domenica 30 settembre 2012

Storie... mi raccontate le vostre?

"...
Alessandro chiese ad Ahmed se fosse partito dalla Libia.
- Si -
- E quanto è durato il viaggio? -
- Quattro giorni -
- In quaranta su un gommone per quattro giorni?? -
- Quattro giorni e quattro notti. Con il mare in tempesta. Avevo con me solo una bottiglietta di mezzo litro d'acqua. E il passaporto nascosto nelle mutande, rinchiuso in un sacchetto di plastica perché non si bagnasse. Vicino a me un uomo vomitava, altri piangevano, una donna incinta ha perso i sensi. Un ragazzo è caduto in mare. Era buio e nessuno ha allungato il braccio per riportarlo sul gommone. -
- Tu cosa hai fatto per tutto quel tempo? -
- Ho continuato solo a sperare di non morire. Ti giuro che ho avuto paura di morire. Ero quasi sicuro di morire. Quando sono arrivato a riva, in Italia, ho baciato la terra. Non riuscivo più a rialzarmi. Non ero felice di esere arrivato in Italia. Ho solo pensato 'Non sono morto!'. -
-In quanti siete arrivati in Italia? -
- Credo diciassette. Credo -
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quella sera Alessandro non ripensò ai ventitre che non ce l'avevano fatta, ai due mesi di carcere che Ahmed aveva passato in Libia perché non aveva il permesso di soggiorno, alle successive difficoltà che aveva affrontato per il viaggio da Lampedusa a Milano o a ciò che aveva lasciato a casa.
Riuscì a pensare soltanto al ragazzo caduto in mare, e alla disperazione di quelli che gli stavano intorno che non erano nemmeno riusciti a muoversi per aiutarlo.
Un viaggio della speranza si era trasformato in un viaggio della morte.
 
- Robert, a quanti anni sei partito dall'Afghanistan? -
- A undici circa, nel nostro paese non sappiamo certamente quanti anni abbiamo. Non esiste un ufficio anagrafe -
- E sei arrivato a sedici... è durato tanto il tuo viaggio per l'Italia! -
- Non sapevo che sarei arrivato in Italia. Sono partito dal mio paese perché là c'è la guerra e non sai se il giorno dopo ti sveglierai oppure no. Non sapevo dove sarei arrivato. Sono stato due anni in Iran, un po' in Pakistan, due anni in Turchia e un anno in Grecia. In ogni paese cercavo lavoro e cercavo di guadagnare soldi. Poi quando mi sentivo in pericolo partivo. -
- Ti piace l'Italia? -
- Non lo so. Non la conosco abbastanza ma qui, per la prima volta nella mia vita, non ho paura. Per la prima volta nella mia vita vado a dormire sereno, spengo la luce e sono certo che domani mattina ti troverò sveglio e berrai il caffé con me. -
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: qualche volta andare a dormire aspettando con gioia il caffé del giorno successivo permette bei sogni, o almeno nessun brutto sogno, a tutti.
..."
"80 km, 2 caselli autostradali, 75 minuti di auto"
A. Curti

 
Quante volte ho sentito storie come queste, simili o anche totalmente diverse. Ma sempre storie vere, di vita vissuta, che descrivevano esperienze che io nemmeno riuscivo ad immaginare o che solo lontanamente conoscevo dai telegiornali o dai libri ma non potevo capire cosa significassero per i singoli individui.
E dopo averle ascoltate, il mio ruolo educativo mi imponeva di affrontarle, capirle, digerirle e offrire una risposta.
Di qualsiasi tipo: a volte la risposta richiesta era solo l'ascolto, altre volte un commento, talvolta un rispecchiamento o una nuova domanda. Sempre però la vicinanza emotiva. Perché quando qualcuno decide di raccontarti una storia così ti sta offrendo un pezzo di sé e questa scelta si accompagna sempre ad un'aspettativa e ad un pizzico di paura.
Offrire qualcosa di sé è sempre "pericoloso" perché ci mette in una posizione di svantaggio: apriamo una porta di noi stessi ma non sappiamo bene che uso ne farà l'altro, come la userà.
E per un educatore un racconto come questo è sempre un'occasione di relazione, che va colta, mai lasciata correre. Carpe diem, cogli l'attimo.
In tanti modi ho affrontato professionalmente queste storie, ma sempre con l'obiettivo di offrire la possibilità di attraversare l'esperienza, utilizzando un dispositivo che permettesse al narratore di rivedere la propria storia da un punto di vista differente - sempre soggettivo - e poterla ricollocare, donarle un nuovo significato o ricercarne nuove possibilità di lettura.
Ma c'è sempre anche il lato umano di ognuno di noi: ascoltando queste storie non possiamo (o almeno, io non posso!) fare a meno di provare delle emozioni, di entusiasmarmi o spaventarmi davanti agli eventi narrati, di soffrire, di ridere, di piangere o di provare rabbia.
Queste emozioni devono però, professionalmente, essere ben collocate sia nella relazione con l'altro che dentro noi stessi.
Per farne tesoro e accrescere il nostro bagaglio di esperienze da riutilizzare nelle future situazioni.
 
Proprio per questo io sono sempre affamato di storie.
In questo blog vi racconto le mie, cerco di utilizzarle per trovare nuove strade o conoscenze per svolgere al meglio il mio lavoro di educatore "del terzo tipo".
Attraverso i commenti dei lettori rifletto, rimugino, rielaboro...
Vorrei però sentire nuove storie, uscire dalle mie esperienze per entrare in altre a me sconosciute.
Mi raccontate le vostre storie professionali?
Così come le racconto io: leggermente contestualizzate, nel rispetto della privacy e leggermente rielaborate.
Se qualcuno avesse voglia di mandarmele via mail io le leggerei volentieri, e qualcuna (con il vostro permesso) la pubblicherei su questo blog, perché possano diventare patrimonio di tutti i lettori e nuova fonte di riflessione.
RicordandoMi e ricordandoVi che mi state donando un pezzo di voi, con le relative aspettative e paure che accompagnano questo percorso.
 
La mia mail la trovate nella pagina della biografia...


giovedì 27 settembre 2012

Carne da macello: la scuola oggi.

Scuola media, prima ora, matematica.
Entro nella classe dove normalmente seguo un ragazzino e trovo la nuova professoressa. Penso: finalmente l'hanno nominata.
La osservo mentre si relaziona con i ragazzi. Non appena gli studenti si concentrano su un esercizio di ripasso che hanno avuto scambio due parole con lei: le hanno telefonato il giorno precedente (alle ore 12) per dirle di presentarsi questa mattina. La richiesta era di arrivare un attimo prima per poterle dare alcune indicazioni, ma lei lamenta che la scuola apre solo alle 7.30 e alle 7.55 deve essere in aula. Quindi il tempo che ha avuto per "capirci qualcosa" è stato troppo poco.
Fortunatamente, aggiunge, la prossima ora sarà buca, così forse riuscirà a raccapezzarsi.
Entra la bidella: per la prossima ora le affibbiano una supplenza. Saltata l'ultima possibilità di uscire dal labirinto di novità che nessuno le ha spiegato.
Classi nuove, studenti sconosciuti, procedure mai spiegate prima... un dedalo da cui risulta difficile districarsi.
L'unica via d'uscita che trova è di rifugiarsi nella materia che insegna, nella spiegazione delle frazioni lasciando perdere la possibilità di capire chi ha davanti, di conoscere i ragazzi a cui deve insegnare, anche solo di imparare i loro nomi. In 55 minuti deve gestire un gruppo di 20 preadolescenti mantenendo la disciplina e ottimizzando i tempi.
Figuriamoci se qualcuno si è degnato di comunicarle che in quella classe c'è un soggetto multiproblematico, che ha un insegnante di sostegno e un educatore dedicati a lui, che va gestito in un certo modo, che influenza l'andamento e gli umori della classe...
Gli educatori sono però abituati a gestire i momenti di crisi: mi preoccupo allora di fornirle le indicazioni che ho, di raccontarle i ragazzi che ha davanti, i loro caratteri, i loro punti di forza, le debolezze. Ed accenno brevemente anche al ragazzino che seguo, riassumendo in pochi minuti il lavoro di un intero anno.
So che la sto investendo di una montagna di informazioni che difficilmente riuscirà ad immagazzinare, ma cerco di essere il più utile possibile perché possa inserirsi almeno in quella classe con delle informazioni che le permettano di annaspare un po' meno nella tempesta del suo lavoro.
Non sarebbe mio compito, ma se nessun altro ci si dedica lo faccio io.
Questa professoressa mi sembra "carne da macello" buttata nella fossa dei leoni senza armi a sua disposizione.
Ecco perché si rifugia nell'unica cosa che ha: la matematica.
Così funziona la scuola: ogni anno le nomine vengono effettuate in ritardo, i professori vengono "buttati" a destra e a manca senza nessun ritegno (e senza nessuna logica, mi viene da aggiungere).
E poi ci si lamenta (io per primo) che la scuola abdica al suo ruolo di agenzia educativa, che la pedagogia non viene minimamente considerata, che i contenuti e le discipline sono l'unico interesse dei docenti.
Oggi però ho capito perché i professori pensano solo ad insegnare: è l'unico strumento a disposizione.
Sono carne da macello!

martedì 25 settembre 2012

"Papà, come faccio a calmarmi?"

Una bimba di sei anni gioca nella sua cameretta con il cuginetto di otto. Lui fa un po' il prepotente, lei rivendica la "proprietà esclusiva" dei suoi giochi, lui risponde a tono, lei gli lancia un gioco e lo colpisce, lui scoppia a piangere... Insomma: scene quotidiane di chi ha bambini. Nulla di nuovo.
Come non è straordinaria la sgridata da parte di mamma subito dopo e la conseguente arrabbiatura della bimba per "reato di lesa maestà".
Il papà torna a casa e trova mamma, zio e cugini che chiacchierano in sala mentre la sua bimba è in cameretta tutta sola che gioca nervosamente con il corpo del reato.
All'arrivo del suo papi la piccola scoppia in lacrime e comincia a raccontare l'accaduto (naturalmente dal suo punto di vista) inframezzandolo con immagini di altri avvenimenti della giornata e dei giorni scorsi: "Lui non può decidere dei miei giochi... E poi mi ha bagnato tutta la coperta con le sue lacrime. A te piacerebbe se ti bagnassero il letto di lacrime? E poi ha pianto un'ora. Io quando mi faccio male piango un poco ma poi smetto... E poi a scuola oggi la mia compagna mi ha fatto cadere e ho picchiato il ginocchio dove mi ero già fatta male. Sono caduta come te quando sei caduto nel bagno della nonna. Solo che io non ho picchiato la testa... E con mio cugino non ci gioco più, non lo guardo più in faccia. E neanche la mamma la guardo più, mai più...".
Il papà le dice di calmarsi e lei risponde:" Ma papà, come faccio a calmarmi?".
Bella domanda piccina mia.
Come si insegna ai bambini a gestire le emozioni? Come si fa a spiegare loro che quello che ci sconquassa lo stomaco può trovare una sua collocazione? Come farle capire che l'emotività deve andare di pari passo con la razionalità?
Soprattutto: come possiamo spiegare una cosa che anche noi adulti fatichiamo a comprendere fino in fondo?
Rabbia, paura, ansia, gioia incontenibile, ira... Sono emozioni che proviamo tutti i giorni e che tentiamo di razionalizzare. Ma non sempre ci riusciamo.
"Come faccio a calmarmi?" è una domanda da un milione di dollari, perché se ne fosse stata capace lo avrebbe già fatto prima dell'arrivo del suo papà. Ed è quindi anche una richiesta d'aiuto, un quesito che può anche spiazzare.
Le parole, l'esempio, un tono di voce dolce, un abbraccio, il contenimento affettivo, dei tentativi di spiegazione, di dare un nome alle cose, di ridimensionarle con esempi comprensibili. Queste le strategie usate dal papà. Corrette? Non lo so. Pedagogicamente pensate? In parte.
Sta di fatto che la magia si è compiuta visto che la bambina si è calmata, è tornata a sorridere, ha "perdonato" la sua mamma e le ha dato un bacio.
Ma in fondo, nel tentativo di gestire le incomprensibili emozioni, questo papà è stato aiutato da una cosa ancora più incomprensibile, meno razionale.
L'amore.
"Era difficile ricordo bene.
Ma era fantastico provarci insieme."
V. Rossi - Stupendo

lunedì 24 settembre 2012

Deserto istituzionale: dove sono i servizi?

Un educatore segue il percorso scolastico di un minore multiproblematico per un anno. Successivamente, per motivazioni personali, non riesce più a farlo e si prodiga per cercare un collega che lo sostituisca.
Leggo l'annuncio e lo contatto. Si rende subito disponibile a spiegare a grandi linee la situazione e mi fornisce il numero di telefono della famiglia (che gestiva in passato i rapporti con l'educatore) e della scuola. Naturalmente contatto entrambi: la famiglia non sa nulla e ad ogni mia domanda rimanda all'educatore, la scuola risponde che "non hanno ancora preso in carico la situazione per effettuare un'adeguata progettazione dell'intervento".
Richiamo l'educatore che mi propone un incontro in cui spiegarmi tutto ciò che sa.
Quando ci vediamo mi racconta di una situazione molto difficile nella quale si è trovato: il ragazzo ha un disturbo di tipo borderline oppositivo provocatorio aggravato da un ritardo mentale grave; la famiglia è disfunzionale, hanno problemi di tipo penale-amministrativo e di gestione del figlio; la scuola ha sempre offerto poca collaborazione all'educatore durante lo scorso anno scolastico.
"I servizi sociali?" chiedo io. Mai visti né sentiti, non si occupano della situazione. O almeno l'educatore non è a conoscenza. C'è solo una psicologa di un consultorio che da anni segue la famiglia e che cerca di tenere le fila del progetto. Ma i consultori - si sa - non hanno mai molte risorse a loro disposizione.
Il collega è prodigo di informazioni, mi racconta tutte le difficoltà che ha incontrato lo scorso anno (la maggior parte delle quali non derivanti dalla gestione diretta del ragazzo, per quanto questa fosse già complicata di suo), il lavoro che ha impostato, gli obiettivi che ha raggiunto e quelli che avrebbe voluto ma non ce l'ha fatta... Insomma mi propone un quadro globale di quanto è riuscito a fare.
Ma risulta assolutamente evidente fin da subito che questo educatore si è trovato solo a gestire una situazione complessa: una scuola che ha come unico interesse quello di non avere problemi di gestione, una famiglia che riesce a malapena a gestire la quotidianità, una rete di servizi assente o latitante.
"Come sei riuscito a lavorare in queste condizioni?" gli domando... La risposta non arriva diretta ma tra le righe: è andato avanti con le sue sole risorse nell'interesse del ragazzo, cercando di dare il massimo senza avere però nessun supporto dalle altre agenzie che avrebbero (il condizionale è d'obbligo) dovuto sostenerlo.
Sembra apprezzare il mio interessamento, le mie continue richieste di approfondimento... e sembra provare sollievo nel vedere che io rappresento una cooperativa e che quindi l'educatore (chiunque esso sia) che si farà carico di questo bailamme non sarà solo (come si è sentito lui) e avrà le spalle coperte (come lui non le ha avute).
Io resto basito dal suo racconto: non tanto dalla situazione complicata (non è la prima volta che affronto storie multiproblematiche come questa) quanto dal deserto istituzionale che la circonda.
Alla fine del nostro incontro lo ringrazio: per la sua disponibilità, perché ha voluto chiudere con professionalità il suo lavoro, per aver deciso che il prossimo educatore non dovrà ripartire da zero.
Ma in tutto questo ho sempre una domanda che mi martella la testa: dove sono i servizi?
Non lo so, ma so che li andrò a cercare.

domenica 23 settembre 2012

Apprendimento e sopravvivenza

 
"Se vuoi sopravvivere impari per forza"
Questa frase è uscita qualche giorno fa in una chiacchierata in cui si parlava di trasferimenti in paesi stranieri, con la difficoltà di imparare la nuova lingua, gli usi, le abitudini, i costumi... e con l'inevitabile stanchezza e lo sconforto che accompagnano questo processo.
La "sopravvivenza del migrante" è una caratteristica inevitabile: o ti adegui o soccombi. E porta con se tutte le diatribe sull'integrazione, sull'accoglienza, sulla multiculturalità e l'interculturalità, sul mantenimento delle proprie radici come principio di identificazione.
Ma nella mia testa mi sono trovato a traslare questa frase nel concetto di sopravvivenza letto in generale, non solo contestualizzata alla migrazione.
Posto che il processo di apprendimento e di adattamento sono inevitabili per l'essere umano, la grande difficoltà che trovo è su "come" o "cosa" si apprende.
Nella mia esperienza professionale ho incontrato ragazze che per sopravvivere hanno dovuto imparare a sottostare alle violenze dei loro aguzzini e piegarsi alla prostituzione; ragazzini che per sopravvivere ai loro nuclei familiari disfunzionali hanno dovuto imparare a rinchiudersi in un mondo ideale e fantastico dimenticando cosa sia la realtà; adolescenti che per sopravvivere ad un mondo che non conoscevano realmente (perché gli era stato presentato solo dalla televisione e dalla pubblicità) hanno dovuto imparare a mimetizzarsi nel contesto urbano, apprendere l'arte del fregare le persone, conoscere i meccanismi della malavita; bambini che per sopravvivere al loro senso di inferiorità hanno imparato a trasformarsi in bulli o in piccoli tiranni; padri che per sopravvivere a chi voleva depauperarli di questo ruolo hanno dovuto imparare a difendersi anche con armi non sempre "convenzionali" ed accettabili.
Anche questo è apprendimento, ed è un processo forzato, per sopravvivere.
Ma è sano?
Dipende: per quei soggetti che hanno dovuto "imparare l'arte dell'arrangiarsi" era certamente l'unica via, la sola strada che gli permetteva di non soccombere ad un qualcosa di più grande di loro, che altrimenti li avrebbe schiacciati. Ma per il loro inserimento in una società civile, per la loro persona e per chi gli stava intorno non credo proprio.
Il "come" e il "cosa" quindi devono essere veicolati. Ma da chi? Da figure educative che abbiano il ruolo e il compito di proporre diverse alternative, di mostrare quali possano essere le conseguenze di alcune scelte, di rappresentare - con il proprio comportamento ed esempio - come si possono affrontare le difficoltà.
Ma la catena, si sa, è sempre dura da spezzare.
Occorre quindi che queste figure (professionali o non che siano, poco importa in un processo di apprendimento) abbiano a loro volta gli strumenti per insegnare, abbiano percorso loro stessi un apprendimento che li ha portati a risultati individuali ma riconoscibili, condivisibili, accettabili.
Perché tutti gli "studenti" di cui parlavo poco fa hanno avuto degli insegnanti, dei modelli da guardare ed imitare... le ragazze dedite alla prostituzione sono state istruite da donne che (prima di loro) avevano subito lo stesso trattamento, i ragazzini che rifuggono dalla realtà hanno avuto ottimi docenti che avevano percorso il medesimo tratto di strada, i piccoli malavitosi hanno guardato ed imitato modelli (fratelli, cugini, amici) che - sulla loro pelle - avevano provato nuove strategie di sopravvivenza, i bulli e i tiranni - prima di diventare tali - ha subito il dolore e la paura ed hanno reagito, i padri hanno avuto a loro volta dei padri...
Qualcuno anni fa cantava
tutti i bambini fanno “oh”
dammi la mano
perchè mi lasci solo,
sai che da soli non si può,
senza qualcuno,
nessuno
può diventare un uomo
parafrasando l'importanza delle figure educative di riferimento. E naturalmente esprimeva un concetto sacrosanto, vitale.
Il concetto "se vuoi sopravvivere impari per forza" deve trovare nuove strade per esprimersi, deve trasformarsi in "se vuoi sopravvivere devi imparare per forza, ed io sono disposto ad insegnarti".
Ma io condivido l'affermazione di una docente universitaria che sostiene che "il problema della pedagogia è quello di non avere una sua identità intrinseca e quindi di essere ancella della psicologia, della filosofia e della sociologia, ecc." e mi ritrovo quindi a dover mettere anche la pedagogia all'interno di questo processo di apprendimento: perché anche la pedagogia deve trovare una sua identità, percorre nuove strade e cercare nuovi strumenti.
La pedagogia non deve semplicemente sopravvivere (così come non deve fare l'essere umano) riducendosi ad un ruolo da comprimaria delle altre discipline ma deve vivere ed essere vitale proprio per sostenere ed aiutare tutti coloro che - nel loro processo di apprendimento - devono trovare gli strumenti per sopravvivere.
O per vivere.
 
 

giovedì 20 settembre 2012

La trottola, ovvero una giornata come le altre

Ecco la mia giornata di oggi: dalle 8 alle 11.40 intervento educativo individuale in una scuola con un ragazzino borderline, dalle 12 alle 13.15 équipe con tutela minori e servizio sociale per concordare un inserimento in comunità di una mamma e della sua bimba, dalle 13.30 alle 16.30 intervento domiciliare con il mio ragazzetto discalculico e disortografico, dalle 17 alle 19 altro intervento domiciliare con i due gemellini e la loro mamma con una seria patologia psichiatrica e una disabilità fisica.
Ho guardato la Cappella Sistina su internet durante la lezione di informatica e ascoltato mille descrizioni della propria famiglia in inglese, chiacchierato di immagine e di aggressività di un padre, ragionato sulle modalità migliori per allontanare un minore con meno traumi possibili, studiato il Congresso di Vienna e dipinto un dondolo, giocato a pallone e a nascondino. E intanto ho osservato, rispecchiato atteggiamenti, proposto riflessioni, condiviso il fare, alleviato difficoltà, riso, ascoltato, mi sono arrabbiato...
Il tempo per mangiare? Un lusso.
Già perché nelle pause ci sta giusto il tempo per il traferimento da un luogo all'altro (ovvio: mica tutto è nello stesso paese!), una telefonata veloce alla moglie (un attimo di sanità mentale non si nega a nessuno) e la possibilità di chiudere il cassetto precedente per aprire quello nuovo. Riordinare le idee, rammentare a che punto di processo sono sul caso che sto andando ad affrontare e ricordare qual é l'obiettivo di oggi.
Tante attività diverse, molteplici storie e  problematiche nella stessa giornata: sembra una frammentarietà eccessiva, ma il mio lavoro mi piace così, diversificato. Perché la differenziazione mi aiuta a non ingrigirmi, a mantenere alta la concentrazione e il livello qualitativo dell'intervento, ad impedire che la routine quotidiana mi incancrenisca nel mio essere educatore, a sostenermi nella costante ricerca di nuovi strumenti e riflessioni pedagogiche.
Alcuni colleghi mi dicono che non riuscirebbero mai a passare tra così tante differenze nella stessa giornata, che per loro sarebbe dispersivo e improduttivo, che preferisono restare all'interno dello stesso servizio per più tempo.
Li rispetto per questo (anche io l'ho fatto per tanti anni) ma io mi conosco: ho bisogno di stimoli per mantenere il cervello attivo.
E finito tutto quanto vado a casa, mi faccio raccontare dalla mia piccola cos'ha fatto oggi a scuola, ceniamo e giochiamo un po' insieme o ci godiamo un cartone animato.
Una giornata stressante?
Forse, ma per me è una giornata come le altre.
E domani mattina si ricomincia.

mercoledì 19 settembre 2012

Quando si smette di essere l'educatore di qualcuno?

R. arriva in comunità a 17 anni e mezzo dopo qualche giorno di permanenza al centro di prima accoglienza del carcere minorile con una imputazione per spaccio. Il suo "compagno di merende" è invece agli arresti domiciliari e per R. questa è un'ingiustizia, una differenza di trattamento scorretta tanto più che si professa innocente perché "la roba" lui la custodiva soltanto per "dare una mano" al suo amico. La madre conferma in modo convinto la sua innocenza, tanto da giurarlo sulla sua stessa vita.
In comunità tocca a me, casualmente perché in turno, fare con lui il primo colloquio di accoglienza.
Reputo fondamentale il primo colloquio perché è come una sorta di imprinting, il fondamento su cui spesso si cementa una relazione educativa.
Mi pongo in una posizione acritica rispetto al suo presunto reato ma fermo sul contesto in cui sta entrando.
"Io sono Alessandro, non sono uno sbirro, non sono un giudice ma sono un educatore. Non mi interessa se hai commesso o no il reato. Non tocca a me giudicare. Il mio compito è occuparmi di te per il tempo - lungo o corto che sia, non lo deciderò io - che starai qui. Quindi mi interessa solo una cosa: che nel periodo che resterai con noi userai ogni singolo minuto per continuare a crescere: Sei grande: non voglio che tu perda tempo!".
R. cerca di professare anche a me la sua innocenza, ma io ribadisco il mio disinteresse.
Questo atteggiamento lo colpisce, perché da quando è iniziato il giro di giostra tutti lo hanno guardato con un occhio indagatore, per capire se sia colpevole o no.
Ma a me davvero non interessa. E questo lo spiazza.
La sua "strategia" successiva è strana: parla in nome e per conto di sua madre. Come se lui fosse la bocca e lei il cervello. E questo mi incuriosisce.
Nel corso della sua permanenza scelgo di assumere un atteggiamento intransigente: non gliene faccio passare una, anche se lo accolgo ogni volta che ne ha voglia. Lui - italiano in una comunità con la maggior parte di ospiti stranieri - cerca di porre la relazione sulla schermaglia verbale, tentando di costruire il rapporto ad un livello paritario. Ma non ce la fa. E non manco di sottolinearlo: a livello di capacità linguistica lo supero di gran lunga.
Lo spettro di sua madre è però sempre dietro alle nostre spalle: con le telefonate (lunghe, lunghissime per parlare con me - l'educatore di riferimento - e appoggiare, solo verbalmente, ogni mio intervento), con le visite (non ne salta mai una!), con i suoi doppi messaggi (perché agli educatori rimanda un'immagine di alleanza ma poi, al figlio, continua a passare comunicazioni screditanti nei nostri confronti).
R. va in panne. Da una parte è assolutamente evidente la sua fame di relazione, dall'altra non può tradire il mandato familiare.
So che sono "perdente" nel gioco di forza tra me e la sua famiglia. E questa mia consapevolezza diventa il mio punto di forza. Perché non mi metto mai in competizione con il suo sistema familiare, ma proseguo per la mia strada: ribadendo che voglio soltanto che lui cresca, che impari a decidere con la sua testa, che rivendichi la sua personalità, che non perda il tempo che passerà in comunità.
La dinamica relazonale è estenuante, sembra un elastico: ad ogni passo avanti inevitabilmente ne corrisponde uno (e spesso non solo uno!) indietro. Ma io non demordo. Perché davvero sono solo interessato a fornirgli nuovi strumenti, ad aiutarlo e sostenerlo nel suo processo di differenziazione e individuazione. Senza mai mettermi contro sua madre, il vero fulcro della sua vita. L'unica e sola dipendenza che abbia mai sperimentato, in una relazione che appare ancora come la metafora della simbiosi infantile.
Pian piano però uno spiraglio si apre: R. non ammette nè la sua colpevolezza nè la sua dipendenza dalla figura genitoriale ma comincia a ragionare per conto suo. Per ipotesi, certo, ma provando ad immaginare una sua autonomia di pensiero. L'aspetto "divertente" di questi goffi tentativi è che si esercita ad essere "autonomo nel pensiero" proprio con me, contrapponendosi a quanto gli rispecchio e a ciò che gli rimando. Non sono frustrato, perché la sua presunta "opposizione" mi appare per quello che è: un esercizio propedeutico. E sto al gioco. Assumo una posizione più rigida, scimmiottando le modalità comunicative della madre e lasciando a lui lo spazio per ribellarsi. A rischio di interrompere la relazione educativa perché, quand'anche succedesse, sarebbe comunque un obiettivo raggiunto: la verifica da parte sua che ridimensionare un rapporto di dipendenza così forte non lascia cadaveri sul campo di battaglia.
Sono consapevole che la lotta è impari: perché io sono cosciente di ciò che sto affrontando, per lui è tutto nuovo.
La strategia funziona.
R. rimane in comunità per un anno e quando è il momento di decidere dove trascorrere la messa alla prova torna a casa, riconoscendo che "in comunità potrei giocarmela meglio, ma non posso provocare questo dolore a mia mamma. Lei vuole solo che torni a casa perché mi vuole bene".
Non ha mai ammesso la sua colpevolezza, non ha mai riconosciuto la sua dipendenza dalla figura (ingombrante) di sua madre.
Ma a due anni dalla sua uscita dalla comunità il legame permane: mi telefona, mi scrive sms, chatta con me ogni volta che ci troviamo sui social network. E ogni volta non manca di rimandare quanto gli manchi la mia presenza, le "schermaglie dialettiche" che contraddistinguevano le nostre giornate insieme.
Dice che sono stato il "suo" educatore (unico e solo!) e qualche volta ammette che sono "ancora" il suo educatore.
Ma quando si smette di essere educatore di qualcuno?
 

martedì 18 settembre 2012

Pedagogia disponibile

Un gruppo di bambini di meno di tre anni che giocano insieme, le loro mamme e nonne che - mentre li sorvegliano - chiacchierano. E due "padroni di casa" che presidiano lo spazio.
Si tratta di un servizio educativo?
Si, perché i due padroni di casa sono due educatori e lo spazio è pedagogicamente pensato, il setting è studiato e costruito perché i bambini possano giocare, socializzare, ricevere stimoli adeguati alla loro età. Ma non è un servizio solo "per bambini": è un luogo di accoglienza anche per adulti che stanno compiendo un viaggio complesso come quello di educare i loro bambini.
Troppo spesso questo viaggio viene compiuto, nei primi anni di vita, in solitudine ed è difficile compierlo senza confronto e supporto per le naturali paure che possono sorgere.
Ed ecco perché nasce questo servizio educativo.
Con un pensiero, una filosofia educativa alle spalle che possa essere da sostegno alla genitorialità.
In questo spazio vengono mamme alle loro prime esperienze, nonne (e qualche volta nonni) investiti del difficilissimo compito di badare ai cuccioli per tutta la giornata mentre i genitori sono al lavoro, genitori che - nonostante abbiano più di un figlio - si accorgono che ogni volta è un viaggio diverso e sconosciuto, mamme straniere in terra straniera che cercano un modo per non sentirsi sole e che non vogliono che i loro bambini crescano con lo stesso senso di solitudine.
Gli educatori sono presenti, disponibili. Ma non impongono nulla, non fanno interventi se non sono richiesti.
Accade però che la naturale propensione dell'essere umano a socializzare, a fare gruppo, emerga.
E tutto si fa più semplice: raccontare che siamo preoccupati di quanto o quale cibo mangiano i nostri bambini; liberarci del "senso di colpa" perché - ogni tanto - siamo stanchi e sbuffiamo quando i nostri figli non si addormentano; sorridere insieme, calmierando l'ansia, dei loro ruzzoloni; non preoccuparci di dire che ogni tanto ci sentiamo soli e vorremmo che ci sta intorno ci dia una mano, raccolga un pezzo della nostra fatica quotidiana e la faccia sua; condividere una torta per festeggiare il compleanno...
Ed ecco che l'educatore entra in gioco: raccoglie questi stimoli e cerca di trasformarli in nuove risorse, in nuove possibilità di ragionamento, in nuovi tentativi di esperienze.
In questi luoghi educativi non si offrono ricette o soluzioni precostituite ma si attraversa l'esperienza, la si metabolizza, la si condividie e la si fa propria, si propongono occasioni, dialogo, supporto.
Un servizio educativo di questo tipo (un Tempo Famiglia) visto dall'esterno sembra solo un luogo in cui andare per far giocare i propri bambini. Ma non lo è, almeno non per chi lo frequenta, per chi ci lavora e per chi lo propone.
Per tutte queste persone è un luogo dove la pedagogia - anche se apparentemente silente - è presente e disponibile. Chi vuole la può cogliere, chi non vuole non è obbligato.
Ma chi rinuncia ad una mano tesa?
Fare l'educatore in un Tempo Famiglia è gratificante ed arricchente perché non si lavora con il disagio così come siamo abituati a viverlo noi professionisti. Si lavora con la quotidianità, con le difficoltà di ogni giorno che sono di tutti.
E proprio perché sono di tutti capita spesso che l'educatore, se è un educatore del "terzo tipo" come definito in qualche post fa (http://labirintipedagogici.blogspot.it/#!/2012/09/educatori-extraterrestri-o-fantagenitori.html), si trovi nella condizione di trovarsi nella posizione di discente perché impara - anche lui - qualcosa di nuovo sul processo educativo.
La pedagogia diventa circolare, di tutti e ognuno può prendersene il pezzo che gli serve.

lunedì 17 settembre 2012

Transumanza educativa

Leggo sempre con molto interesse le vicissitudini professionali dei miei colleghi sparsi per l'Italia dai social network che ospitano pagine per educatori.
Più leggo e più mi chiedo se vivo in un'isola felice.
Tralasciando tutte le varie questioni sulle equipollenze, sui riconoscimenti dei titoli e sugli albi professionali (argomenti sui quali ho già espresso più volte la mia opinione anche in modo secco) sempre più spesso leggo di educatori che non trovano lavoro, di regioni in cui la nostra figura professionale quasi non esiste, di persone che si sentono "fregate" dagli atenei che non dicono mai quanto sia difficile trovare lavoro.
Io vivo e lavoro in Lombardia: ho iniziato a lavorare nel 1993 e da allora non sono stato disoccupato nemmeno un giorno. Quando ho lasciato la "grande organizzazione" per mettermi in proprio mi sono certo assunto una buona dose di rischio (e con me mia moglie, visto che entrambi abbiamo lasciato l'Ente per cui lavoravamo con un contratto a tempo indeterminato) ma l'ho fatto con consapevolezza e seguendo un "rischio calcolato".
Da allora il lavoro non è mai mancato, anzi è talmente aumentato che ho dovuto coinvolgere altri educatori perché da solo non ce la facevo più. A volte ho messo annunci su siti specialistici perché ero in cerca di collaboratori. Arrivavano curricula da ogni parte del paese, anche per progetti di sei ore settimanali.
Persone disposte a traferirsi a migliaia di chilometri di distanza per un mini-intervento di due mattinate a settimana.
Allora pensavo fossero degli incoscienti, ora credo siano dei disperati.
Mi chiedo come mai ci siano queste enormi differenze nel nostro paese.
In alcune zone non ci sono servizi o agenzie educative? Le condizioni economiche sono così gravi? Oppure c'è un esercito di persone che lavorano e stanno in silenzio? È una questione di qualità degli operatori? O di quantità?
Mi piacerebbe saperlo: per capire se sono io fortunato (e ingenuo) oppure se i silenziosi hanno scelto di non far sentire la loro voce.
Di certo questa "transumanza educativa" è preoccupante. Non solo per i lavoratori ma per coloro che degli educatori hanno bisogno.

sabato 15 settembre 2012

Dalla coppia affettiva al triangolo familiare: dove sono i papà?

"Un uomo che decide di avere un figlio va incontro ad una fase del proprio ciclo di vita che ha un enorme potenziale di trasformazione. Diventare genitori comporta, infatti, una definitiva trasformazione dell'identità: insieme al proprio bambino un uomo vede nascere un "nuovo sé stesso". (...) Occorre che si impari a considerare la "paternità" un vero e proprio capitale sociale al quale la società del terzo millennio non solo non può rinunciare, ma dal quale intende partire per garantire alle future generazioni un'esistenza res forte dalla presenza armoniosa e cooperativa di due genitori consapevoli dei propri limiti e dei propri punti di forza, detentori di una competenza parentale in grado di regalare ad ogni figlio radici solice con cui "attaccarsi" alla vita e un paio d'ali con cui "esplorare" il mondo alla ricerca della realizzazione di sé"
A. Pellai "Dei padri non si sa niente. Le emozioni nascoste dei neopapà"
Psicologia Contemporanea n. 207 - mag.-giu. 2008
 
Venerdi sera ore 20.30.
Riunione dell'équipe educativa del Micronido con i genitori per la presentazione della programmazione didattico-educativa del nuovo anno scolastico.
Su 10 padri solo 4 presenti, sui 4 presenti solo uno senza la presenza della sua compagna.
Già questo un dato significativo.
Parlano gli operatori e poi lasciano spazio ai genitori per domande, dubbi, comuncazioni... Quasi tutte le mamme parlano, nessun papà apre bocca.
Perché?
E si che l'équipe educativa non è esclusivamente al femminile: c'è un operatore uomo che rappresenta la categoria di chi educa al maschile che potrebbe mettere a proprio agio i papà, porsi come facilitatore della comunicazione.
Ma non basta. Nessuno parla.
Come mai questa assenza (fisica o verbale) nel contesto in cui si parla dell'educazione dei loro figli? Perché - come troppo spesso accade - il ruolo dell'educazione al maschile non emerge?
I papà erano semplicemente intimiditi dal contesto? Non si sentivano lecitati ad intervenire in una discussione nella quale non ritengono di avere (o non gli viene concesso) un ruolo attivo?
Già diverse volte ho trattato il tema della paternità in questo mio blog (per forza, è un tema a me molto caro visto che sono un papà!) ma continuo ad occuparmene perché vorrei davvero che la figura maschile venisse riconosciuta e collocata nel processo educativo.
Devo far qualcosa, voglio far qualcosa perché tutti questi padri - insieme alla loro mogli/compagne - possano attivamente educare i loro figli.
Fin dai loro primi giorni di vita.
Perché già in quei momenti l'uomo ha un ruolo fondamentale nell'equilibrio familiare.
Se l'uomo prova a stare sulla scena sin dai momenti più precoci, a guadagnarne in qualità e intensità potrebbe essere anche il rapporto madre-figlio visto che, come affermato da Bowlby, l'uomo, offrendo sostegno emotivo alla propria compagna, fungerà per lei da base sicura, divenendo in tale modo anch'egli figura di attaccamento.
Inoltre, in una prospettiva psicodinamica, è stato più volte affermato che al padre spetta il compito psicologico di "collocarsi" al centro della relazione madre-figlio durante le fasi pre-edipiche dello sviluppo, divenendo un polo alternativo in grado di attenuare le funzioni specifiche assolte dalla madre nel suo ruolo essenziale di caregiver primario. Il padre, con il suo intervento educativo, priva il bambino dell'oggetto del suo investimento affettivo primario facendolo passare dalla logica del bisogno a quella del desiderio.
Cosa posso fare - quindi - per cercare di coinvolgere maggiormente questi padri? Come posso aiutarli a comprendere quanto fondamentale sia il loro ruolo nella crescita dei loro figli che non può essere limitato al "mi prendo cura della famiglia garantendo loro sicurezza"? Come sostenerli nel rivendicare (anche davanti alle loro compagne che, alcune volte, faticano ad accettare la presenza dell'uomo nella relazione così esclusiva e gratificante madre-figlio) un ruolo attivo e riconosciuto? Come rinforzarli nel credere nelle loro potenzialità educative?
Come trasformare la "coppia affettiva" madre-figlio in un amorevole "triangolo familiare" in cui ogni membro giochi un ruolo che auto-mantiene la relazione affettiva all'interno del nuovo sistema famiglia e che permetta al padre di abbracciare a tutto tondo la sua nuova dimensione genitoriale?
Probabilmente devo partire dal capire che tipo di padri ho di fronte, quali sono le loro aspettative e paure, che tipo di immagine fantasmatica hanno di sé come padri.
 
E voi: che tipo di padri siete? che tipo di padri sono i vostri compagni/mariti? Mi raccontate le vostre esperienze così che io possa meglio comprendere il fenomeno basandomi su una conoscenza concreta e più allargata dei nuovi padri?

giovedì 13 settembre 2012

Genetica o psicologia? La qualità della vita è la risposta

"...Però io non ho mai creduto a Barnard, il nostro dottore, quando mi diceva che l'autismo ha cause genetiche.
Una volta era tutta psicologia e adesso tutto genetica, gli obiettavo. A seconda della moda.
<Vero. In passato si tendeva a dare la colpa ai genitori, in particolare alla madre che non dà abbastanza calore, la cosiddetta madre frigorifero... A me pare più plausibile che sia scritto nei geni>.
<Ma le persone autistiche non hanno famiglia, quasi mai hanno figli. Com'è che l'autismo si diffonde sempre di più anziché diminuire?>
<Perché a furia di studiare comprendiamo meglio il fenomeno, e inquadriamo più correttamente i casi>.
<Quindi se continuiamo con gli studi potremmo addirittura scoprire che almeno la metà degli umani sono autistici o quasi o che lo diventeremo tutti...>
<Dai!>
<Barnard, quella dei geni è una colpa senza ammissione di colpa. I geni glieli diamo noi a questi ragazzi. Non li comperiamo in bottega. Per quale motivo non gli diamo roba buona? Siamo pessimi spacciatori di geni. Perché?>"
F. Ervas - "Se ti abbraccio non aver paura" - Marcos Y Marcos

 
Sto leggendo questo libro. Carino, anche se le descrizioni che mi avevano dato mi sembravano molto più entusiaste di quanto lo sia io durante la lettura.
Mi sono domandato perché: il libro racconta una storia vera, toccante, deflagrante se si riesce (cosa difficile) ad immaginare anche per un solo momento che potrebbe capitare a noi.
Ma questa cosa dei geni mi ha colpito. Perchè per Andrea (il protagonista del libro) pare proprio essere così: non sembrano esserci altre cause se non la genetica impazzita.
E mi sono domandato: e per i miei utenti? Si tratta di psicologia o di genetica?
Purtroppo sono abituato a lavorare con sistemi familiari multi-problematici, dove psicologia e genetica si fondono e si confondono. Ma sono strettamente correlate tra loro.
La genetica porta a problemi psicologici e comportamentali, la psicologia disfunzionale crea problemi comportamentali e psicologici.
A volte mi chiedo quale possa essere l'aiuto che un educatore e pedagogista riesca a portare. Altre volte le risposte mi arrivano come un fulmine a ciel sereno, dalla mia esperienza professionale e dai racconti e commenti di chi mi legge. Che mi ricordano ogni giorno (anche se non serve, ma fa sempre bene) che il nostro è un lavoro importante.
Ma la genetica? Cosa possiamo contro la genetica?
Credo proprio nulla: si tratta di cellule impazzite, di casualità, di un disegno superiore che non possiamo e non riusciamo a comprendere.
Ma poi mi ricordo di un concetto fondamentale: la qualità della vita.
Ogni individuo ha diritto alla miglior qualità della vita che gli possa offrire la sua situazione personale e familiare.
Ed è qui che - a dispetto della genetica - rientra in campo, prepotentemente, la pedagogia.
Sono gli affetti e le relazioni il cuore caldo e pulsante della qualità di vita, per chiunque. E amore pedagogico e relazione educativa sono il fulcro del nostro lavoro.
Ed ecco ritornare la motivazione, la forza del nostro agire quotidiano.
Andrea (il protagonista del racconto) nonostante il suo autismo compie un viaggio in moto per tutta l'America seduto dietro suo padre: che a volte sembra voglia scappare dall'autismo (per ritrovarselo costantemente abbracciato alla schiena) e a volte sembra invece rincorrere qualcosa che ancora non riesce a raggiungere. Mai non è mai da solo, sempre insieme ad Andrea.
In una splendida metafora educativa che ci racconta che l'importante non è la meta, ma il viaggio.
Viaggio che ogni educatore, tutti i giorni, compie accompagnando qualcuno verso la sua qualità della vita. Ovunque essa sia.

mercoledì 12 settembre 2012

Lacrime pedagogiche: lo strappo emotivo

L. deve cominciare la terza elementare. Si aspetta di andare nella scuola dove ha frequentato le due classi precedenti e di ritrovare i compagni, le maestre, il personale ausiliario... tutte persone che negli scorsi anni lo hanno seguito, coccolato, contenuto, vezzeggiato. Si, perchè L. è uno di quei bambini "particolari": con una diagnosi funzionale da gravissimo (e conseguente presenza di insegnanti di sostegno ed educatore), con problemi comportamentali e che vive in comunità.
La relazione della scuola materna lo descriveva come una sorta di "mostro" in miniatura: comportamenti aggressivi, disturbo continuo, incapacità di attenzione e concentrazione, livello di apprendimento sotto i limiti storici, necessità di una relazione esclusivamente individuale con un adulto e tutta una serie di agiti quantomeno "allarmanti" (dal denudarsi in classe allo spargere in giro qualsiasi tipo di effluvio corporeo... per usare immagini accettabili!).
All'inizio della prima elementare (coincidente temporalmente con il suo allontanamento da casa) era quindi considerato come un "sorvegliato speciale": tutta la scuola era pre-allertata sull'arrivo di una bomba pronta ad esplodere in qualsiasi momento.
Docenti, sostegno, educatore si ritrovano e progettano. Portando, in due anni, il bimbo a rispettare le regole scolastiche, ad essere ben inserito nel gruppo classe, ad imparare qualche cosina...
E lo stesso accade qualche giorno fa, prima dell'inizio della scuola: ci si ritrova tutti insieme per progettare il nuovo anno. Progetto orto, rielaborazione delle emozioni attraveso l'attività artistica, ore di compresenza per i momenti di classe, scelta del corretto compagno di banco e quant'altro.
Ma accade un fatto inaspettato: si libera un posto in una scuola "speciale" (so che non esistono più, ma di questo si tratta: di una scuola frequentata solo da soggetti in difficoltà con presenza di neuropsichiatra infantile, psicologo, logopedista, psicomotricista...) e L. viene inserito lì, dove sarebbe dovuto andare già dal primo anno se ci fosse stato posto.
Un'ottima opportunità per lui: una scelta ponderata dai servizi fino all'ultima possibile eventuale controindicazione. Soppesando pro e contro in modo analitico.
Poco dopo aver appreso la novità mi manda un sms una delle maestre che - di lì a poco più di 36 ore - avrebbe accolto il bimbo nella scuola di sempre: "è vera la brutta notizia? Ieri quando l'ho incontrato ha pianto e mi ha detto <anche tu mi abbandoni>. Questa notte non ho dormito. Sto ancora piangendo. Che colpo.".
Perché, nonostante le difficoltà, L. ha lasciato un segno. Si è trasformato da "piccolo mostro" in un alunno affettuoso, coccolato (quando serve) e sgridato (sempre quando serve) da tutti: insegnanti, educatore, bidelle...
Tanto che l'anno scorso - a dieta per il suo forte sovrappeso - le bidelle gli portavano ogni giorno da casa loro la frutta, gliela sbucciavano e gliela recapitavano in classe su un bellissimo piattino dotato di posate. Perché lui facesse una merenda equilibrata imparando la motricità fine. E poi gli facevano lavare il piatto, "perché l'autonomia nelle piccole cose è importante".
Tanto che alla fine della seconda elementare è riuscito a raggiungere gli obiettivi minimi del gruppo classe (non quelli individuali stabiliti per lui, quelli del gruppo classe!!!) in alcune delle materie minori.
Certo sa scrivere solo il suo nome e contare fino a 6 (non senza difficoltà, alcune volte) ma non è solo questo l'importante.
La scuola ci ha messo anima e corpo nell'affrontare le difficoltà di questo bambino, ci si è dedicata con attenzione, professionalità e anche qualche errore (comprensibile: non esiste la scuola perfetta o l'insegnante perfetto) e ha dovuto abdicare al suo ruolo. Improvvisamente, senza possibilità di replica.
La maestra sta ancora piangendo...
Ma lei è adulta, ha gli strumenti per rielaborare questo distacco (o strappo?).
Ma lui? Il piccolo?
Come reagirà a questo cambiamento? Quanto tempo ci metterà a digerire che nei banchi intorno a lui non ci saranno le solite facce (quelle che aspettava con ansia ormai da un mese) ma altre sconosciute?
Certamente le risorse di questa nuova scuola lo sosterranno nel suo processo di apprendimento e di socializzazione. Sicuramente gli specialisti presenti in organico sapranno utilizzare al meglio le tecniche in loro possesso per aiutarlo a crescere.
Ma perché L. ha ancora la sensazione di essere stato abbandonato?
Nella sua vita - ad ogni distacco - proverà questo senso di vuoto?
E lui? Avrà pianto anche lui come la sua maestra?

martedì 11 settembre 2012

9/11: l'educatore quel giorno...

11 settembre 2001... sono passati 11 anni.
Avevo deciso di pubblicare semplicemente un'immagine per ricordare senza ulteriori commenti.
Poi mi è venuto in mente quel giorno: ero in comunità e - insieme ai miei ragazzi adolescenti (la maggior parte dei quali di origine araba) - eravamo davanti al televisore.
Incollati e rapiti davanti alle immagini che hanno squassato il mondo. Il nostro mondo. Il mio mondo di occidentale.
Immagini crude, incomprensibili. Da parte di tutti.
I ragazzi chiedevano cosa stesse succedendo ed io - che come loro stavo seguendo in diretta ascoltando i commenti concitati e confusi dei cronisti - mi sono ritrovato a dover spiegare.
A spiegare cosa poi? Che i "loro" compari di religione stavano attaccando i "miei" compari occidentali? Che la loro religione stava cercando di annientare il mondo che io conoscevo? Che  quando la religione si mischia con la politica porta solo al caos? Che i "cattivi", nel mondo, esistono ancora? Che i "cattivi" non hanno colore, razza o religione? Che la differenza tra "buoni" e "cattivi" non è mai così netta?
Come loro ero allibito, confuso, allucinato... ma dovevo svolgere il mio compito: rispondere alle loro domande.
Fare l'educatore - mantenendo la freddezza e la lucidità necessarie - cercando di essere oggettivo e senza critica.
Non so se ci sono riuscito, ma ho tentato di farlo.
 
 
 Avevo deciso di non commentare questa giornata ma, ricordando i visi stralunati dei miei ragazzi, ho pensato che il silenzio sarebbe stato un errore. Sicuramente rispettoso, ma non corretto nei confronti di chi ha delle domande.
Questi avvenimento vanno ricordati ed occorre cercare di trovare un senso per restituirlo a chi un senso non riesce a trovarlo.
E allora si dà voce ai pensieri, alle emozioni. Evitando di soffocarli nel silenzio.
Poche parole - perché il senso del silenzio un po' mi rimane - ma motivate dall'intento di aiutare a capire chi fatica a capire. Chi non ha gli strumenti per capire. E li chiede a noi, educatori. Sempre.

lunedì 10 settembre 2012

Consulenza pedagogica da parcheggio

Ore 9: arrivo al micronido, apprestandomi ad entrare, e trovo una mamma in lacrime fuori dal cancello. Naturalmente mi avvicino e le chiedo cosa sia successo. Ha accompagnato la sua bambina, l'ha lasciata alle educatrici che ancora piangeva e si è "appostata" fuori dalla finestra per sentire per quanto tempo sua figlia sarebbe stata inconsolabile.
Al mio arrivo la bimba ha già smesso di piangere, la madre no.
La rassicuro ricordandole che la sua piccola ha fatto due mesi di vacanza godendosi mamma e papà e quindi il rientro al nido è difficoltoso, in più è lunedì mattina e ha riassaporato una relazione esclusiva con i suoi genitori per tutto il fine settimana...  Poi le racconto degli ultimi tre anni in cui ho accompagnato la mia bambina alla scuola materna (non al nido! quindi parlo di una bimba più grande della sua) e di come ogni mattina mi salutasse con gli occhi gonfi di lacrime perché "voglio stare con il mio papà...".
Finalmente si tranquillizza, mi racconta di come sia dura per lei lasciare tutte le mattine la sua cucciola per andare a lavorare... ecco il vero nocciolo della questione! E glielo rimando: a volte siamo noi adulti che facciamo più fatica a rielaborare il distacco, a digerire il nostro "senso di colpa" per quello che consideriamo un abbandono innaturale.
Non so se sia stato il mio intervento o il fatto che avessi in mano un martello (non certo come strumento educativo... spesso a noi educatori tocca fare di tutto!) ma la mamma in questione mi ha salutato e se n'è andata (credo) più serena di quando l'ho incontrata.
La consulenza pedagogica (così come gli interventi educativi) a volte arriva in modo inaspettato, senza il tempo di ragionare o di progettare. Si presenta una situazione e bisogna affrontarla, al meglio, soppesando ogni parola e avendo ben chiaro l'obiettivo.
Sono gli strumenti che abbiamo dentro di noi (personali e acquisiti con gli anni di studio e di esperienza lavorativa) che ci aiutano e ci sostengono in questi momenti.
Il lavoro dell'educatore e del pedagogista è spesso immediato, lascia poco spazio alla riflessione e poco tempo alla progettazione, si "pensa in presenza di azione" in modo contemporaneo. Non operiamo in una sorta di laboratorio dove il tempo per il pensiero e l'elaborazione sono precedenti all'azione.
Il pensiero e la progettazione sono però delle componenti fondamentali ed occorre quindi effettuarle in precedenza, consapevoli che poi l'intervento potrà subire delle modificazioni in itinere che non avevamo preventivato, valutato.
Occorre flessibilità, elasticità e prontezza di pensiero.
Ma probabilmente questo è uno degli aspetti più stimolanti di questa professione.
Almeno per me.

domenica 9 settembre 2012

Fantagenitori (2): la scrivania

Mercoledi comincia la scuola e la mia bambina andrà in prima elementare. Entra nel mondo dell'apprendimento, diventa grande, inizia la sua carriera accademica che durerà (almeno) per i prossimi 10/15 anni.
Come "festeggiare" questo avvenimento?
Mi sono messo in testa di predisporre nella sua cameretta una "postazione studio". Nulla di esaltante, non vi preoccupate, non sono il papà di Pinocchio e non ho grandi abilità manuali.
Semplicemente ho preso un pannello di legno, l'ho sagomato e dipinto e l'ho posizionato. Senza l'aiuto di nessuno (per scelta) e con pochi strumenti a disposizione.
Probabilmente pochi, tra quelli che mi conoscono, erano fiduciosi sulla riuscita di questo progetto, ma ce l'ho fatta.
Perché?
Semplice: sono testardo e quando mi metto in mente una cosa la raggiungo. Se ho un progetto mi ci danno finché non lo realizzo.
Alcuni amici mi prendevano in giro suggerendomi di andare all'Ikea e utilizzare il mio tempo per altro... Possibile, ma volete mettere la soddisfazione?
Probabilmente mia figlia farà i compiti sul tavolo della cucina (come tutti i bambini di questo mondo) per tutte le elementari e forse anche le medie e la mia scrivania sarà relegata ad un ruolo marginale per giocare o disegnare. Ma non importa, è lì: se la vuole utilizzare lo può fare, se non vuole sa che c'è.
Le ho fornito uno strumento e la libertà di scelta sul suo uso.
Ecco che rispunta fuori l'educatore del terzo tipo.
Ieri mi domandavo se diventare genitore avesse fatto variare le mie modalità di educare in ambito professionale, ma oggi comincio a pensare che le due cose non possono essere scisse, è difficile analizzarle singolarmente.
Io sono un educatore e sono un padre. E le due cose non possono essere separate.
Quando faccio il padre non posso rinnegare il mio essere educatore e viceversa. Perché non può essere solo una questione di strumenti, di studio e apprendimento, di esperienza. Bisogna essere in grado di far interagire gli strumenti pratici e le predisposizioni personali in modo pedagogicamente orientato in un progetto, verso un obiettivo chiaro. Non basta avere le caratteristiche "sulla carta" - un titolo di studio adeguato, doti empatiche, capacità osservative e progettuali e quant'altro si ritenga necessario... -, occorre che tutto funzioni in modo sistemico.
Non si può "fare" l'educatore, bisogna "essere" educatore.
E lo stesso vale per il ruolo di padre.

sabato 8 settembre 2012

Educatori extraterrestri? O fantagenitori?

Leggevo in un blog che seguo la definizione di "educatori del terzo tipo".
Secondo la teoria dell'autore di questo post ci sono tre tipi di educatori: "quelli che lo fanno solo di lavoro, quelli che lo fanno nella vita e quelli che lo fanno sia di lavoro che nella vita".
Questi ultimi sono gli educatori del terzo tipo cioè i geni-educatori.
Visto che faccio parte di questa categoria ho letto con molta attenzione l'articolo e ho condiviso ciò che è stato scritto.
Ma poi mi è venuta una domanda.
Visto che prima di essere un educatore del terzo tipo ero solo un educatore (perché la mia bambina è nata molti anni dopo che ho iniziato questo lavoro) che cosa è cambiato in me con l'ingresso nella nuova categoria?
Certamente ho rimesso in discussione l'èquilibrio tra vita privata e vita professionale: ora non si discute su quando stacco dal lavoro per stare con lei, non ci sono santi (o utenti) che tengano.
Ma aldilà di questo - che è abbastanza scontato - cosa è variato? Ho cambiato le mie modalità educative?
Forse non sono cambiato di molto nelle filosofie e nelle modalità, ma posso affermare senza vergogna che la mia bambina è diventata uno dei miei strumenti educativi preferiti.
Non fraintendete: non la "uso" durante i miei interventi educativi, ma utilizzo la sua presenza come mio strumento. La cito spesso, racconto aneddoti su di lei, sulla nostra relazione, sulle difficoltà che ho avuto come padre, sulle strategie che ho utilizzato...
Perché?
Purtroppo essere un educatore uomo non è sempre un vantaggio. (Aaaaarrrrrggggggghhhhhhh urla di sdegno da parte delle educatrici!!!)
Checché ne dicano le colleghe (e non hanno tutti i torti, sotto alcuni punti di vista) sul fatto che noi maschietti troviamo più facilmente lavoro, questo vale solo in alcuni ambiti.
Provate ad immaginare la prima volta che le mamme mi hanno visto al micronido o nel tempo famiglia... Le loro espressioni erano abbastanza eloquenti: come fa un uomo ad essere in grado di compiere quei compiti di cura esclusivamente deputati alle donne? La mia professionalità veniva messa in discussione prima ancora di essere testata sul campo.
Il mio essere padre, però, mi ha aiutato a superare questa barriera e ha dato la possibilità alle mamme di sospendere il giudizio e osservarmi (e valutarmi) non sulla base del pregiudizio ma solo su ciò che facevo e su come lo facevo.
Ed è stato un successo.
Essere un "educatore del terzo tipo" - quindi - nel mio lavoro è stato a volte un vantaggio.
Ma nella mia vita privata?
Naturalmente alcuni strumenti professionali mi sono stati utili nell'educazione di mia figlia. Ma a nulla sono valsi esperienza, studio, professionalità per superare la paura del diventare genitore. Nulla.
Ma la parte più difficile... è cercare di spiegare a mia figlia che tipo di lavoro faccio, perché vado al parco giochi con altri bambini e non con lei, perché in alcuni momenti mi prendo cura di altri bambini e non di lei.
Per lei - credo - il mio lavoro è come fare "il papà di altri" e non riesce a comprendere perché non faccio il suo papà in esclusiva.
Fin da piccola, dunque, si è sentita raccontare che non tutti i bambini sono come lei, non tutti hanno due genitori che la seguono e che le vogliono bene, non tutti vivono a casa propria, non tutti sono sani... Discorsi difficili, ma affrontati con semplicità, senza nascondere nulla o ammorbidire la realtà.
Perché da geni-educatore vorrei che la mia bambina crescesse in un mondo reale.  E io cerco di presentarglielo in questo modo.
Per quanto difficile da comprendere sia.

venerdì 7 settembre 2012

Il paradosso delle agenzie educative: la scuola senza educatori

Oggi sono andato in una scuola media per concordare il progetto educativo di un ragazzino che seguo. Finché ho parlato con l'insegnante di sostegno tutto bene: parlavamo la stessa lingua, concordavamo sugli obiettivi, ci confrontavamo sul modalità e strumenti.
Poi abbiamo cominciato a parlare del corpo docenti: è lo stesso insegnante che inizia a raccontarmi dei cambiamenti. Il professore di matematica ha chiesto il trasferimento (per motivi familiari), le docenti di inglese e francese non erano di ruolo e quindi sono state destinate ad una nuova scuola, l'insegnante di tecnologia cambia... Io mi ritrovo spiazzato e mi vien da chiedere: che tipo di insegnanti saranno? Come vivranno nella loro aula la presenza di un ragazzino fortemente disturbato e con mille problematiche relazionali?
Istintivamente lo chiedo al professore di sostegno. E lui mi risponde: "Boh! Vediamo se siamo fortunati".
Vediamo se siamo fortunati??? Scherziamo???
Purtroppo è così nel mondo della scuola: se i docenti hanno una predisposizione naturale e assolutamente personale all'educazione si ragiona e si parla la stessa lingua. Altrimenti ci si trova davanti persone che si preoccupano esclusivamente della trasmissione dei saperi.
Ma - mi vien da dire - non è colpa dei professori. Per insegnare a scuola devi essere un esperto della materia, non un tecnico della pedagogia o dell'educazione.
Per insegnare italiano devi avere una laurea in letteratura italiana, per insegnare inglese devi essere dottore in lingue e letterature straniere, per insegnare tecnologia devi essere un architetto.
E la pedagogia? E gli strumenti e le tecniche per educare e formare?
In nessun plesso scolastico è prevista la figura del pedagogista (al massimo lo psicologo per fare sportello di ascolto, utile ma si tratta di un'altra cosa!).
Peccato che la scuola sia una "agenzia educativa" e in quanto tale dovrebbe educare. Ma con quali strumenti? Con quali professionalita?
Poi ci si lamenta che il nostro sistema scolastico è uno degli ultimi nelle classifiche europee.
Per forza.
E buona fortuna per il nuovo anno scolascito. Ad insegnanti, studenti, educatori... alla pedagogia non auguro buona fortuna.
Perché non è contemplata.

giovedì 6 settembre 2012

Disagio magnetico

Ieri ho potuto verificare una legge di natura: "le calamite si attraggono".
Per intenderci: so che non sto dicendo nulla di nuovo, ma ieri ho avuto la prova scientifica che questa legge vale anche nel mio lavoro.
Mi spiego: stavo accompagnando due nonni a fare visita al loro nipotino inserito in comunità e, come ogni volta, durante il tragitto mi hanno raccontato le evoluzioni del loro stranissimo e super-patologico sistema familiare. Ma questa volta, oltre alle nuove prodezze dei loro parenti, si sono lanciati anche nella narrazione di quanto successo alla loro vicina di casa.
Casualmente si tratta di una donna con una certa disabilità, separata con figli allontanati dal Tribunale, che convive con un alcolista e che le prende da lui di santa ragione.
Fin qui tutto normale direte voi? Certo. Ripeto: nulla di nuovo, che non si sia già sentito nella nostra strana professione.
Ma il bello viene ora: nello specifico dell'ultimo "combattimento" nel cuore della notte vengono chiamati i carabinieri che (ovviamente) intervengono e che (altrettanto ovviamente) verificano con i vicini la veridicità e la ripetitività delle percosse.
E cosa succede di straordinario? Il Maresciallo chiede alla nonna che era in auto con me di tenere d'occhio la situazione e di chiamarlo qualora la cosa si faccia particolarmente problematica!
Mi sembra una situazione paradossale: ai miei due nonnini (colmi, stracolmi, quasi saturi di disagio, problematiche e servizi sociali incaricati di seguire ognuno dei loro singoli parenti - minorenni o maggiorenni che siano -) viene chiesto di collaborare! Di farsi osservatori e "garanti" di una situazione di disagio sociale. Che questa volta non coinvolge loro!
Ma perché - mi chiedo - chi ha già tutti i suoi problemi, come una calamita ne attrae altri? Quale strano disegno sta dietro a questa dinamica?
Tutto questo per me è un mistero e come educatore mi resta solo la possibilità di affrontare la situazione e di trasformare il limite in una risorsa, cogliendo lo spunto di questo racconto per cercare di tramutarlo in una possibilità di apprendimento per questi due nonni nella relazione con il loro nipote.
Ma perché piove sempre sul bagnato?
 

martedì 4 settembre 2012

Esistono gli eroi?

Teseo è un eroe! Combatte contro il Minotauro (un mostro orrendo e fortissimo) e lo sconfigge. Salvando tutti, e vissero tutti felici e contenti, eccetera...
Almeno, questo ci racconta il mito.
Non che il mito sia sbagliato, intendiamoci. Però quando si legge il mito si ricorda l'eroe - colui che compie le imprese - dimenticando tutto il resto.
Vediamolo da un altro punto di vista: Teseo entra nel labirinto, combatte contro il Minotauro (questo si, lo fa da solo) e poi? Come farebbe ad uscire senza l'aiuto che gli dà Arianna? Come potrebbe tornare indietro e ricevere glorie ed onori se non gli fosse stato fornito uno strumento fondamentale? Che ne sarebbe di Teseo senza il Filo?
Sarebbe un tizio qualunque entrato nel labirinto (come tanti) e mai uscito (come tanti). Che importanza avrebbe l'aver sconfitto il Minotauro?
Dal mio punto di vista il vero fulcro del mito è il Filo di Arianna. Più precisamente: non Arianna (nemmeno ricordo come abbia ricevuto il gomitolo) quanto il Filo.
E nella metafora pedagogica cosa rappresenta questo Filo? Secondo me la relazione che lega Teseo al mondo, ad Arianna, al ritorno, alla salvezza, alle glorie ed agli onori.
Il Filo rappresenta il legame di attaccamento sicuro che connette ogni individuo con il suo mondo, quello a cui vuole tornare dopo aver sconfitto i suoi mostri. Teseo ed Arianna rappresentano gli attori, mentre il filo rappresenta il legame che c'è tra loro, che non li fa perdere, che li riunirà.
Traslando nella metafora della crescita Arianna potrebbe essere la madre (il porto sicuro alla Winnicott) e Teseo rappresenterebbe il figlio che cerca di crescere, di trovare sé stesso, di superare i propri limiti e le proprie difficoltà.
Ma senza la relazione educativa - il legame, che per quanto possa essere ingarbugliato, è forte e sicuro -  nulla potrebbe accadere.
E il mito non esisterebbe.
Chi è dunque l'eroe? Teseo? In parte si, perchè sconfigge il mostro. Arianna? Forse, perché infonde coraggio a Teseo affinché possa affrontare la difficoltà. E il Filo?
Esistono davvero gli eroi?

lunedì 3 settembre 2012

Ci si può assuefare alle emozioni?

Ho guardato dentro un'emozione
E ci ho visto dentro tanto amore
E ho capito perché non si comanda al cuore
E va bene così
Senza parole
(V. Rossi - Senza Parole)
 
Tanti anni fa ho scelto questo lavoro perché mi faceva provare tante emozioni, mi avvicinava a ciò che le persone provavano.
Ed erano emozioni forti, sentimenti spesso estremi.
Poi ho cominciato a studiare e ho capito che il lavoro era anche una professione. Bisognava apprendere tecniche, osservare situazioni, imparare a prendere le giuste distanze dalle emozioni per non essere trascinati irrimediabilmente in un vortice da cui si faticava ad uscire. Da cui qualche volta sembrava impossibile uscire.
Alcuni luminari continuavano a ribadire il concetto del non farsi coinvolgere troppo, i miei genitori - conoscendomi molto bene - temevano che mi sarei buttato troppo, i miei "guru dell'educazione" (pochi per la verità, solo persone che stimavo e stimo ancora molto ad anni di distanza) mi davano suggerimenti e consigli.
Ho letto e studiato del burn-out, mi sono chiesto se anche io potevo caderci, ho visto colleghi che ci sono rimasti intrappolati.
E intanto continuavo a lavorare, vivendo intensamente e fino in fondo le storie e le persone che incontravo.
Provavo emozioni? Certo che si! Ma me le tenevo per me, me le gestivo. O almeno così pensavo.
Perché dopo tanti anni ho capito che le mie emozioni si percepiscono sotto pelle e che i miei ragazzi mi apprezzano, mi ascoltano e mi rispettano proprio perché non sono una "macchina da guerra".
Quando un ragazzo o un genitore mi fa incazzare mi arrabbio sul serio, quando una situazione mi annoia si vede lontano un chilometro che mi sto rompendo, quando una cosa mi fa ridere rido e se mi fa soffrire soffro.
Sono limpido, provo emozioni e gli altri le provano con me.
Tanti anni fa ho scelto di fare l'educatore perché mi faceva provare tante emozioni.
Oggi ho capito che sono proprio le mie emozioni che fanno di me un bravo educatore.
Ma ci si può assuefare alle emozioni?