lunedì 29 ottobre 2012

Esperimento comunicativo

La questione è cm la rete possa essere educativa.
Ke tipo di linguaggio si può usare? Cm si possono mostrate le emozioni? Il linguaggio nn verbale?
Se 6 triste cm puoi esprimerlo a parole? Ke segni puoi utilizzare? :-(
E oltre a qst... Cm governare il mezzo?
+ di 160 post nel gruppo x discutere di qst.
La discussione nn è stata semplice xché nn siamo ancora allenati ad utilizzare bene il mezzo, ad averne il pieno possesso.
Ma il dubbio principale è qll del linguaggio, della diversità di significato ke i "nuovi tecnici" (gli ado) danno?
Nn solo, ma sembra ke il linguaggio scritto ponga dei limiti di interpretazione.
Xchè non siamo abituati? O_o
Xchè siamo vecchi? :-(
O solo xché siamo pigri? ;-P
Naturalmente nei 160 post nn si è discusso solo di qst, ma anke della freddezza e della distanza del mezzo.
Nostalgia?
Forse!
Ma è necessario abituarsi al nuovo mezzo xché qst è qll che abbiamo.
Di necessità virtù.
ki vuole aggiungere qlc cs?
O tradurre?
 
 
P.s. H h h h c c c c u u u e e e. ... Queste sono solo alcune delle lettere che mancano in questo post. Chi fosse davvero allergico al nuovo linguaggio le può incastrare laddove mancano.
:-)

giovedì 25 ottobre 2012

Padova: la bolla di sapone

Sono passate due settimane e già non se ne sente più parlare.
Quattordici giorni fa imperava su tutte le tv e in rete quel famosissimo video. Lo avete già dimenticato?
Mi riferisco al video del bimbo di dieci anni "barbaramente" portato via dalla polizia, "ingiustamente strappato" dalle braccia della sua mamma ed inserito in casa famiglia.
Come potete averlo già chiuso in un cassetto?
Eppure molti ne hanno parlato, tanti hanno urlato allo sdegno, diversi hanno denunciato uno scandalo pari ad una barbarie, pochi sono riusciti a tacere.
Eppure di quel bambino non v'è più traccia in alcuna trasmissione televisiva, talk show o social network.
Dopo il tanto urlare dei parenti presenti, degli specialisti, dei tecnici, dei presentatori, della gente comune... Immancabilmente il silenzio!
Spesso capita questo: si cavalca l'onda dell'emozione, ci si aggrega nello sdegno, ci si unisce al coro di chi urla la vergogna. E poi si passa ad altro.
La solita bolla di sapone che presto scoppia.
E Leonardo?
Si, ho usato il suo nome (vero o inventato che sia) e ho smesso di chiamarlo "il bambino di 10 anni".
Perché?
Semplice: perché a me, di tutta questa storia, è rimasta la preoccupazione per lui, essere umano e non simbolo o stendardo dietro cui nascondere altri fini.
Dopo tanti anni di lavoro in comunità per minori, dopo aver accolto tanti "allontanamenti coatti" mi è rimasta l'attenzione per il dopo.
Per il benessere (o malessere) di questi bimbi e ragazzi, per gli interventi possibili (o impossibili) da poter porre in essere, per la ricerca di strumenti pedagogici da mettere in campo.
Questo, per me, è il mondo educativo. O almeno dovrebbe esserlo.
Ma mi sento un pesce fuor d'acqua, con pochi che la pensano o vivono questa situazione nello stesso modo in cui succede a me.
Mi piacerebbe educare questo mondo.
Mi piacerebbe poter insegnare che non è chi urla di più ad essere più forte.
Vorrei poter aiutare le persone a non vivere solo le emozioni di pancia e poi dimenticare.
Vorrei...
Sono pragmatico? O sono visionario?
Si parla tanto (e sempre più spesso) della rete, dei suoi vincoli, dei suoi limiti e delle sue risorse. Ed io sono il primo che tenta sempre di "vedere il bicchiere mezzo pieno" e trarre dal web ciò che di meglio mi può dare.
La rete è veloce. Tutto passa e scorre. Panta rei.
Ma l'essere umano deve rimanere al centro di tutto. L'uomo deve poter (saper?) decidere a prescindere dallo strumento che utilizza.

Due settimane fa ho deciso di non commentare quanto accaduto.
Oggi decido di non dimenticare che dietro al circo mediatico che ci ha investito, alle urla di sdegno e di vergogna, ai commenti, c'è Leonardo: un bambino che ha sofferto e che probabilmente sta ancora soffrendo.
Oltre a questa mia decisione, un pensiero speciale va a quegli educatori, a quei colleghi, che in questo momento con Leonardo stanno lavorando.
Che sappiano stare fuori da tutto ciò che gli gira intorno e lavorino con professionalità e con passione.
 

lunedì 22 ottobre 2012

La ragnatela e il ragno

La discussione è partita, i commenti si fanno sempre più vari ed eventuali, le strade si moltiplicano, le riflessioni e le scelte anche.
Di che si parla? Della rete ovviamente. Dei suoi limiti e delle sue potenzialità.
Ma non del web in generale, quanto della possibilità che questo diventi uno strumento educativo.
Il punto di partenza è la pagina di un social network (https://www.facebook.com/index.php?stype=lo&lh=Ac_P6BNHugXJcySJ#!/groups/394822953923495/) a cui partecipano educatori, consulenti pedagogici e pedagogisti.
Chi meglio di loro (di noi) poteva porsi questo quesito?
Inevitabilmente la velocità della rete ha portato al diversificarsi degli argomenti.
Ma siamo sicuri che sia stata la ragnatela ad intrappolarci?
Non c'è ragnatela che non sia stata tessuta da un ragno e - nel nostro web - chi è l'ottupede?
Secondo me l'insetto intrappolatore è il nostro cervello, cioé noi con i nostri pensieri.
La sensazione che ricevo leggendo e rileggendo i commenti è quella di tanti soggetti che si sentono come dei moscerini intrappolati.
Ma la butto là: e se fossimo tutti ragni? Ragni in cerca di qualcuno che li educhi a tessere la propria rete come meglio ci aggrada? Come più ci serve?
L'educazione è sempre stata rivoluzionaria, controcorrente, imprevedibile e alla ricerca di nuove strade.
Lo dimostrano i cambiamenti della scuola e delle metodologie didattiche, tutte le teorie pedagogiche che nel corso dei secoli si sono susseguite, la continua e spasmodica ricerca da parte di ognuno di noi (educatori di ogni tipo) di nuovi strumenti e strategie che ci aiutino nelle difficoltà professionali (o meno) di tutti i giorni.
Perché allora questa imperante paura della nuova tecnologia?
Quando andavano a scuola i miei genitori si imparava a scrivere facendo file e file di aste... Ai miei tempi si partiva direttamente con l'alfabeto... Oggi, a parte la prescrittura e la prelettura, la mia bambina ha imparato a leggere e scrivere inviando sms a sua madre dal mio tablet. Con tanto di emoticons!
La potenzialità di ogni strumento non è mai nello strumento stesso, ma nell'intelligenza di chi lo usa.
Un "collega blogger" (gli cadranno i capelli se leggerà che lo definisco così) scriveva che ha solo dieci dita ed un cervello. Mentre i computer utilizzano microprocessori velocissimi.
Tutto vero.
Ma il pc è una macchina stupida perché esegue qualsiasi ordine gli venga impartito.
Senza sapere se sia giusto o sbagliato, senza riconoscerne il valore o la differenza, senza nessun discernimento.
La ragnatela è stupida.
L'intelligenza sta nel ragno.

"Da un grande potere derivano grandi responsabilità."
Spiderman

venerdì 19 ottobre 2012

Spugne pensanti

Una comune serata di una famiglia.
Mamma, papà e bimba che stanno cenando.
Presente, come spesso accade, l'inseparabile fastidiosa ma inevitabile compagna di sottofondo: la televisione.
Mamma e papà chiacchierano, la bimba interviene a tratti nei discorsi.
Ad un certo punto inizia la pubblicità di un noto supermercato. Ma si dai, avete capito, quella con la famosa comica italiana bassina, non bellissima ma con un'ironia da far sganasciare. Si, si, proprio quella in cui vuole cambiare il dentifricio di sempre, lo yogurt di sempre ed il detersivo di sempre.
Quella in cui la conclusione comica varia di volta in volta.
Oggi la domanda della comica è "Possiamo cambiare i nostri mariti di sempre?".
Mamma e papà ridono, perché il sottile cliché ironico fatto di mille sottointesi che comprendono solo gli adulti è simpatico.
La bimba risponde con un secco "No!".
Mamma e papà hanno un attimo di smarrimento: a chi sta rispondendo la piccola? E quindi, nel tentativo di capire, le chiedono spiegazioni.
"Non si possono cambiare i mariti perché io non voglio cambiare papà. Il mio papà me lo voglio tenere quindi mamma non puoi cambiare il tuo marito di sempre".
Lo smarrimento si trasforma...
La mamma sorride (perché - per fortuna - non ha nessuna intenzione di cambiare marito) ed è piacevolmente colpita dalla logica inattaccabile e dalla capacità di attenzione e di comprensione della sua piccola di appena sei anni.
Il papà gongola, e non c'é bisogno di spiegarne il motivo.
Ma questo papà è anche un educatore che spesso si trova di fronte bimbi che, per obbligo o necessità, non possono o non vogliono pronunciare una frase simile.
Ed il pensiero va a loro e alla loro sofferenza. A quella dei loro padri che non potranno gongolare dopo aver sentito una tale dimostrazione di affetto.
 
I bambini sono delle spugne: assorbono tutto quanto gli sta attorno. Emozioni, frasi, gesti,  sentimenti, dissapori...
Ma sono delle spugne pensanti: assorbono e rielaborano i concetti secondo il loro punto di vista, partendo dalla loro visione del mondo, mettendo in connessione l'input ricevuto con i loro desideri.
Se possono permettersi di esprimerli.
Gli adulti spesso dimenticano questa semplice verità: che i bimbi sono delle spugne pensanti. E che, oltre a fare attenzione a ciò che si dice loro, bisogna anche fare molta attenzione a ciò che ci restituiscono.
Una banale pubblicità (peraltro anche divertente per un adulto) può diventare per un bimbo la fonte di un pensiero, di una paura, di un sentimento. E se il piccolo non è abituato ad esprimere (o non gli viene concesso) con tranquillità la sua opinione, questa macererà dentro di lui e rischierà di diventare dannosa.
Perché la rielaborazione delle spugne pensanti ha comunque bisogno del supporto della razionalità adulta.
 
Il padre ringrazia la pubblicità che ha permesso alla bimba di esprimere il suo amore.
L'educatore si interroga se tutti i bambini hanno questa possibilità e come aiutare gli adulti che incontra quotidianamente per sostenerli in questa scelta.
 
P.S. Tranquilla piccola mia, nemmeno io cambierei la mia "bambina di sempre".

giovedì 18 ottobre 2012

Diversamente disabile = abile?

Ho un'amica.
Che si porta sulle spalle un gran peso: quello della sua disabilità. È giovane, molto bella, molto intelligente... Ma ha questo gran peso. La sua disabilità (come lei stessa la definisce) le impedisce di condurre quella che per molti di noi è una vita "normale".
Sottoposta a continui trattamenti medici e dipendente dagli altri per alcuni livelli della sua autonomia porta però il macigno con dignità, coraggio e noncuranza dei pregiudizi altrui.
Già: pregiudizi!
Perché oltre a dover combattere con la sua malattia si trova anche a dover "giustificare" ad altri le sue scelte.
Spesso non credono alla gravità della sua situazione perché le piace vestirsi bene o perché i suoi capelli sono sempre in ordine o, ancora, perché gli accessori sono sempre coordinati o la vedono camminare in giro per il paese.
Poco importa se per prepararsi per un'uscita (che peraltro si concede una volta ogni due morti di papa) impiega un'intera giornata.
O se cammina con un bastone alla sua giovane età, come se questo fosse un vezzo o un nuovo accessorio del suo look.
La sua disabilità però - secondo me - l'ha aiutata a tirare fuori alcune parti del suo carattere che magari non sarebbero emersi in modo così preponderante: il coraggio, la forza di volontà e la combattività. Che lei usa quotidianamente per andare avanti, lottare contro la sua malattia (per stare letteralmente "in piedi") e per aiutare gli altri.
Già, perché cerca sempre di aiutare anche chi le sta intorno. Come può, come riesce, sempre un poco di più di quello che la sua condizione le permetterebbe.
La sua disabilità le ha permesso di essere più abile in altro.
E non è così per tutti? Io, per esempio, a calcio sono assolutamente disabile (una vera schiappa) e nei lavori manuali idem (so giusto cambiare una lampadina, e poco altro!).
Certo: ci sono disabilità che non permettono questo, che sono così invalidanti da non lasciare spazio per altro.
Ma ci sono anche disabilità diverse, che possono essere affrontate per cercare di superare i propri limti. Ogni giorno.
Senza scomodare le varie Minetti (la cantante-ballerina-record italiana e non la "consigliera" regionale dimissionaria) e Pistorious (a cui va tutto il mio plauso per ciò che fanno, ma soprattutto per ciò che rappresentano) mi piace ricordare che di "diversamente disabili" ce ne sono molti.
E quando si ha la fortuna di conoscerli si può solo imparare da loro.
Essere educati da loro.
Più abili di noi nel superare le difficoltà.
E per un educatore di un certo tipo, essere educato è un piacere.
Quasi un vanto.

lunedì 15 ottobre 2012

Dopo Padova... si ritorna al lavoro

Ho lasciato passare un paio di giorni dal mio ultimo post perché volevo che quanto ho scritto sedimentasse un po'. In me e negli altri.
Ho passato il fine settimana bombardato da commenti su tutti i social network, in ogni telegiornale, in diverse trasmissioni televisive.
Psichiatri, psicologi, avvocati, giudici, educatori, persone comuni... Ognuno ha detto (qualche volta urlato) la propria opinione e il proprio sdegno sulla faccenda.
Ma io ho cercato di mantenere la mia linea: non commentare ciò che non conosci a fondo, non prendere una posizione fino a che tutto non sarà chiaro.
Ma negli avvenimenti di Padova non ci sarà mai chiarezza, non si saprà mai la verità fino in fondo.
E credo sia giusto così, nel nome di quella tutela della privacy e dell'interesse del minore tanto sbandierati.
 
Con questa consapevolezza oggi sono tornato a lavorare.
Mai il destino mi ha riservato uno scherzo così divertente, affascinante e a tratti incredibile.
Oggi comincio a seguire un nuovo caso, un intervento che mi è stato presentato nelle scorse settimane.
Devo monitorare gli incontri tra un padre e la sua bambina, a seguito di una separazione problematica tra genitori.
Divertente no?
Ancora mi rimbombano nelle orecchie tutti i commenti (congruenti o meno, intelligenti o meno, competenti o meno) che ho sentito negli ultimi giorni.
E con questa eco assordante mi appresto ad incontrarli.
Non voglio partire con il pregiudizio di servizi che vengono vissuti come aggressivi e violenti, o di operatori che vengono poi criticati perché potevano effettuare scelte diverse, o di tribunali che possono commettere errori, o di presunte patologie esistenti, riconosciute o meno.
Voglio solo fare il mio lavoro, con la professionalità di sempre.
Devo incontrare la madre, presentarmi alla figlia e monitorare l'incontro tra la bimba ed il padre.
Osservare, mediare la comunicazione, tamponare eventuali situazioni di disagio. E restituire poi quanto visto, detto e letto tra le righe ai servizi referenti.
Senza pensare che uso ne faranno loro, ma certamente soppesando ogni parola, assumendo un tono distaccato.
Non prenderò le parti di nessuno, perché questo mi viene chiesto.
 
E questo avrebbero dovuto fare anche nell'episodio di Padova.
Ma ognuno ha dovuto dire la sua, e pochi sono riusciti a tacere.  

venerdì 12 ottobre 2012

Accadde a Padova...

Un allontanamento coatto di un bambino di dieci anni prelevato da scuola dalle forze dell'ordine e trascinato dagli agenti in un modo brutale. Le urla della madre e altri commenti percepiti a spizzichi e bocconi. Il tutto aggravato dalla presenza delle telecamere. Nell'era multimediale il tutto finisce su youtube nel giro di poco, viene condiviso sui social network, passa su tutti i telegiornali e diventa materiale per ogni trasmissione televisiva.
E - come sempre - si scatenano le polemiche.
Qualcuno si aspettava anche un mio commento alla situazione su questo blog.
 
Ieri, per scelta, non ho voluto guardare le immagini o sentire i commenti. Ho deciso per questa astensione sia perché non avevo il giusto tempo da dedicarvi sia perché ho imparato, per esperienza, che un giudizio affrettato è spesso scorretto, o quantomeno frammentario.
Questa mattina, nonostante la mia volontà di "rimanerne fuori", alle 6.30 ho acceso la tv e mi sono subito trovato davanti il servizio del tg.
E come tutti sono rimasto impietrito per la crudezza delle immagini.
Ho guardato, ho cercato di capire, ma ancora non avevo sufficienti informazioni.
Allora ho cercato di carpire qualche notizia in più, ma il telegiornale - a quell'ora della mattina - non aggiunge mai molto. Sono quindi andato sul social network e ho letto un po' di commenti.
Frasi che mi hanno lasciato un po' perplesso!
 
"Nemmeno chi ha ucciso viene trascinato in quel modo"
"Se avessero dei pedagogisti che si occupassero di queste cose sarebbe molto più facile"
"Nella scala sociale metto le forze dell'ordine ad un livello basso"
"Avrebbero dovuto opporsi..."
"Trascineresti tuo figlio in quel modo? Manco un cane..."
"La scuola e la dirigente dov'erano?"
"I bambini vanno ascoltati... se non voleva andarsene  un motivo ci doveva essere"
"Non sono affatto a favore dell'allontanamento coatto"
 
Non sono perplesso dalle frasi in sé quanto dal fatto che siano state scritte da educatori.
Naturalmente i commenti non erano tutti di questo genere, altri erano assolutamente condivisibili.
Ho imparato nella mia vita che "Domandare è lecito, rispondere è cortesia" ed io mi ritengo una persona cortese.
Quindi normalmente a domanda rispondo.
A volte verbalmente, altre tra me e me, oggi sul mio blog.
 
Intanto non trascinerei mai mia figlia in questo modo, ma sono assolutamente certo che nessun altro lo farebbe. Perché io non sono un padre (né mia moglie una madre) per le cui azioni intervengono i servizi sociali o il Tribunale...
La scuola e la dirigente? Dove volete che fossero: presenti! Ma che tipo di intervento avrebbero potuto fare? Che tipo di peso pensiamo abbiano di fronte ad un decreto del Tribunale?
I bambini vanno ascoltati? Certamente si ma.... 1) se sono minorenni ci sarà un motivo? Non è possibile invocare la loro tutela (perché minorenni) ma ritenerli adulti (perché vanno ascoltati) 2) la legge prevede che le audizioni del minore sono possibile dopo i 12 anni perché prima non sono ritenuti in grado di discernere. E chiedo a tutti i genitori con figli minori di 12 anni: date per assodato ogni cosa che dicono? ogni scelta che fanno? o come genitori decidete voi al posto loro, pur tenendo in considerazione ciò che dicono?
Avrebbero dovuto opporsi? Chi? La madre? La zia? Chi altri? Ancora una volta stiamo cercando di svalutare il lavoro dei servizi sociali, dei tecnici, degli specialisti.... proprio noi che ogni giorno rivendichiamo la peculiarità della nostra professione?
Contrario all'allontanamento coatto? Beh... forse un legislatore o un governo potrebbero esprimere un concetto di questo tipo e provare a fare qualcosa... chiunque altro esprime un'opinione personale e dovrebbe - quantomeno - motivarla e giustificarla.
Ma, a parte le risposte (cortesi, spero) alle domande (o pseudo tali) poste, sono rimasto colpito dall'aggressività e dall'intransigenza di queste affermazioni.
Lungi da me, ovviamente, cercare anche solo lontanamente di giustificare o motivare le immagini trasmesse.
 
Ho però difeso, nella mia vita professionale, due principi che ritengo indiscutibili.
Il primo è che prima di esprimere qualsiasi opinione personale, in situazioni come queste, occorre avere tutte le informazioni a disposizione. Ricordo moltissimi servizi al tg in cui "madri coraggio" denunciavano le angherie dei servizi sociali e dei Tribunali che avevano, secondo loro, ingiustamente portato via i loro figli.
Accorati appelli, pianti e grida, proclami di ingiustizie. Il tutto davanti alle telecamere.
E via che l'opinione pubblica si scatenava contro le assistenti sociali ree di "rubare" i bambini o che accusava i tribunali di ingiuste sentenze. Come se il mondo del sociale fosse composto solo da mostri e gli "utenti" fossero delle povere vittime.
In un caso - addirittura - ho visto un padre incatenato davanti al Tribunale per i Minorenni di Milano con uno striscione in cui denunciava l'ingiustizia subita. Conoscevo il caso di quel ragazzo perché era stata fatta richiesta di inserimento nella comunità in cui lavoravo allora. E naturalmente ciò che lui denunciava era falso, con una evidente omissione di ciò che lui aveva commesso.
Il secondo principio è che di lavoro noi facciamo gli educatori, non i giudici.
Mi sono sempre presentato con questa affermazione a tutti gli utenti perché l'assenza di giudizio aiuta a costruire una relazione educativa più proficua.
Ma soprattutto sono fortemente convinto che giudicare sia il compito di altri. Un compito complesso ed articolato che va gestito con giudizio.
In nome di questi due principi non mi permetto di giudicare quanto accaduto a Padova e mi sorprendo che altri educatori si permettano di farlo, tanto più con i toni che ho sentito.
Tutti hanno diritto ad avere un'opinione personale, ma bisogna fare attenzione alla leggereza con cui la si esprime e al tono che si utilizza.
Il mondo è già pieno di luoghi comuni che impediscono il ragionamento e a volte non solo ostacolano lo svolgersi corretto di operazioni delicate ma addirittura le travisano e le sbattono in prima pagina con il solo obiettivo di ottenere più audience.

D'altra parte, come dicevano due dei miei DeeJay preferiti questa mattina parlando di altro, 
  • tutti i ciclisti si dopano
  • i politici sono tutti ladri e corrotti
  • non esistono più le mezze stagioni.
Luoghi comuni.
Castrazione massima del libero pensiero.
Ma forse mi sbaglio?





P.S. prima di pubblicarlo ho riletto il mio post... Cavolo sono sempre il solito! Controcorrente!!! Chissà in quanti giudicheranno anche me... Me ne farò una ragione!
 

giovedì 11 ottobre 2012

L'ancella di nome "Pedagogia"

Ho segnalato il tuo blog a una prof dell'uni di Padova. Ecco il suo feedback:
"Sono andata a vedere il blog del tuo amico e....mi piace! Sono riflessioni fresche, interroganti e profonde.
Il problema della pedagogia è quello di non avere una sua identità intrinseca e quindi di essere ancella della psicologia, della filosofia e della sociologia, ecc.
Questo mancare di identità è il suo problema più grosso. In questo blog invece la pedagogia ha una sua identità particolare....credo che ogni tanto i pedagogisti (e credimi ne conosco tanti di quelli che scrivono libri altezzosi e lontani dalle problematiche "reali") dovrebbero farsi un giro in un blog come questo (e comprendere come la riflessione teorica può essere al servizio di queste esperienze)."
Buon lavoro

Sembra paradossale che la mancanza d'identità, che è uno dei temi principali del lavoro pedagogico, sia proprio uno dei difetti della Pedagogia.
Essere ancella di altre discipline è una caratteristica ereditaria? Che si porta avanti da secoli?
Sarà per questo che non esiste un albo di pedagogisti? O che il nostro lavoro possa essere fatto da "tutti" - come molte lamentele dei colleghi ricordano ogni giorno -?
La pubblicazione di questo commento non vuole essere un'autocelebrazione, ma - come sempre - il tentativo di innescare una nuova discussione costruttiva.
Parliamo di Pedagogia, ragioniamo sulla Pedagogia, costruiamo la Pedagogia.
Insieme.
 

mercoledì 10 ottobre 2012

Schizofrenia emotiva dell'educatore?

SMS - Messaggi Ricevuti
"Ciao Ale! Ti scrivo per spere come stai e per informarti che con il L. va tutto a meraviglia. L'assistente sociale non si è più fatta sentire (fortunatamente) quindi tutto ok!"
 
Oggi ho ricevuto questo sms, da parte di un padre con cui ho lavorato nell'ultimo anno e mezzo. Situazione super complessa che in partenza, sulla carta, aveva già un destino fallimentare.
Un padre separato con grandi conflitti con la madre di suo figlio e la di lei famiglia (ma anche la "di lui" famiglia). Denunce reciproche, sgarbi, ripicche... mettendo al centro di questo conflitto (come "arma di ricatto") il piccolo di 4 anni.
Un anno e mezzo di mediazione, di consulenze a lui e a lei, di incontri protetti, di sfoghi, di rabbia, di aggressività...
Dopo questo sms l'ho chiamato immediatamente, anche perché avevo già in mente di farlo (telepatia pedagogica?) visto che era passato un mesetto dal nostro ultimo incontro ed era ora di verificare la situazione che stanno tentando di gestire senza l'intervento dei professionisti.
Voce squillante, goia nel tono, mi racconta delle ultime "avventure" del suo piccolo, delle gite, dei week-end che ha trascorso con lui, del "distendersi" (parola grossa) dei rapporti con la sua ex-compagna (che almeno si sono fatti civili ad un livello formale), del lavoro che comincia a ripartire, dei risultati negativi del Ser.T... L'ho sentito proprio bene, felice di farmi sapere che le cose stanno procedendo, che la crisi grossa è passata.
Dopo un anno e mezzo di fatica, di depressione, di visione negativa del futuro, di rabbia e frustrazione verso ogni istituzione percepisco uno spiraglio, la possibilità anche solo di poter pensare che il futuro può regalargli qualcosa di bello.
Nel rapporto con suo figlio e con sé stesso.
 
Il lavoro dell'educatore è faticoso, soprattutto perché non è possibile farlo se non ci si mette in gioco come persone, senza poter prescindere dalle nostre emozioni.
Spesso i risultati del nostro lavoro sono invisibili, a volte visibili ad altri solo molto tempo dopo il nostro intervento, raramente percettibili.
Due giorni fa ero frustrato per un'occasione persa, ieri ero distrutto dal raffreddore e dalla febbre, oggi sono felice per questa bella telefonata.
Schizofrenia emotiva dell'educatore?

lunedì 8 ottobre 2012

Ho perso un'occasione!

Ecco una cosa che mi ha fatto innervosire e mi ha intristito.
Ero a scuola, a fare uno dei miei interventi con uno dei miei ragazzetti. Un suo compagno, abbastanza "casinista", sta facendo il suo solito show. Si tratta della solita dinamica: fa fatica a studiare e a capire ciò che viene spiegato e si difende facendo lo stupido e disturbando.
La prof lo richiama e lo richiama e lo richiama... alla fine si scoccia e si fa portare il libretto delle comunicazioni e gli mette una nota.
Lui si rabbuia e si calma (troppo tardi, purtroppo) e brontola.
Visto che ho un attimo di tempo mi avvicino a lui e cerco di fargli capire che dovrebbe imparare a fermarsi un attimo prima di arrivare al punto di rottura.
Lui mi risponde con una frase raggelante: "Ecco, oggi dovrò discutere con i miei genitori. Sono stufo. Già li sento discutere tra di loro tutti i giorni... Oggi ci sarà una nuova discussione!" e se ne va.
Purtroppo, in quel momento, non ho tempo di parlare con lui perché mi tocca correre dietro al ragazzetto per cui sono lì e perché dopo poco suona la campanella e tutti gli studenti fuggono.
Ho perso un'occasione, perché questo dodicenne mi ha lanciato una richiesta, ha chiaramente espresso un disagio che avrei voluto cogliere.
Ma non ho potuto.
Non sono lì per lui e non posso cogliere questa occasione se il "mio" ragazzetto mi impegna.
Vorrei segnalare la cosa, ma a chi?
Sicuramente ai professori, ma so già che non coglieranno appieno questo grido di aiuto. Per come li conosco e per il ruolo che hanno si occupano principalmente di didattica e disciplina...
Al dirigente? Potrei, ma so già che non avrà tempo per queste cose: è appena arrivato e si sta occupando di tutta la parte organizzativa di quello che per lui è un nuovo istituto da dirigere.
Alla psicologa della scuola? Non c'è...
Mi sento impotente e frustrato perché vorrei che ci fosse uno sportello con un pedagogista in questa scuola, che possa raccogliere queste occasioni che - malvolentieri e controvoglia - non posso accogliere.
Ma non c'è...
Didattica, disciplina, programmi annuali, assenze, mensa... e dove lasciamo il processo di crescita di questi ragazzi?
Già è strano che aprano uno spiraglio, data l'età, ed ancora più difficile è che lo lascino aperto.
La prossima volta che lo incrocio, se ne avrò l'occasione, cercherò di riattivare la comunicazione.
Ma temo che l'occasione ormai sia persa.
E sono frustrato per questo.

domenica 7 ottobre 2012

Diecimila sono 10.000 (anzi: 10.053!)


Il 17 luglio 2012 iniziava questa mia avventura con la pubblicazione del primo post. Ero al mare e, nella mezz'ora al giorno in cui avevo nostalgia del mio lavoro, ho cominciato a scrivere.
Non mi sarei mai aspettato che meno di tre mesi dopo avrei avuto più di diecimila visite.
Precisamente, alle 17.23 di oggi, gli accessi al mio blog sono stati 10.053.
76 post e 146 commenti (compresi i miei) in un luogo dove scrivo e ragiono di educazione e pedagogia.
Evidentemente non ci ragiono da solo.
E di questo ne sono contento, dato che il mio intento era ed è proprio di riuscire a condividere, a scambiare idee e riflessioni.
 
Per me era già un successo quando, meno di un mese dopo il primo post, avevo raggiunto le mille visite. Ma poi la lettura di questo blog ha preso piede.
Oltre ai commenti pubblicati qui, ne ho ricevuti anche di privati, che mi hanno fatto molto piacere.
 
Non posso far altro che esserne contento e continuare in questo mio progetto.
Grazie a tutti voi.

Storie: dove sono le vostre?

Qualche giorno fa Anna mi ha mandato la storia della sua relazione educativa con "Francesco". Plauso al suo coraggio dato che, come dicevo, non è stato semplice per lei.
Nessun altro ha storie da raccontare? C'è qualcuno che, come Anna, vuole dire la sua e condividere con noi la fatica e la genialità del nostro lavoro?
Fatevi avanti.

sabato 6 ottobre 2012

Se la regola c'è

Sono al parco giochi con i gemelli. C'è lo svicolo, le altalene, il castello di legno, le corde per arrampicarsi. E poi c'è un prato enorme, un pallone e gli amici dei gemelli. La partita di calcio scatta in automatico. Non può succesere altrimenti con un pallone, un gruppo di bambini di seconda elementare e un prato.
Mentre giochiamo parte la solita discussione: ci sono bambini che non possono sopportare di perdere e cercano di cambiare le regole in loro favore.
Mentre cerco di gestire la "crisi" (insieme ai genitori degli altri calciatori) si avvicinano due agenti della polizia locale.
Sono imbarazzati. Ci guardano. Uno dei due accenna un "Non si può giocare a pallone in questo parco".
Silenzio. Sconcerto.
Un bimbo comincia a piangere: "Perché non possiamo giocare? L'abbiamo sempre fatto". E giù altre lacrime.
L'altro agente - ancora più imbarazzato di prima - aggiunge un "Mi dispiace, c'è il cartello di divieto... Se nessuno avesse detto nulla... È che qualcuno si è lamentato... E non possiamo fare finta di nulla... C'è il divieto...".
Alle lacrime del primo bimbo si aggiungono quelle dei compagni di partita.
Io, e gli altri genitori con me, ribadisco che se la regola c'è va rispettata. Per me questo momento tragicomico divneta un'occasione educativa. Le regole vanno rispettate, e quale occasione migliore per esprimere questo concetto?
"È una regola stupida!" esclama uno dei miei gemelli.
Quanta verità in queste parole! Come si fa ad impedire di giocare a calcio in un parco giochi?
Ma la regola c'è. Stupida o meno che sia c'è e bisogna rispettarla. Un'altra occasione educativa: se una regola non ci piace bisogna trovare il modo di farla cambiare, ma nel frattempo bisogna rispettarla.
Questo rimando ai miei gemelli, e gli altri genitori sottolineano e confermano il mio messaggio. Meno male.
Una mamma intanto si rivolge ad uno dei due agenti: "Ma come la mettiamo con tutti quei personaggi che in questo parco giochi bevono, bestemmiano e fumano qualsiasi cosa davanti ai nostri bambini?".
Altro imbarazzo da parte dei due agenti. Pare che questa emozione sia la linea di congiungimento di questa situazione paradossale.
Gli agenti non sanno cosa dire, il loro linguaggio non verbale concorda decisamente con quanto detto da questa mamma, ma la loro divisa non può permettere l'espressione di questo concetto.
Per fortuna il buon senso trova una via di fuga: "Il suggerimento che possiamo darvi è di andare dal sindaco ad esprimere le vostre rimostranze, purtroppo il cartello vieta l'uso del pallone ma non l'accesso con bottiglie di vetro o la maleducazione. Quindi noi non possiamo intervenire. Ma se andate dal sindaco magari le regole potranno essere cambiate".
Non voglio disquisire su una città che vieta il gioco del pallone a dei bambini di seconda elementare ma non può intervenire sulla maleducazione degli adolescenti. So che questo secondo problema non è facilmente risolvibile con l'introduzione di semplici regole, è un problema molto più ampio.
Certamente, da educatore non di primo pelo, ho cercato di trasformare una situazione difficile in uno strumento per passare un messaggio educativo.
Oggi ho avuto l'occasione per insegnare ai miei gemellini che le regole vanno rispettate, anche se non ci piacciono. Ma il messaggio più impotante è stato quello successivo: non dobbiamo essere passivi nell'osservanza delle regole, se abbiamo motivazioni serie per affermare e credere che la regola sia sbagliata possiamo cercare di cambiarla, nel rispetto - però - di ciò che altri hanno stabilito fino a che questo non cambierà.
Sembra un messaggio semplicistico, passato a dei bimbi di sette anni (che onestamente hanno fatto molta fatica a digerirlo visto che volevano solo giocare a pallone, come tutti gli altri giorni dopo la scuola) ma - in un periodo in cui in ogni telegiornale le notizie principali sono di politici corrotti che violano le regole ed evasori fiscali che sbandierano il loro egoismo a prescindere dal rispetto degli altri e delle regole civili - mi sembra un buon seme da gettare nel terreno dell'educazione e dell'evoluzione di questi cuccioli.
Magari questa mancata partita di calcio, così sofferta, diventerà un valore sociale acquisito nella formazione di un Super-Io più responsabile e sociale in un futuro prossimo.
Ecco uno dei compiti fondamentali dell'educatore: seminare in modo progettuale con una visione circolare di ciò che accade.
Anche se ritiene assurdo non poter tirare calci ad un pallone in un prato.

giovedì 4 ottobre 2012

L'educatore si interroga...

Parlavo oggi con un'assistente sociale rispetto ad un ragazzino che seguo. Lei ha avuto un incontro di restituzione con un padre nel quale gli rimandava l'andamento generale degli interventi educativi e della situazione familiare, nonché dello stato di benessere dei ragazzi.
L'immagine che tentava di restituire a quest'uomo è di una sua assenza educativa ed emotiva nei confronti di suo figlio.
Una frase mi è rimasta impressa: "Suo figlio è sicuramente un ragazzino in gamba, con tante risorse. E per fortuna ha trovato un educatore su cui appoggiarsi perché tutta la parte che normalmente dovrebbe agire un padre con suo figlio adolescente in questo caso è stata svolta dall'educatore. Non da lei."
Non importa la storia di questo ragazzino o la risposta che il padre ha dato all'operatrice.
Quello che mi ha colpito è la metafora di padre che io sono (secondo i servizi) per M.
Ho ripercorso mentalmente i casi che sto seguendo e le figure di padri con cui mi confronto.
Due bimbi che il papà non lo hanno mai visto né conosciuto; due altri bimbi con un genitore a cui le circostanze o le famiglie non permettono di assolvere al suo ruolo; due adolescenti con un padre assente; un preadolescente con un padre violento e maltrattante; due gemelli con un bravo papà, presente, autorevole ed affettuoso.
Su otto padri solo uno assolve in modo corretto (con limiti e risorse, come tutti) al suo ruolo.
Non voglio parlare della crisi degli uomini in educazione nella nostra epoca, del ruolo che hanno (o non hanno) perché sono temi su cui si è già detto e scritto molto (anche da me).
La riflessione che ho effettuato oggi (sempre in macchina, mentre mi "traslocavo" da un intervento all'altro) è scaturita dalla frase dell'assistente sociale, che ha attribuito a me il ruolo di "padre" di M.
Certamente il suo era un tentativo di smuovere l'uomo che aveva davanti, di dargli una scossa. Ma altrettanto sicuramente in quella frase c'era un fondo di verità.
Non mi sono interrogato sul vissuto di M. e di suo padre.
Mi sono chiesto che tipo di padre sono io e quanto il mio lavoro influisca (positivamente o meno) su questo mio ruolo.
Ho ripercorso le modalità comunicative e comportamentali dei padri con cui lavoro (o con la cui assenza devo fare i conti), i loro agiti, le retroazioni che hanno sui loro figli... e ho cercato di fare un parallelo tra loro e me. Per assonanze e differenze.
Naturalmente non mi paragono a loro: sono utenti, io no.
Ma non ho potuto fare a meno di pensare al tipo di padre che sono con mia figlia: quali pregi e quali difetti ho, quali risorse e quali mancanze mostro, quanta autorevolezza e affettuosità utilizzo.
Mi è piaciuto questo momento intimo con me stesso, durante il quale ho rivisto i baci e gli abbracci con la mia piccola, le nostre "discussioni", i nostri giochi, la sua tristezza quando devo andare a lavorare, la gioia nei suoi occhi quando torno a casa, la gestione della stanchezza, la condivisione (a volte anche "colorita") delle scelta delle modalità educative con mia moglie...
Non è importante il bilancio che ne è scaturito - questo è mio, intimo e personale - ma fondamentale è il fatto che il mio lavoro mi sostiene anche nel mio ruolo di padre. Essere un educatore e un pedagogista fa di me un padre migliore, solo per il fatto che non dò nulla per scontato, che mi interrogo costantemente.
Singolare è però anche un altro aspetto: come mai in questo momento della mia vita mi capitano tanti casi in cui il ruolo del padre è uno dei nodi principali? Si tratta di casualità? Oppure la mia condizione personale mi porta ad avere questo focus come uno di quelli a cui sto più attento? O i servizi riconoscono che il mio essere padre può essere "un'arma" in più nella gestione di questi casi?
Non lo so.

martedì 2 ottobre 2012

Le vostre storie: ecco la prima!

NON APRITE QUELLA PORTA
La storia di "Francesco"
 
Vi racconto il percorso terapeutico di Francesco, 30 anni, segnalatomi dal Ser.t. come utente tossicodipendente da eroina e cocaina.
Ricevo una relazione dalla quale emerge un profilo abbastanza comune per l'ambito in cui lavoro: percorso scolastico interrotto, problemi psichiatrici, difficolta a mantenere un lavoro, qualche precedente penale per reati di poco conto e un rapporto simbiotico con la madre.
Viene descritto come un caso disperato, gli stessi operatori del Ser.t. non credono che riusciremo nemmeno a farlo entrare nella nostra struttura, a fargli varcare quella porta.
Lo contatto e fissiamo un primo appuntamento. Il giorno dell'incontro previsto, mi telefona e chiede di rinviarlo. Incomincio a pensare che gli operatori del Ser.T. abbiano ragione, ma certo non perdo le speranze....quanti sono stati gli appuntamenti saltati nel corso del mio lavoro? Neanche si contano!
Credo che sia passato circa un mese prima di riuscire ad incontrarlo, in questo periodo, lui chiamava e rinviava, chiamava e nuovamente rinviava ma ...chiamava! e questo mi sembrava importante.
Anche se non si presentava, aveva cura di avvisarmi e, dal mio punto di vista, un "embrione" di relazione c'era. Penso a quel meraviglioso trattato di Dela Ranci sulla "Relazione a legame debole".
C'era un sottile filo tra me e lui; perché spezzarlo? Certo, ammetto che qualche volta avrei avuto voglia di dirgli:" Senti caro, quando sei pronto chiama! Io non ho tempo da perdere".
Ma non l'ho mai fatto.
Anche l'equipe mi suggeriva di " sganciarlo" e, nei momenti informali, mi si prendeva in giro per questa sorta di mio " accanimento terapeutico". Lo chiamavano " il mio Francesco"; era chiaro che dietro a quel "mio" ci stava un neon lampeggiante che diceva: "Attenzione Anna, ricorda di mantenere la giusta distanza emotiva".
ln effetti il mio era una sorta di maternage, ma ne ero assolutamente consapevole e non vedevo alternativa pensando alla simbiosi con la madre.
Finalmente Francesco si presenta: timido, impaurito, ansioso, agitato; mi guarda con gli occhi di un bambino. Iniziamo a conoscerci, cerco di fargli sentire che qui nessuno lo giudica, cerco di capire cosa posso fare per aiutarlo e ne parlo con lui. Francesco non ce la fa più, è intossicato ed è stanco, esausto di questa vita. Ha problemi psichiatrici ma non riesce a curarsi a causa della discontinuità con cui assume i farmaci.
Il suo disagio è profondo, si coglie, lo sento sulla mia pelle; Francesco rifiuta qualsiasi programma residenziale perché non vuole separarsi dalla madre e uscire dal suo " nido familiare". E' per questo che è qui, perché la mia è una struttura diurna che gli permetterebbe di tornare a casa la sera.
Si pone un problema grosso: io non lo posso accogliere se non ha almeno un mese di astensione da sostanze illecite.
Gli propongo di entrare nella nostra Pronta Accoglienza: si tratta di un percorso breve, 90 giorni per il dimezzamento e l'inserimento della terapia sostitutiva (metadone).
Francesco rifiuta categoricamente, si arrabbia con me perché l'ho deluso, non gli ho dato quello che lui voleva, non ho capito le sue esigenze.
Esce dalla mia stanza sbattendo la porta ed imprecando.
Rimango sola, in silenzio, aspetto che il cuore smetta di battere così forte; non è la prima volta che accade, quella porta è stata sbattuta un'infinità di volte e ha ricevuto anche qualche pugno; "Dovrei essere abituata", penso, invece accade sempre che mi agito davanti a tanta aggressività.
In quei secondi di blackout emotivo penso a cose idiote, penso a quanto resistente debba essere quella porta! Poi, comincio a riflettere con più serenità e realizzo che quel sottile filo si è spezzato.
Sono dispiaciuta ma relativamente tranquilla, da un lato credo di avergli mostrato disponibilità ad aiutarlo senza prestarmi al gioco manipolatorio, dall'altro mi si insinua il dubbio che i miei colleghi avessero un po' di ragione...
Passa un po' di tempo, ora non ricordo quanto, e Francesco mi telefona, chiede un nuovo appuntamento e, durante questo secondo incontro, mi comunica di voler provare a mantenere l'astinenza stando a casa. Impresa ardua per non dire impossibile; io glielo dico molto apertamente ma decido di lasciargli la possibilità di fare questo tentativo perché sono convinta che difficilmente si potrà fidare di me se non gli do l'opportunità di provare. Stabiliamo di vederci settimanalmente per verificare il raggiungimento dell'obiettivo che si è posto.
Nel frattempo la relazione si costruisce, Francesco inizia a fidarsi di me, si racconta, mi parla di sé e ben presto arriva alla prevedibile conclusione che da solo non ce la può fare. Obiettivo raggiunto! Il mio, non il suo.
Tutto ciò è avvenuto nell'arco di tre mesi circa.
Naturalmente l'equipe non condivide completamente ma mi lascia agire, ovviamente i colleghi non mi risparmiano battute ed io sto al gioco, per fortuna ho un gruppo di colleghi che ama scherzare, l'ironia è un meraviglioso metodo per alleggerirci dalla pesantezza del nostro lavoro.
I colloqui continuano nel tentativo di fargli accettare questi 90 giorni che, ai suoi occhi, appaiono come una condanna all'ergastolo. Al termine di ogni incontro Francesco esce più sereno, sollevato, ed io, invece, sento la pesantezza della sua condizione e delle sue problematiche.
Bene, volete sapere quanto tempo è passato perché si decidesse ad entrare?
Un anno! Un anno di colloqui.
Francesco poi ha portato avanti il percorso nel nostro centro, ovviamente l'ho voluto seguire io, e l'ha concluso positivamente.
Ebbene, sono passati più di 10 anni da quella porta sbattuta, e in tutto questo tempo Francesco è sempre stato bene, si è sposato, lavora stabilmente e ha una splendida bambina.
Ecco, credo che la chiave sia stata il rispetto dei tempi, dei suoi tempi.
L'aver accettato di camminare insieme a lui, cercando di sollecitarlo ma senza forzarlo, accettando che spostasse la sua dipendenza dalle sostanze alla dipendenza dalla struttura, in particolare da me, per poi accompagnarlo verso una maggiore autonomia. Ora ha una "mamma-moglie", ma va bene così. Il loro rapporto funziona in questo modo da parecchi anni ormai.
Adesso i miei colleghi non scherzano più su di lui.
Ora lo posso fare io, lo chiamo " il mio Francesco" sapendo che dietro quel " mio" ci sta solo un semplice sentimento di affetto.
Ecco la prima (e spero non ultima!) delle vostre storie.
Non voglio dilungarmi in ringraziamenti ad Anna, ma sicuramente voglio fare un plauso al suo coraggio. Che non è la prima volta che mi dimostra!
L'oggetto della sua mail è: "Questa è una storia. Non so se è tanto interessante da pubblicarla, ma te la mando. E la lascio nelle tue mani".
Questo per me è un regalo: mi racconta una storia e la lascia nelle mie mani. Con una sorta di implicita dichiarazione: fanne quello che vuoi.
E io la pubblico.
Intanto perché la ritengo interessante, e poi perché mi suggerisce stimoli su cui ragionare.
Una prima premessa: la storia l'ho letta così come la leggete voi. Contestualizzata come Anna ha deciso di contestualizzarla. Non ho altre informazioni né ho posto domande di appronfomento.
Per scelta.
Perché la storia che Anna ha scritto l'ha vissuta solo lei, e nessuna domanda può farla diventare mia.
Scelgo quindi di affrontarla così come mi è stata consegnata, nell'ottica della mia visione auto/eterobiografica.
L'autrice ovviamente si deve sentire libera di aggiungere/togliere/specificare tutto quello che vuole.
Di una cosa deve essere sicura: quella che io commento non sarà più la "sua" storia, ma "una" storia. E la invito a leggere i miei commenti in questo modo: come se fosse la storia di un altro. Anche se so quanto possa essere difficile.
Due sono gli aspetti che mi colpiscono in questo racconto.
Il primo è il ruolo dell'équipe: vi si accenna solo in termini di "dissentono" e di "mi prendono in giro". Leggo, tra le righe, un sorta di solitudine dell'operatore, che prova il coraggio di affrontare una difficoltà ma non sente l'appoggio della sua équipe. Né un accenno di solidarietà, né un suggerimento costruttivo... Solo ironia. Certo l'ironia "nei momenti informali" è un ottimo strumento, perché aiuta gli educatori ad affrontare più serenamente il proprio lavoro. Però non si percepisce (io non percepisco) altro. Sostegno, empatia, supporto...
Ci vuole coraggio (ecco Anna: torna il tema di fondo!) a portare avanti una situazione così difficile in solitudine. Come spesso capita a tanti educatori.
Il secondo aspetto che mi colpisce molto è il concetto di autonomia. Esattamente come me, Anna (e spero anche la sua équipe) vive l'autonomia come "la diversificazione delle dipendenze".
Si tratta di una visione non comune che ho già trattato in altri post precedenti a questo.
Normalmente l'autonomia viene vissuta come "la capacità di fare le cose da solo", in autonomia appunto.
Ma nessuno "fa tutto da solo".
Diventare autonomi significa semplicemente, secondo me, essere consapevoli di quanti e quali gradi di dipendenza condizionano la nostra vita.
Se devo comprare un'auto nuova mi confronto con mio padre (che ne capisce) e con i miei amici.
Se devo intraprendere una nuova avventura lavorativa ne parlo con mia moglie (con la quale devo condividere l'onere della gestione economica della famiglia).
Se mi sento in difficoltà in una situazione cerco il confronto con qualcuno che può consigliarmi, per esperienze precedenti o per similitudini di visione della vita.
Questi sono livelli di dipendenza: più dipendenze (consapevoli) abbiamo nella nostra vita e più siamo autonomi. Perché possiamo scegliere a quale soggetto di dipendenza possiamo relazionarci.
L'autonomia - quindi - è la libertà di scegliere da chi dipendere in ogni situazione.
 
Non so se Anna gradirà la lettura (semplicistica, certo, perché vorrei che altri aggiungessero ulteriori livelli di ragionamento, migliori rispetto al mio) che ho dato alla sua storia (perché è e rimane la sua), ma la invito a vivere questa restituzione semplicemente per quello che è: quando racconti una storia, il tuo ascoltatore la vive soggettivamente, secondo i suoi pregiudizi. E te la restituisce. Offrendoti la possibilità di rileggerla in modo meno soggettivo, più completo.
Grazie Anna per il tuo dono.
Spero che altri seguiranno la tua generosità e mi faranno altri regali.

lunedì 1 ottobre 2012

Faccio l'educatore, non il sarto.

Sono nella classe della "scuola speciale" (quelle che non esistono più, infatti mi sembra di vivere in un telefilm) a dare "supporto" all'inserimento del bimbo che seguo da anni. Con me c'è la maestra e con lui ci sono i suoi cinque "compagni speciali".
Stiamo lavorando sull'autunno: schede da scrivere e colorare, caratteristiche, alfabetizzazione... Due compagni vengono chiamati fuori dall'aula: devono andare a fare la seduta di psicomotricità e di logopedia. Uno dei bimbi - 9 anni e con deliri religiosi - comincia con il suo solito spettacolino. Crede di essere il figlio di Dio, ma non nel senso comune che vede (almeno per i credenti) tutti gli essere umani come Suoi figli. No, lui è Il Figlio, infatti dice di chiamarsi Gesù.
Purtroppo fino a qui niente di strano. Dico purtroppo perché è spesso vittima di questo delirio e mi è già capitato di assistervi.
Ma oggi è molto più agitato, meno contenibile. Non so perché, non c'è il tempo di chiederlo alla maestra che è impegnata a gestire (e monitorare) il piccolo e contemporaneamente cerca di portare avanti il programma didattico-educativo della giornata. La situazione, però, si fa complessa e lei è costretta ad uscire spesso dall'aula perché "Gesù" non ne vuole sapere di stare in classe.
Senza chiedere nulla prendo in mano la situazione dei "sopravvissuti" in aula: gli faccio svolgere il lavoro che gli era stato assegnato dall'insegnante nel modo in cui ho osservato le volte precedenti.
Arriva l'ora di andare a mensa (coincidente con la mia uscita da scuola), il bimbo si calma (dopo aver dato anche un sonoro - visto l'urlo che ne consegue - morso sul braccio della sua maestra) e ci avviamo all'ascensore.
La maestra mi ringrazia e io le rimando che non c'é bisogno, sono lì per quello.
Ma non è vero.
Io sono in quell'aula per facilitare l'inserimento del mio utente.
Ho fatto male a prendere in mano la situazione? Ho commesso un errore sostituendomi all'insegnante? Credo di no.
In primo luogo perché dovevo garantire al mio piccolo - proprio in virtù della mia presenza in quella classe - un contesto "scolastico" entro cui sentirsi adeguato.
Inoltre ho ritenuto che lo stesso obiettivo valesse anche per gli altri compagni.
Ritengo però di non aver avuto tutti gli strumenti necessari per portare avanti la situazione: avrei voluto sapere che tipo di patologia ha il "disturbatore" e che metodologia di intervento si possa utilizzare (quando ha morso la sua insegnante il mio istinto mi diceva "Fai qualcosa!" ma la mia ragione rispondeva "Non fare la cosa sbagliata!"), avrei voluto conoscere l'obiettivo didattico della giornata o anche solo della singola attività, le problematiche e gli obiettivi individuali dei compagni, le regole di contesto, le possibilità di eccezione a queste regole...
Purtroppo non c'è stato il tempo di mettermi a conoscenza di queste informazioni e quindi mi sono dovuto barcamenare.
Perché la direzione non ha condiviso con me informazioni così importanti? Sono comunque presente nell'aula e la mia è decisamente una presenza educativa.
Come mai non mi è stata data l'opportunità di intervenire al meglio avendo tutti gli strumenti a disposizione?
Sono considerato un "ospite" (magari anche poco desiderato) in una struttura così specialistica?
La peculiarità di un educatore deve anche essere quella di saper "improvvisare" in una situazione di crisi, ma l'improvvisazione non rappresenta mai l'eccellenza pedagogica.
Sono rimasto un po' deluso dai miei interventi educatovi di oggi perché so di aver solo messo una pezza.
Ma io faccio l'educatore, non il sarto.