per tutto il lavoro che non è a diretto contatto con l'utente.
Perché non possono permettersi di assumere educatori visto che costerebbero troppo e "un Ente pubblico non può assumersi il rischio d'impresa perché impresa non è".
E le cooperative devono accettare per sopravvivere.

Le "più furbette" assumono operatori senza un titolo adeguato o comunque inquadrati ad un livello inferiore a quello che spetterebbe loro dando ragione agli operatori che si lamentano di essere sfruttati.
Le "più corrette" accettano ciò che il mercato offre (cercando di salvaguardare la qualità professionale e la dignità individuale del lavoratore) dando così ragione a chi, nelle stanze dei bottoni, gioca al ribasso in un settore così delicato come il disagio sociale.

Come recita il detto Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.

Chi perde in questa situazione?
Gli Enti Pubblici che non sempre riescono ad avere la qualità professionale che meriterebbero in un settore così delicato.
Le Cooperative e le Associazioni che faticano a sopravvivere perché troppo spesso si trovano costrette a scegliere tra il non poter offrire adeguata qualità (e quindi perdere posizione sul mercato) o il dover accettare vincoli che le strozzano (e quindi vedere minata quotidianamente la loro sopravvivenza).
Gli operatori (educatori in primis ma anche tutti quegli operatori sociali che ruotano attorno) perché non riescono ad avere condizioni lavorative tali da poter operare con la giusta tranquillità ottenendo il corretto corrispettivo (rinunciando talvolta ad una qualità della vita a cui avrebbero pieno diritto)
E gli utenti? Beh... in tutto questo discorso non si è ancora accennato agli utenti finali perché dovrebbe essere implicito l'obiettivo del loro benessere.

Quindi non si ha né la botte piena, né la moglie ubriaca...

Sembra di essere sempre stretti in una morsa.

E come si può uscire da questa empasse?
Restituendo valore al lavoro educativo come azione fondante dello sviluppo del benessere e della prevenzione del disagio sociale.
Restituendo dignità professionale e personale agli educatori che, come tutte le persone con cui lavorano, hanno diritto al benessere.
Restituendo agli operatori sociali le risorse necessarie per affrontare queste problematiche.

Cosa c'è di pedagogico in questo post?
La risposta non è complicata se si considera il mondo dell'educazione come un sistema complesso, non solo connotato da educatori, educandi ed interventi educativi.
Chi si ferma a questo primo livello, senza contemplare che questo è solo un aspetto di una complessità composta da molteplici attori, rischia di non avere una corretta visione del tutto.
Pensare all'educazione senza connetterla alla società, all'economia e alla politica non ci permetterebbe di affrontarla in modo congruente e professionale.

Dimenticando quindi la mission.


mercoledì 3 settembre 2014

Dal pannolino ad una nuova teoria dell'attaccamento

Qualche giorno fa una collega mi ha mostrato questa immagine ben sapendo che la mia "orticaria paterna" si sarebbe acuita nuovamente.
Pensava di provocarmi... ma io ho semplicemente pensato che i creativi assoldati per creare questa pubblicità non avevano reso un gran bel servizio alla committenza, perché avrebbero perso qualche cliente, invece di guadagnarlo.

Almeno: se mia figlia portasse ancora il pannolino io di sicuro non avrei acquistato questi.

Perché emerge [ancora] l'immagine di un maschile inabile alla cura, da mettere alla prova.
Un vecchio cliché?
Forse.

Cosa manca di pedagogico?

Questa la domanda di chi - con interesse - cerca di esplorare le differenze di genere per scorgervi una novità, una differenziazione rispetto a ciò che culturalmente sembra ormai granitico.
Quesito che ha scaturito una risposta composta da due domande, entrambe che iniziavano con un "forse".

Forse l'idea di una cura al maschile che non sia solo da mettere alla prova ma che valga come già "testata"? Forse una teoria dell'attaccamento sistemica e non biunivoca? 

La teoria dell'attaccamento, che tutti ormai sanno essere stata formulata da Bowlby nel secolo scorso, definisce l'attaccamento come "un sistema dinamico di atteggiamenti e comportamenti che contribuiscono alla formazione di un legame specifico tra due persone, un vincolo le cui radici possono essere rintracciate nelle relazioni primarie che si instaurano fra bambino e adulto." [J. Bowlby - Attaccamento e Perdita].
Secondo lo psicoanalista (e quando mai è un pedagogista a formulare una teoria?) il bambino, fin dalla nascita, è naturalmente predisposto a sviluppare un forte legame di attaccamento con la madre, o più in generale con qualsiasi adulto definito caregiver cioè colui che offre cura.

O la madre o chiunque.
Come dire che se non sei la madre sei, appunto, chiunque.
Cioè nessuno.

Ho sempre pensato che il fraintendimento nascesse dalla convinzione che il legame di attaccamento ponesse le sue basi durante i primi mesi di vita di un bambino, periodo nel quale l'unico oggetto di interesse è il seno materno come "fornitore di nutrimento". Da qui si è sempre ipotizzato che il legame primario (= simbiotico, nell'accezione di Margaret Mahler) fosse con la madre, relegando il padre ad un ruolo di comparsa nel sistema familiare.
Ma è proprio Bowlby a sostenere che nei primi tre mesi di vita il bambino vive la fase di pre-attaccamento: pur riconoscendo la figura umana non discrimina e non riconosce specificatamente le persone.
Quindi nemmeno la madre che per il cucciolo altro non è che una grande tetta.
E come si passa dall'essere una grande tetta a diventare un caregiver?
E chi è questo fantomatico caregiver? Da cosa è caratterizzato?

To care significa prendersi cura di e si differenzia dal to cure che ha uno stampo maggiormente sanitario, dove la cura è il tentativo di superare uno stato di malattia e di malessere.
Come si può allora dire che il padre NON è un caregiver?

La teoria sistemica sostiene che condizione necessaria perché sia stabilito un sistema è che i suoi elementi interagiscano tra loro e che tale interazione avviene quando il comportamento dell'uno influenza quello dell'altro.
Si può definire l'interazione - secondo me - come una relazione.

Non è quindi sufficiente che ci sia una relazione perché si possa parlare di sistema familiare dove ogni soggetto può avere il ruolo di caregiver?
Cambiare un pannolino non è un comportamento di cura che implica un alto livello di relazione e di intimità?
I padri, quindi, non sono necessariamente in prova perché nel momento in cui sono (vogliono essere) presenti nei comportamenti di cura verso i propri figli diventano soggetti essi stessi di attaccamento.
Senza dover necessariamente testare (= mettere in dubbio fino a prova contraria) ogni volta la loro capacità di cura e accudimento.
Dalla cura primaria fino alla cura educativa.

Già nella fase dell'attaccamento in prova di Bowlby  (dai 3 mesi) quando il bambino discrimina le figure e comincia a riconoscere quelle che lo curano, lo coccolano, lo nutrono.

Proviamo a riguardare l'immagine proposta nella pubblicità.
Non possiamo definire quel comportamento come un comportamento di cura?

Allora (forse) la teoria dell'attaccamento letta in un'ottica sistemica riconosce la famiglie come il caregiver. A prescindere dalla differenza di genere.




mercoledì 27 agosto 2014

#pensodunquebloggo2 - di conclusioni e ripartenze

Il 28 agosto i blogger del gruppo Snodi Pedagogici scriveranno e pubblicheranno una serie di articoli, sui propri blog, inerenti ai blogging day già pubblicati:

Una sorta di conclusione su quanto è emerso fino ad oggi grazie ai vostri contributi, per rileggere assieme a voi i passaggi fondamentali, provando a dare delle risposte ma anche porre e porsi nuove domande, in vista dell'antologia che verrà pubblicata ad autunno e il cui ricavato andrà in beneficenza alla "Locanda dei Girasoli" di Roma
Gli articoli verranno pubblicati sui diversi social con‪#‎Pensodunquebloggodue‬ e raccolti sul sito di Snodi Pedagogici

#pensodunquebloggodue - di conclusioni e ripartenze

Ed eccoci alla fine, alla conclusione di un Blogging Day iniziato a gennaio e che ha portato tutti noi, blogger di Snodi Pedagogici, in un viaggio che forse nemmeno ci aspettavamo.
I primi tre appuntamenti hanno riguardato l'educazione naturale, le connessioni tra pedagogia e scuola, e i possibili link tra pedagogia e politica (il secondo post ospitato da questo blog sul tema lo trovate qui).
Le prime tre tappe di un percorso che ci hanno accompagnato in riflessioni, stimoli e proposte di altri e che ognuno di noi ha tentato di ricucire nel primo #pensodunquebloggo.

A me personalmente sembrava già un ottimo risultato perché - considerando le fatiche e l'agitazione da scolaretti che stavano dietro ad ogni appuntamento - credevo avremmo terminato le nostre energie in quella prima tornata.
Ma noi Edu-Blogger siamo gente cocciuta.
O incosciente.

Ed ecco che allora siamo partiti con i tre appuntamenti successivi: educazione e amore, educazione e bellezza (anche questo bissato qui) e i lati oscuri dell'educazione
Che ci conducono direttamente a questo #pensodunquebloggodue, con il quale tentiamo una ricucitura dei temi affrontati in questo ultimo trimestre.
Rileggendo gli ultimi contributi mi è venuta in mente un'immagine che - secondo me - le racchiude.
Una moneta. 

Una moneta chiamata Educazione la cui prima faccia è l'amore (sentimento fondamentale per la costruzione di una relazione che deve declinarsi in amore pedagogico se la relazione da costruire è di tipo educativo) e l'altra è il pericolo (perché il rischio di ogni educatore è di cedere al richiamo dell'onnipotenza, trasformandosi in un cattivo maestro). 
Immaginando questo concetto nel mio quotidiano lavorativo riesco a scorgere innumerevoli episodio in cui ho dovuto coniugare questi due aspetti (l'amore pedagogico verso i miei utenti e l'attenzione al mio delirio di onnipotenza).
Innumerevoli? Praticamente ogni azione educativa che svolgo passa sotto queste due lenti d'osservazione, a voler ben guardare...
E dove sta la bellezza, vi chiederete?
Me lo sono chiesto anche io. E ho trovato la risposta rileggendo proprio Ogni scarafone è bello a mamma soja perché la Bellezza sta proprio nel risultato che possiamo osservare in ciò che facciamo.

Come Michelangelo, che nel blocco di marmo già intravedeva la statua che vi era nascosta liberandola dalle parti eccedenti. 
Una bellezza che è frutto anche del nostro amore e dell'attenzione che poniamo al nostro essere onnipotenti, ma che è già insito nella persona che abbiamo di fronte. 
E che noi possiamo solo trarre fuori (ex-ducere).

Genitori, insegnanti, politici, educatori, esseri umani... siamo tutti coinvolti come soggetti attivi nel processo di Educazione dell'altro come di noi stessi. Del mondo. 
L'Educazione diventa compito e responsabilità di ognuno di noi. 
A suo modo. 
Per le proprie capacità.
Ma non è possibile abdicare.
O meglio: io scelgo di non abdicare.
Come educatore, padre ed essere di questo mondo.

Questo è, per me, il significato di questo percorso: cercare ogni strada per continuare a far risuonare la grancassa dell'Educazione perché tutti possano esserne richiamati ed attratti.
Ecco perché questo #pensodunquebloggodue non è un punto di arrivo.
Ma una nuova partenza.
Per nuove idee, percorsi e scambi di cultura educativa e pedagogica.
Dentro e fuori la rete.

Per dare voce a Tutti coloro che avranno voglia di partecipare, nei commenti o con altri contributi sui temi che verranno proposti.




I Blog Partecipanti:

La Bottega della Pedagogista di Vania Rigoni
Ponti e Derive di Monica Cristina Massola
Nessi Pedagogici di Manuela Fedeli
E di Educazione di Anna Gatti assieme a un guest post di Alessia Zucchelli, collaboratrice del blog
Bivio Pedagogico di Christian Sarno
TraFantasiaSpazioAzione di Monica D'Alessandro Pozzi
Labirinti Pedagogici di Alessandro Curti
In Dialogo di Elisa Benzi
Il Piccolo Doge di Sylvia Baldessari

mercoledì 30 luglio 2014

E poi mi chiedono che lavoro faccio...

ore 20.30
Ricevi una telefonata...
"Non vuole lavare i denti, sta facendo scene dell'altro mondo. C'è fuori mezzo paese. Adesso chiamo i carabinieri e lo faccio portare in istituto. Non ce la faccio più..."
Clic.
La telefonata si chiude.
Tu richiami ma risponde la segreteria telefonica.
Una volta. Due volte. Tre. Quindici.
Sempre la segreteria.
Prendi la tua decisione. Guardi tua figlia (che non ha ancora 8 anni e si sta apprestando ad andare a letto) e le dici "Scusa piccola, devo uscire. Si tratta di un'emergenza." E poi parti.
Venti minuti d'auto durante i quali l'emotività, l'adrenalina e la lucidità professionale si mischiano. A tratti si confondono.
Pensi a tutti gli scenari possibili. Al paese che assiste allo scempio educativo. Ai carabinieri a cui dovrai probabilmente spiegare quanto accaduto (con tutti gli annessi e connessi). Alla mamma e al suo bimbo che "chissà come saranno messi...", all'intervento educativo che dovrai fare.
Perché questo è quello che stai andando a fare: un intervento educativo che non hai progettato, programmato e che dovrai agire entro i prossimi minuti.
Arrivi.
Di carabinieri e vicinato nemmeno l'ombra. Di urla e pianti nemmeno più l'eco.
Lui sta lavando i denti e lei lo sta aiutando.
Non è importante quello che dici o quello che fai. Non è questo il senso della narrazione. 
Basta dire che cerchi di contenere la tua emotività (ma non troppo) e che ti preoccupi di tutto il sistema: madre, bimbo, vicinato... Con un occhio a quello che hai fatto fino ad ora, uno all'obiettivo di ora e di domani (quando li dovrai rincontrare!), uno agli obiettivi del servizio sociale e del tribunale.... e quanti occhi ha un educatore?
Tutti quelli appena citato più uno.
Perché quando tutto finisce ed esci da quella casa l'adrenalina cala.
E l'ultimo occhio si occupa di te lasciando uscire una microscopica (forse metaforica) lacrima.
Perché ti accorgi che la cosa più dolorosa di questa folle serata è quella frase.
"Scusa piccola, devo uscire. Si tratta di un'emergenza."
E ti accorgi che forse hai chiesto troppo. Non a te stesso, ma alla tua piccola. Che non ha ancora otto anni ma già deve fare i conti con le emergenze serali e le partenze improvvise.
Il guaio è che hai ancora venti minuti d'auto da percorrere per arrivare a casa. E che non potrai fare altro che pensare a quanto accaduto. Professionalmente e personalmente.
Emozioni, dubbi, sensi di colpa, valutazioni del tuo operato...
Poi torni a casa e l'abbracci.
"Sono tornato. Tutto a posto." dici, pensando all'emergenza che hai appena affrontato.
E lei ti risponde: "Si, tutto a posto papi." pensando a sé stessa.
Le dai il bacio della buona notte.
Torni sul divano e ti chiedi se merita un padre che la sera, invece di stare con lei, corre per altri bambini.
Una risposta arriva.
Merita questo padre che la ama tanto perché ha imparato ad amare anche altri bambini.

Un ultimo pensiero.
Vaffanculo a questo lavoro.
Domani si ricomincia.

E tutto quello che resta
sono sogni incollati fino a dentro le ossa
(Emma - Amami)



sabato 19 luglio 2014

Riflessioni dopo #pedagogicalert (il B-day)

Il blogging day è appena passato, i post stanno girando in rete e riceveranno (forse) qualche commento, saranno (mi piace pensarlo) da stimolo per qualche educatore e/o pedagogista.
Il tema #pedagogicalert (di cui trovate qui tutti i contributi) mi è sembrato interessante...

Noi blogger che ospitiamo i contributi di altri siamo abituati, ad ogni blogging day, a ricordarci quanto sia stato faticoso star dietro a tutto. Ricevere i contributi, leggerli, selezionarli, suddividerli tra noi... e poi rincorrere qualche autore perché non ha mandato biografia e foto, inserire i permalink sul sito di Snodi Pedagogici fino all'ultimo minuto, coordinarci per la pubblicazione tutti insieme - a dispetto di quello che stiamo facendo, di dove siamo, di quali impegni abbiamo... - verificare che tutto funzioni, condividere, twittare, googlare, LinkedInare, facebookare... insomma, rendere visibili i contributi il più possibile.
Ma ci piace anche compiacerci, raccontarci quanto il blogging day sia stato bello, quanto profondi e stimolanti siano stati i contributi... Certo, sta nella natura umana provare piacere in quello che si fa.
Gratuitamente peraltro.
O quasi.
Perché un guadagno c'è!

Alcuni di noi (i più geek, direi) controllano le statistiche, analizzano le fluttuazioni degli accessi ai blog in concomitanza dell'evento, mettono in connessione con altri post, con altri blogging day... E fanno bene: perché quei numeri sono il risultato delle fatiche comuni e ci narrano quanto la divulgazione pedagogica abbia (o meno) avuto successo. Che è poi il nostro obiettivo.
Io no.
Io mi limito a leggere gli altrui contributi e a coglierne dei suggerimenti per la mia professione.

E devo dire che questo è stato proprio un bel blogging day.

Mi è piaciuto. Più di altri forse... Forse...

Mi ha fatto riflettere su alcune cose che, nella mia vita professionale, sono molto importanti e - benché io le tenga sempre in considerazione - devo ricordarmi di non dimenticarle mai.
Ma veramente Mai!

Intanto che la relazione educativa non può mai essere distaccata dal setting in cui si è inseriti.
Nei diversi contributi (che altro non sono se non narrazioni delle nostre prassi quotidiani) si attraversano luoghi educativi differenti, ma si pone sempre molta attenzione alla relazione tra educatore ed educando. 
Corretto, ovviamente, ma non a discapito del tutto che ci circonda.
Provo ad immaginarmi in una relazione educativa con uno (dei tanti) ragazzini che seguo. Uno qualsiasi...
Un capriccio o una trasgressione ad una regola che peso hanno se sono agiti nella sua abitazione (dove siamo presenti solo io e lui) o in un supermercato (mentre compriamo l'acqua per sua madre?). Le mie reazioni sarebbero identiche?
Ovviamente no - mi viene da dire - perché in ogni luogo ci sono delle regole di contesto differenti e sulla base [anche] di queste devo costruire il mio intervento. 
E all'interno dello stesso "luogo" anche la presenza (o assenza) di altri attori modifica il mio intervento educativo.
E di conseguenza la relazione comunicativa che ho con il mio ragazzetto.
La presenza (o assenza) di un genitore, di un fratello, di un amico, di un qualsiasi altro elemento del suo sistema familiare o sociale deve necessariamente modificare la mia intenzionalità educativa, pur nel mantenimento dell'obiettivo che voglio raggiungere.
Chiaro?
Credo di no. Ma tant'è...

Inoltre la relazione educativa non può mai prescindere dalla storia e dall'educazione dell'educatore.
Una delle domande che più mi ha colpito nei contributi di #pedagogicalert è stata "Dove finisce la regola e comincia il libero arbitrio?"
Come dire: quanto ci metto di me come persona? E quanto è positivo quel che ci metto di me come persona?
Uno dei lati oscuri dell'educazione più evidenziato sembra emergere quando l'educatore pone al centro della relazione sé stesso (e i propri bisogni di autovalutazione) invece dell'utente. Quando il trarre fuori si trasformare in inculcare.
Quanto è sottile la border-line (termine scelto non a caso) tra la richiesta di rispetto di una regola e l'asservimento dell'altro a me? Quanto io come educatore rischio, nel tentativo di trasmettere regole e contesti sociali, di esagerare e trasferire le mie credenze e i miei miti?
Mi viene in mente, a questo proposito, un episodio accaduto non più tardi di una settimana fa.
Oratorio estivo. Un bimbo dice una parolaccia "un po' troppo grossa" ed io intervengo. Alla scena è presente un animatore, uno di quegli adolescenti che dedicano la loro estate al servizio di qualcuno più piccolo di lui per farlo divertire ed aiutarlo a crescere (e forse per divertirsi e crescere un po' anche lui).
Al termine dell'intervento, una volta che il bambino "con la bocca più grande di lui" si allontana, l'animatore mi apostrofa.
"Io sarei stato molto più duro di te."
Ci credo. Quella parolaccia (davvero un po' troppo grossa!) ha urtato le sue personali credenze e convinzioni. E lui (da adolescente quale è) le avrebbe difese a spada tratta.
Gli ho fatto notare questa cosa. E gli ho anche fatto notare che se avesse messo in primo piano le sue credenze avrebbe (forse) sconfessato le credenze dell'altro, esprimendo un giudizio di valore sul modo in cui è stato cresciuto (e di conseguenza sulle persone che lo hanno cresciuto) obbligandolo a scegliere tra un sistema di valori ed un altro.
Uscendone probabilmente sconfitto perché l'educazione familiare è più forte di quella impartita da un "esterno".
Per quanto simpatico e carismatico possa essere.
Era giusto che il ragazzo avesse ben presente la sua educazione e le sue scelte di vita che lo hanno formato come persona, ma era altrettanto giusto che ricordasse che queste grandi risorse potrebbero facilmente trasformarsi in limiti se le utilizzasse come assiomi.
Una buona lezione educativa per lui.
Un ottimo promemoria per me.
Perché un educatore deve conoscersi profondamente per trasformare se stesso in uno strumento educativo.
O rischia di diventare un cattivo maestro.

Infine che l'educazione non può mai essere bianca o nera.
Nel bene c'è sempre un po' di male.
E viceversa.
Perché l'educazione è fatta da esseri umani che, in quanto tali, sono passibili di errori.
Ma, come spesso mi piace ripetere ai genitori che incontro nei luoghi formativi, se una scelta educativa è fatta con consapevolezza, buona fede ed intenzionalità non può mai essere una scelta errata.
Solo perfettibile.

Ecco perché questo è stato un bel B-day per me.



venerdì 18 luglio 2014

#pedagogicalert - I lati oscuri dell'educazione

Il tema lanciato a luglio da Snodi Pedagogici è: #PEDAGOGICALERT

"Quali sono le zone oscure dell’educazione?

Quali elementi ci sono nell’educazione e nella pedagogia che, se non vengono valutati, portano l ‘azione educativa ad essere “pericolosa” per chi educa e ch è educato? 
Chi sono i cattivi maestri?
Oppure la pedagogia può come disciplina, citando Marguerite Yourcenar, saper guardare nel buio con disobbedienza, ottimismo e avventatezza e scoprire strade inusitate?"



Buona lettura



#PEDAGOGICALERT - I lati oscuri dell'educazione

Quando vidi costui nel gran diserto..
.tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore/
Tu se’ solo colui da cu’ io tolsi/
Lo bello stilo che m’ha fatto onore.”
(“Commedia”, If. I - Dante Alighieri)

Non smetto mai di figurarmi nella mente questa immagine della dantesca Commedia, quando penso al rapporto educativo: un rapporto che è tale perché chi viene educato riconosce in chi ha al suo fianco nel cammino pedagogico-didattico un riferimento, una guida, un “Virgilio”.
Il riconoscimento è determinato dalla fiducia, un “profumo” originato dal bagaglio di conoscenze e abilità che la guida può trasmettere (“Tu se’ solo colui da cui io tolsi…”) per perpetuare in modo sempre diverso coscienze le più libere e autonome possibili: un bagaglio che, come un testimone in una corsa a staffetta, la “guida” affida al “Dante” di turno (torna la fiducia…), in modo che lo “smarrito Dante” possa sapersi orientare nella “selva oscura” e magari uscirne.
Potrebbe, tuttavia, rimanervi impigliato tra rametti di cipressi di Leyland e cespugli di Rovi? Potrebbe non uscirne mai più da quel “bosco senza luce”?
Sì, ma in un caso: solo quando il “Virgilio” di turno (l’educatore…) strumentalizza quella fiducia e in realtà affida al “Dante” non una bussola, ma uno “narcisistico specchietto”, mediante cui ritrovare solo se stesso e dipendere dal Virgilio senza mai “riveder le stelle” in modo autonomo e critico.
Quando un educatore, un maestro, un insegnante non affida al discente gli strumenti in suo possesso (conoscenze e abilità) per spiccare il volo, ma per restare impigliato in un rapporto di subalternità e dipendenza, là il rapporto educativo vortica su se stesso, in una “specchiata spirale” in cui docente e discente si riflettono per cercare nell’altro quel qualcosa che dia senso alla propria esistenza: come Lord Voldermort (cattivo maestro…) ed Harry Potter nel finale della saga omonima, si lanciano da una finestra nel vuoto, non per reciproco “affidarsi” consci che una rete ci sarà a salvare le loro vite, ma per un sussulto di “disperata vitalità”, che rasenta lo spegnimento di ogni facoltà emotivo-intellettiva fino al cadere in un abisso senza fine, la perdita di sé, impelagati tra flutti alti e marosi tumultuosi.
Non al mare, ma al cielo, dovrebbero mirare discente e docente: come un acrobata il discente, dopo aver rasentato la terra e respirato l’odor di segatura dell’arena circense, lascia che l’altro nel sinuoso volo lo prenda temporaneamente per mano, affinché spicchi il volo, da solo, da sé…
E Montero Primo attaccava a salire la sua tela, ingollando e ingollando, finché arrivava all’abbraccio del fratello…”1
Si diventa Lord Voldemort, cattivo maestro, specie quando l’educatore non ha fatto i conti con sé e cerca un senso in chi ha di fronte, strumentalizzandolo per alimentare il proprio ego ancora labile e lacunoso: difficile è essere Montero Secondo, che si fa temporaneo strumento, provvisoria rampa di lancio, per permettere al fratello di completare l’acrobatico esercizio.

Libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
E fallo fora non fare a suo senno:
perch’io te sovra te corono e mitrio”.
(“Commedia”, Pg. XXVII – Virgilio a Dante..)

Così Virgilio si congeda.
Il suo compito è terminato: Dante spiccherà il volo e “vedrà le stelle”.

1 “Piazza d’Italia” – Antonio Tabucchi.

L'autore di questo post
PASQUALE NUZZOLESE
Professore di Lettere alla  Scuola Secondaria di I grado “Sandro Pertini” di Ponte nelle Alpi (BL), vivo da sei anni tra le “Scogliere di Dio” bellunesi, dopo averne trascorsi ventisei nell’Atene delle Puglie, Trani,  terra dove mi sono laureato in Lettere moderne, indirizzo storico-sociale (2005) e ho conseguito l’abilitazione all’insegnamento (SSIS – Puglia, 2008).  Ritrarre in “scatti di luce” la realtà (Instagram) e declinarla in 140 caratteri ( Twitter) sono il modo in cui vivo le humanae litterae del XXI secolo.



Tutti i contributi verranno divulgati dai blogger di Snodi Pedagogicicondivisi e commentati sui diversi social e raccolti a questo link 

I blog che partecipano
Il Piccolo Doge di Sylvia Baldessari
Ponti e Derive di Monica Cristina Massola
Nessi Pedagogici di Manuerla Fedeli
E di Educazione di Anna Gatti
La Bottega della Pedagogista di Vania Rigoni
In Dialogo di Elisa Benzi
Bivio Pedagogico di Christian Sarno
Labirinti Pedagogici di Alessandro Curti
Tra Fantasia Pensiero Azione di Monica D'Alessandro Pozzi
blogging day fanno parte di un progetto culturale organizzato e promosso da Snodi Pedagogici.

Questo avrà termine con l'estate e sfocerà in un'antologia dei contributi che verrà pubblicata sotto forma di ebook, il cui ricavato andrà in beneficenza alla Locanda dei Girasoli



Una volta finito il percorso di pubblicazione online, vari autori che hanno preso parte ai BDay, verranno contattati dalla redazione.

giovedì 17 luglio 2014

#5buoneragioni

Sta accadendo qualcosa di importante.
Qualcosa che ha a che fare con le comunità per minori. Tema [non ho bisogno di dirlo a chi mi conosce bene] che mi sta molto caro.
Perché in comunità per minori ci ho passato (letteralmente) metà della mia vita.
Sangue (metaforico), sudore (fisico) e lacrime (quelle raccolte). 
Ma tante e tante soddisfazioni.

Ma bando all'emotività di un povero anziano educatore.
Dicevo che sta succedendo qualcosa. 
Alle 12.30 di oggi alla Camera dei Deputati stanno presentando la campagna #5buoneragioni.
Cinque buone ragioni per accogliere i bambini che vanno protetti.


Da dove nasce questa campagna? 
Dai recenti servizi di tante trasmissioni che hanno messo in discussione [eufemismo] il lavoro di queste strutture di accoglienza. 
[Ne ho già parlato qui e (indirettamente) qui.]
Qualcuno ha letto i miei post e - per questo - mi ha coinvolto chiedendomi di sottoscrivere la campagna.
Cosa che ho fatto senza dubbio alcuno.
Perché io conosco il senso ed il valore delle comunità di accoglienza.
Poi mi hanno chiesto di mandare un video: una registrazione in cui racconto perché ho sottoscritto quella campagna. Ma io mi vergogno. So a malapena scrivere, figuriamoci se so anche parlare in pubblico...
Forse lo farò, forse no (anche se qualcuno a me molto vicino continua a dirmi Mandalo!).
Ma intanto ho fatto quel che so fare (forse) meglio.
Scrivere.

Ed è qui che scrivo che non ho bisogno di #5buoneragioni per sostenere che le comunità di accoglienza devono continuare ad esistere.
Mi basta pensare alle centinaia di ragazzi che ho incontrato in quasi vent'anni di lavoro in comunità e mi vengono in mente molto più che #5buoneragioni. 
Potrei fare i nomi, ma non mi basterebbe un post.
E non sarebbe interessante per coloro che leggono, perché le storie hanno senso solo se le conosciamo bene. Se le viviamo o se ci vengono raccontate...
Ecco perché io cerco di narrare ciò che faccio in educazione. 
Non per me. 
Non per i servizi. 
Ma per loro: le storie (e le persone) che quotidianamente incontro e che vivo.
Perché l'educazione è un viaggio che si percorre insieme!

So che ci sono servizi che non funzionano, so che ci sono educatori che non fanno bene il loro lavoro (e non sono né meglio né peggio di quelli che vengono arrestati per pedofilia, maltrattamenti o incuria perché quando si ha a che fare con le persone non si scherza, non si può sbagliare!).
Ma so che ci sono preti che partecipano a festini a base di coca. 
E non vuole dire che tutti i preti sono cocainomani.
So che ci sono cassiere del supermercato che rubato. 
E non vuol dire che tutte le cassiere siano ladre.
So che ci sono dipendenti pubblici che non lavorano. 
E non vuol dire che tutti i dipendenti pubblici siano dei fannulloni.
So che ci sono insegnanti che non hanno a cuore il processo di crescita dei loro studenti. 
E non vuol dire che tutti gli insegnanti siano inetti.
So che ci sono genitori che non riescono/possono/vogliono crescere bene i loro figli.
E non vuol dire che tutti i genitori siano degli incapaci.

Al mondo ci sono un mucchio di luoghi comuni.
Alcuni giusti e alcuni sbagliati.
Poi ci sono un mucchio di storie. 
Chi ha il potere di dire quali siano quelle giuste e quelle sbagliate?

Alcune sono silenziose ad esclusivo appannaggio di chi ha avuto la fortuna di viverle.
Altre le raccontano qui.
E sono interessanti da ascoltare.


(e vi consiglio di prestare particolare attenzione a ciò che dice Francesco...)