giovedì 26 settembre 2013

Da SOS Tata alla rivolta dei Pediatri: quali connessioni tra Medicina e Pedagogia?

Non sono un grande appassionato di ospedali. Ma credo che questa mia caratteristica sia presente in molti miei simili, appartenenti alla specie umana.
Capita però che io ci debba andare. Se posso evito, ma se non si può fare altrimenti ci vado.
Un po' più volentieri quando si accompagna qualcuno, un po' meno quando tocca a me direttamente...
Ieri ero quindi in quello strano limbo rappresentato dal mio andare in ospedale ma del non dover essere oggetto di visita da parte di alcuno.
La visita era per la mia piccina. Niente di preoccupante: un normale controllo oculistico per capire se il bruciore agli occhi è semplicemente perché assomiglia ad una topina da biblioteca che passa ogni suo momento libero a leggere il sempreverde Topolino o se qualche diottria sia stata smarrita per strada e occorra porvi rimedio in modo artificiale.
Una cosa è certa: mia figlia non è Riccardo-Cuor-di-Leone e di fronte a ciò che non conosce si intimorisce. Ma credo che anche questa caratteristica sia comune a molte appartenenti alla specie umana di sette anni.
Prova a spiegarle che una visita oculistica non è come un prelievo del sangue o un tampone oro-faringeo, che nulla di invasivo o di doloroso o anche solo di lontanamente fastidioso le verrà fatto, che il papà sarà al suo fianco per farle coraggio... Quando la fifa è blu, solo l'esperienza insegna. Ne sa qualcosa il dito del medico che ha fatto l'ultimo tampone a mia figlia alla ricerca di un possibile streptococco. 
Ma sono abbastanza tranquillo da questo punto di vista perché non sto andando in un Ospedale Pediatrico Specializzato ma ci sono vicino: è l'ospedale della zona con i reparti di ostetricia e ginecologia, neonatologia, pediatria... insomma è dove normalmente si va con i piccoli malati perché sono più attenti.
Senza farla tanto lunga nella descrizione della visita riassumo il tutto con la frase detta al telefono di mia moglie appena uscito dall'Ospedale: "Io in questi posti con mia figlia non ci devo venire! Metterei le mani addosso a tutti!".

Torno a casa e sul mio gruppo di Facebook preferito incappo in una conversazione che, partendo dalla bagarre creata dal programma SOS Tata, affronta la preparazione pedagogica dei pediatri.
Come buttare benzina sul fuoco!
Mi butto nella conversazione con un commento quasi al fulmicotone "...Se non ho messo le mani addosso a quel medico è solo perché sono educato e avevo davanti mia figlia...".
Ma poi, meno padre e più educatore, aggiungo la mia idea sulla situazione. L'importanza dell'antropologia medica come punto di partenza per la formazione dei medici; l'evoluzione della scienza medica che - da disciplina che considerava il paziente come un tutt'uno tanto da utilizzare solo sanguisughe e purghe per curare il tutto - si è trasformata in disciplina clinica che ha completamente annullato il soggetto-paziente concentrandosi esclusivamente sull'organo malato e sulla possibile cura (anche a discapito di altri organi, a volte...); la necessità che si arrivi ad una medicina sistemica che metta al centro la persona e non la malattia, perché la salute non può solo essere assenza di malattia ma deve essere considerata uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale come già nel 1984 la definiva l'Organizzazione Mondiale della Sanità. E dunque "[la definizione di salute dell'OMS del 1984 è una] definizione che, pur bisognosa di chiarimenti e integrazioni, ha avuto il merito di liberare il problema salute dalla gabbia medico-specialistica in cui lo si era confinato e di aprirlo a considerazioni di più vasto respiro, che hanno a che fare con la psicologia, con la filosofia, con l'etica, con la pedagogia, con la vita concreta delle persone, a cominciare dalla famiglia" (Corradini L. Cattaneo P. - 1997 - Educazione alla salute, La Scuola, Brescia). 

Come posso allora coniugare l'esperienza ospedaliera nella quale la mia povera piccina si è dovuta confrontare con un medico che nemmeno sarebbe stato in grado di relazionarsi con un adulto e l'Associazione Culturale Pediatri che muove "guerra a quella che forse è la più popolare trasmissione dedicata ai bambini seguita dai genitori"?

A prescindere dalla mia personale opinione sulla trasmissione SOS Tata mi ritorna in mente il monito di un gruppo di educatori, pedagogisti e consulenti pedagogici che un paio di settimane fa si sono incontrate sulla sponda di un lago per ragionare, tra le altre cose, su come diffondere una cultura pedagogica non solo mirata alla marginalità e alla devianza, ma in ogni aspetto della vita quotidiana.

martedì 17 settembre 2013

Genitore1, Genitore2... GenitoreN

Uff... una nuova polemica che fa il giro del mondo.
Dalla Francia a Venezia e via per tutti i social (che ormai assomigliano sempre più a casse di risonanza che a veri e propri luoghi di condivisione e riflessione) rimbalzano le opinioni pro o contro l'abolizione dei termini madre e padre dai moduli di iscrizione ad asili e scuole (ovvero dai primi cancelli che i nostri figli attraversano per entrare in società e smettere di essere “solo” figli nostri) sostituendoli con genitore 1 e genitore 2.
Personalmente questi due termini mi fanno venire in mente le Bananas in Pyjamas, personaggi semi-divertenti anche noti come B1 e B2 che quelli che come me hanno un figlio mediamente piccolo avranno ben presente. Chi non li conosce... beh, sono due Banane (ovviamente abbigliate con un pigiama a righe) che vivono nel magico mondo di Cuddlestown tutte le loro avventure. Come noi genitori viviamo le nostre avventure nel mondo reale.


So che la questione andrebbe affrontata più seriamente che con un parallelo ai cartoni animati perché apre – come sempre – un mucchio di questioni più o meno politico-legali come il riconoscimento delle coppie di fatto, l'adozione da parte di coppie omosessuali, le sempieterne diatribe sulla potestà genitoriale, sulla monogenitorialità e sull'affido più o meno condiviso; ma a me piace semplificare e calare la questione su situazioni concrete. Così, giusto per capirci un qualcosa di più.
E quale modo più semplice per sciogliere una matassa così contorta che ribaltare la situazione e affrontarla come farebbero dei bambini chiedendosi cosa ne penserebbero i nostri figli? D'altra parte staremmo discutendo di come loro devono chiamare noi anche se non sanno (né gli tocca, per fortuna) compilare moduli, non conoscono il significato di “chi ne fa le veci” o di “potestà genitoriale”. I bimbi sono solo abituati a chiamare gli adulti che gli stanno intorno con... gli appellativi che sono stati educati ad utilizzare.
Eccolo il vero nodo della questione, secondo me. A prescindere dall'essere riconosciuto come G1 o G2 sulla modulistica di iscrizione a qualsivoglia gruppo sociale, è come un adulto si pone nei confronti del cucciolo di cui è responsabile ad essere prioritario.

Ci sono genitori naturali che gettano i propri figli nei cassonetti (e nemmeno nella raccolta differenziata), conosco genitori adottivi che amano la loro prole giuridica più di coloro che li hanno messi la mondo (e abbandonati), ho incontrato mono-padri e mono-madri che si sobbarcano il doppio ruolo con il triplo della fatica per evitare ai propri figli di subire la mancanza dell'altra metà della mela che [per un motivo o per l'altro] non c'è, mi confronto con famiglie allargate che si adoperano per fare del loro meglio nell'educazione dei figli, ho lavorato con educatori professionali che – in strutture di accoglienza per minori – si relazionano con “minori non accompagnati” con un ruolo educativo-affettivo importante nel processo di crescita di quei ragazzi lasciati soli dalla vita o peggio buttati in un mondo che nemmeno conoscono.
Tutto nell'interesse del minore.

Cosa direbbero questi bambini-ragazzi in merito alla questione di G1 e G2?
Se chiedessi a mia figlia “Chi sono io per te?” sono certo che mi abbraccerebbe forte forte e mi risponderebbe “Sei il mio Tati”.
E poi magari tornerebbe a guardare B1 e B2 ignara di quanto la società attuale sia rappresentata in quel cartone animato.


lunedì 2 settembre 2013

Apologia della maternità distorta?

- Papà, perché questa sera non vieni a dormire a casa? - 
- Devo lavorare Principessa, lo sai che devo fare la notte! - 
- Ma perché non puoi venire a dormire qui con me? - 
- E chi li sveglia domani mattina i miei ragazzi? Chi li manda a lavorare o a scuola? Lo sai che che se non li butto giù io dal letto non si alzano. - 
- Li butti giù dal letto? - 
- Certo, e a qualcuno faccio anche il solletico sotto i piedi. -
- E loro ridono, papino? - 
- Certo. - 
- Ma domani arrivi a casa? - 
- Certo amore e domani sera ti darò il bacio della buona notte. Questa sera te lo dà mamma! -
- Ma io voglio anche il tuo... - 
- Domani amore, domani te ne do due. Uno anche per oggi. - 
- Buona notte papino. -
- Buona notte Principessa. - 
Immagine di Pascal Campion - tratta da http://pascalcampion.com/

Oggi leggevo un articolo da un blog che titolava "Di mamme ce n'è una sola..." e mi è tornata alla mente la conversazione telefonica che ho appena descritto. 
Il medesimo copione che si ripeteva ogni volta che telefonavo, dal turno di notte nella comunità per minori in cui lavoravo, per dare la buona notte alla mia piccola.
Una buona notte telefonica che non riusciva a sostituire quelle reale.
Uno dei motivi (forse il principale) che mi hanno indotto a lasciare un lavoro che amavo e che svolgevo da diciotto anni era proprio la sofferenza che provavo ascoltando quelle parole al telefono. 
Due volte a settimana. Otto volte al mese.
Tanti erano i turni notturni che mi toccavano, e altrettante erano le occasioni in cui sentivo la mia piccolina che mi diceva quelle frasi.
Me la immaginavo accoccolata sul divano con la sua adorata mamma, a lei abbracciata e mezza addormentata dopo la lunga giornata trascorsa.
Ma non potevo abbracciarla io. Non potevo darle il bacio della buona notte. 
E lei di questo soffriva.

Poi oggi mi imbatto in questo articolo, postato su un gruppo di padri separati su Facebook. 
Come gettare benzina sul fuoco.
Ma non sono i commenti di quei padri a colpirmi, perché altro non sono che le urla di dolore di esseri umani feriti (a torto o a ragione) dalla mancanza di qualcosa.
Sono le parole della scienziata a scazzottare la mia pancia e a scaturire in me alcune riflessioni di stampo pedagogico.


"Una gatta, una leonessa, una tigre, una cavalla reagiscono con violenza inaudita di fronte a chi porta via loro un cucciolo, fino a morire! E questo è programmato nei comportamenti innati insiti nel nostro DNA, probabilmente tramandato da migliaia di anni di evoluzione ed è comportamento comune a tutti i mammiferi.
Tale comportamento di difesa della prole è fondamentale visto che serve alla conservazione della specie. Né il gatto, né il cavallo, né il leone, né il maschio della tigre hanno un analogo comportamento. Il cervello di una donna, all’atto del parto, subisce, per opera della cascata di ormoni, cambiamenti anatomici e funzionali che ne alterano il comportamento verso lo sviluppo di un atteggiamento di difesa e di accudimento della prole."

Il parallelo con il mondo animale mi colpisce. 
Il cambiamento anatomico e funzionale del cervello della donna a seguito del parto mi incuriosisce. Davvero ci sono una serie di cascate di ormoni che "trasformano" una donna in una mamma?
Scientificamente sono ignorante e quindi, come ogni buon ignorante di terza generazione può fare, mi butto in rete e provo a googolare diverse frasi chiave.
Non emerge nulla di scientifico che confermi (e che nemmeno disconfermi, ad onor del vero) quanto dichiarato dalla dottoressa.
Un mucchio di articoli sulle mestruazioni, sulla depressione post-parto, sui cambiamenti fisici delle donne... ma nulla a livello cerebrale.
Ripeto: scientificamente sono un ignorante e quindi proseguo nella lettura e nella ricerca.

"Quando nasce un bambino nasce una mamma! E mamma resterà per sempre, anche se il figlio muore."

Ecco la successiva frase con cui il mio igno-cerebro si scontra.
Se me l'avessero proposta a vent'anni avrei giurato (sputo per terra e croce sul cuore) che si trattava di un assioma perché "Una mamma è per sempre".
Ma i vent'anni passano in fretta. E nel mio caso ancora di più perché - arrivati i ventuno - ho cominciato a lavorare in una comunità per minori allontanati dalla famiglia e mi sono scontrato con un'immagine di "madre" differente da quella a cui ero abituato.
Madri che uscivano di senno e si [pre]occupavano più di sé che dei propri figli; donne che utilizzavano la gravidanza come arma di ricatto per tenere legati a sé uomini che non trovavano altro motivo (e spesso nemmeno quello) per rimanere con le proprie compagne; coppie composte da tardo-adolescenti che per superare il trauma di non essere stati "figli" cercavano di diventare "genitori" nella speranza di un riscatto... Maternità e Paternità "patologiche" che producevano "carne da comunità"... Ed io ero uno di quelli che...

"Non c’è matrigna al mondo che possa far da madre, non c’è suora, educatrice, puericultrice, non c’è padre che possa sostituire la madre. I bambini devono stare con la loro famiglia, se la famiglia è disunita i bambini devono stare con la madre. Ed i padri devono aiutare la mamme a fare le mamme, perché la mamma non è sostituibile."

... si occupava della cura e dell'igiene personale; 
abbracciava e consolava quando la nostalgia diventava troppa; 
seguiva nei compiti, parlava con i professori e le maestre, si ricordava il grembiule ogni mattina; 
si occupava di fare i letti, di controllare che gli abiti fossero puliti e di preparare i cambi di stagione; 
cucinava con/per i ragazzi che erano ospiti in struttura; 
aspettava i "genitori naturali" insieme ai ragazzi pronto ad ammorbidire ogni bordata emotiva che [inevitabilmente] arrivava; 
si arrabbiava, sgridava, urlava e impartiva punizioni quando le regole non erano rispettate; 
accompagnava al mare verificando che costumi, secchielli e palette fossero sufficienti per tutti; 
consolava per i primi amori non corrisposti; 
rideva per barzellette sentite miliardi di volte;
andava a dormire solo dopo che tutto era davvero a posto, per quel giorno e per quello successivo...
Ma non ero madre, suora, puericultrice... Ero un semplice Educatore, ancora nemmeno padre a quell'età...

Eppure avevo a che fare con i Tribunali, quelli "veri" che [allora e ancora] si occupano di prendere le decisioni relativamente ai minori.
Non posso affermare che TUTTI i giudici e TUTTE le assistenti sociali fossero adeguati al ruolo che ricoprivano: come in ogni ambito sociale c'è chi sa fare, chi vorrebbe fare, chi preferisce non fare e chi farebbe se... Ma ho incontrato Giudici e Assistenti Sociali che le iniziali maiuscole. Che sapevano cosa fare, cosa dire, cosa non fare e cosa non dire...
In nome e per conto dei minori che rappresentavano...

Ma la dottoressa oggi mi ha fatto riflettere nuovamente su queste realtà, perché quando si parla di minori non si scherza, non si deve sbagliare, bisogna riferirsi a verità incontrovertibili, occorre costantemente farsi delle domande...
D'altra parte... la scienza è scienza!

"Questo dovrebbe essere insegnato nei Tribunali ai giuristi da consulenti “veri”, che conoscono, veramente, la scienza e la biologia. Tutto diventerebbe più facile se la scienza, quella vera, non le fandonie, fosse contrapposta i pregiudizi medioevali.
I figli si levano ai genitori, ed in particolare alla madre, SOLO se si teme per la loro sopravvivenza in vita o per grave abuso, ed anche in questo caso…non è il bambino che lascia la famiglia se con questa ha un rapporto di tenerezza, amore, dipendenza, cure, ma è il Sociale e la Giustizia che “entrano” dentro la famiglia vi si installano e difendono il bambino fino a quando non si abbiano le prove inequivocabili di una impossibilità al recupero di un rapporto di tutela da parte della famiglia di origine."

Condivisibile questa affermazione, soprattutto da uno [Io] che quotidianamente entra nelle case altrui cercando di supportare, sostenere, indirizzare, aiutare, veicolare... le famiglie nel loro compito primario di cura e di educazione dei giovani virgulti.
Con tutte le difficoltà del caso...
Ma la Scienza (quella "vera") non è discutibile. Ed ogni ragionamento pedagogico nulla può in confronto alle verità scientifiche assolute. Quelle che sette anni fa mi hanno magicamente "trasformato" in un padre. Biologico. Quindi "scientificamente vero".

Ma...

"Il padre si può fare anche da lontano, come dimostrano migliaia di anni di storia, la mamma no! Un padre che leva la mamma al suo bambino non è un bravo padre, un padre che combatte per la custodia esclusiva non è un bravo padre. Un padre che così possa esser chiamato, non leva la mamma al suo bambino!"

Io al telefono non riuscivo a fare il padre al 100%. Cercavo di fare del mio meglio, ma proprio non ce la facevo.
Ho fallito?
Sono un pessimo padre?
Sono un pessimo educatore?

La scienza (secondo la dottoressa Maria Serenella Pignotti) mi darà torto.
Ma schiere di minori inseriti in comunità forse potrebbero dire il contrario.
E quando mia figlia si sveglia alla mattina e pretende il "bacio in tre" da sua madre e da suo padre dà una prova scientifica dell'importanza [per entrambi i ruoli] della presenza fisica.

D'altra parte Darwin non parlava di "evoluzione della specie"?
Io non lo so. 
Sono scientificamente ignorante.

Magari la dottoressa ha qualcosa di scientifico da dire...