sabato 24 agosto 2013

Educazione + Tecnologia. Un mondo possibile?

Facciamo finta che una persona stia leggiucchiando qua e là su facebook (in un gruppo di educatori, perché questo è quello che sono) e trovi un giovane ragazzo che sta chiedendo un'informazione professionale. E facciamo ancora finta che questa persona sia in possesso di questa informazione e che decida di condividerla nel gruppo, pensando che possa essere utile non solo a chi l'ha richiesta ma anche a qualcun altro che non sa se e quando potrà essergli utile. In una situazione normale qualcuno potrebbe ringraziare, qualcun altro (magari scettico) potrebbe chiedere la fonte di quell'informazione per poterla verificare personalmente qualcuno potrebbe prendere l'informazione senza dire nulla, qualcun altro potrebbe snobbare l'intero post... 
Facciamo invece finta che l'informazione, per quanto vera e verificabile facilmente, non piaccia a qualcuno e che questo qualcuno cominci ad attaccare colui che ha fornito l'informazione rispetto al contenuto di quest'ultima. Ipotizziamo che il soggetto attaccato sottolinei di aver solo proposto l'informazione e non un giudizio di valore su di essa, senza appunto giudicarla "giusta" o "sbagliata". Nella nostra storia inventata potrebbe succedere poi che la persona che non condivide il contenuto dell'informazione se la prenda così tanto con colui che l'ha fornita da bannarlo, segnalandolo al sistema come "commentatore offensivo". 
E così, il povero informatore, si ritrova imbavagliato per 12 ore senza poter più commentare, difendere sé stesso o chiedere spiegazioni. 

Perché il sistema prima ti blocca, poi ti chiede se ritieni di essere stato bloccato ingiustamente e (in caso di risposta affermativa) ti invita ad inoltrare una segnalazione specificando che non è sicuro che venga letta dato l'alto numero di segnalazioni.
E purtroppo questo non è un "facciamo finta" perché mi è accaduto realmente.

Ora: il problema non è quella conversazione, quella persona o quel thread di discussione. Perché le 12 ore sono passate ed io ho facoltà di poter commentare nuovamente, di scegliere se far valere le mie comunicazioni o se tacere per non gettare benzina sul fuoco.
Il problema è la gestione della comunicazione da parte del sistema operativo di un social network utilizzatissimo come Facebook.

Io sono sempre stato un accanito difensore dell'utilità dei social e della veridicità delle comunicazioni che in essi si possono sviluppare, ma questa volta rimango un po' basito di fronte all'accaduto. 
Come dire: una macchina stabilisce chi ha torto e chi ha ragione sulla base di chi effettua per primo la segnalazione? 
E se mentisse?
E se non avesse nessun motivo per stigmatizzare l'interlocutore?
E se volesse consapevolmente ledere un'altra ignara persona?
Come si fa a governare uno strumento se questo stesso ci blocca prima che si possa provare a governarlo?
Non è solo un problema di comunicazione, quanto un problema di educazione.
Perché un processo comunicativo deve essere governato da regole, e queste regole non possono essere di tipo matematico. Non possono rispondere ad una serie di 1 e di 0. Di "lampadina accesa" o "lampadina spenta".

Non è forse venuto il momento in cui educatori e pedagogisti possano (debbano?) mettere mano - insieme ai tecnici informatici - alla progettazione dei sistemi operativi che vengono utilizzati?
I social e la tecnologia in generale stanno diventando sempre più una costante della nostra vita, di quella dei nostri figli, dei nostri educandi.
Credo sia fondamentale educare/educarci ad un corretto utilizzo della tecnologia.
Ma credo anche che la tecnologia stessa debba essere educata al rispetto di corrette regole di comunicazione.
Umane.




martedì 20 agosto 2013

Quando manca un lettone...

La notte appena trascorsa è stata lunga e faticosa. Faceva caldo e le zanzare attaccavano insistentemente, peggio che durante i bombardamenti su Milano della prima guerra mondiale.
Poi arriva la ciliegina sulla torta: "Posso stare qui con voi?". 
Chi mi conosce o ha imparato un poco di me leggendomi sa che mi è impossibile rispondere negativamente a questa domanda. Sorrido, mi posiziono sul bordo più esterno del letto e accolgo la mia piccolina già pregustando la gioia che proverò quando mi sveglierò con lei accanto.
Anche se le zanzare continuano ad attaccare (nonostante il tentativo di sterminio di mia moglie), anche se il caldo (in tre) si fa ancora più opprimente, anche se so già che domani il risveglio sarà faticoso per tutti.
Poi il giorno dopo arriva, e tutte le aspettative notturne si confermano.
Il risveglio è faticoso.
Il caldo mi ha fatto soffrire tutta la notte.
Le punture di zanzare sono evidenti sulla pelle.
Svegliarmi accanto alla mia principessa mi fa cominciare bene la giornata!

Mentre la mia piccola ancora dorme e la mia dolce metà è già andata a lavorare (eh si, qualcuno dovrà pur farlo!) io mi godo il silenzio della casa e il bagno tutto per me. Visto che in una casa con una donna e mezza non succede praticamente mai!
Mentre mi faccio la barba la mente corre e i pensieri si accavallano velocemente.

Proprio ieri, mentre passeggiavo sul lungolago con uno dei miei ragazzetti mostrandogli le foto del mare, è spuntata un'immagine della mia piccolina che se la dorme beatamente (e decisamente di traverso) nel giaciglio di mamma è papà.
"Perché è nel lettone?" mi ha chiesto.
Sembra una domanda semplice, ma non lo è. Perché lui è in comunità e non ha un lettone a cui approdare nelle notti di bisogno.
Il pensiero successivo è naturalmente volato a quando io facevo l'educatore in comunità, a quei cinque anni in cui - invece dei "soliti" adolescenti - ho lavorato nella comunità dei "piccoli". 
Ricordo come se fosse oggi quella "notte prima degli esami" di tanti anni fa. L'esame non era il mio, ma quello di uno dei giovani ospiti della struttura. 
L'agitazione era talmente forte che lo ha spinto ad alzarsi, a superare il timore di entrare di notte nella camera dell'educatore (anche se la porta era - fisicamente e metaforicamente - sempre aperta) e dichiarare apertamente la sua paura. 
Un passo estremamente difficile per un ragazzetto orgoglioso e cocciuto come lui.
Non ho potuto far altro che accoglierlo nel piccolo lettino, aspettare che si addormentasse e trasferirmi sul divano per concludere il sonno.
Lasciandolo ancora solo con le sue paure.

Ecco la mancanza del lettone. 
E dei suoi occupanti.
Non voglio entrare nel merito della discussione se sia educativamente corretto o no far dormire i propri figli nel lettone, o entrare nel merito delle dinamiche di coppia.
Riflettevo semplicemente sul fatto che quando un luogo accogliente manca, le discussioni sono superflue.
Manca e basta.
Il lettone è la metafora dell'abbraccio di mamma e papà, della sicurezza di poter dormire protetto tra le due persone che più ci sono vicine nei primi anni della nostra vita, della tranquillità che non si verrà mai respinti in un momento di paura, di difficoltà, di bisogno o semplicemente di "voglia di coccole".
Il lavoro educativo deve trovare la strada per sopperire a questa carenza?
Certamente si, ma lo può fare solo in minima parte.

Perché un Lettone Educativo, purtroppo, non potrà mai sostituire l'originale.



martedì 13 agosto 2013

La solitudine dei numeri ultimi



"Sono omosessuale. Tutti mi prendono in giro."
Questo l'ultimo messaggio che un quattordicenne ha lasciato al mondo prima di togliersi la vita.
Due frasi. Una self-centered ed una di relazione.

La prima affermazione è una definizione di sé. Lapidaria. 
"Sono omosessuale."
Ma come si può a quattordici anni essere così certi su sé stessi? 
Si badi bene: non sto mettendo in discussione l'orientamento sessuale di quel giovane, le sue certezze raggiunte probabilmente con grandi sofferenze. Mi sto solo chiedendo quanto ineluttabile sia una definizione di sé. Non solo a quattordici anni. 
Parlo in generale.
L'adolescenza è il periodo dei cambiamenti, delle indecisioni, dei tentativi ed errori... Ma è anche l'età dell'intransigenza, del bianco o nero, dell'assenza di mezzi toni o sfumature, del passaggio repentino tra un'emozione e il suo esatto opposto.
Quindi una certezza così forte tutto sommato può starci.

Ma il livello di relazione?
"Tutti mi prendono in giro."
In adolescenza la qualità delle relazioni è fondamentale per il riconoscimento di sé. Un quattordicenne esiste soprattutto in funzione dell'opinione degli altri ed essere preso in giro da tutti è un giudizio di valore che difficilmente si può accettare.
Fuori dall'orientamento sessuale.

Omosessuale, nerd, povero, sfigato, extracomunitario... qualifiche spesso citate dagli adolescenti. Una categorizzazione paradossalmente necessaria al suo opposto: non appartenere a quel sottogruppo significa avere un posto nella normalità. Nel comune livello di accettazione sociale.
Ma cosa è normale nella nostra società? Essere figlio di genitori sposati o separati? Avere gli ultimi Ray-ban rossi con le lenti a specchio o indossare All Star del giusto colore? Essere un campione di PlayStation o sapersi destreggiare alla Wii? Andare in chiesa tutte le domeniche o rimanere in piazzetta? Essere una Belieber o una Directioner?
Gli adolescenti (ma anche gli adulti che convivono con la mancanza dell'I-phone o l'invidia per il Suv del nostro vicino, con la voglia di andare all'aperitivo con gli amici o la necessità della vacanza più cool) hanno bisogno di far parte di una categoria [riconosciuta] per appartenere a sé stessi.
E la ghettizzazione - di qualsiasi genere si tratti - va contro questo bisogno.

Ma non è ghettizzazione appartenere ad un qualsiasi gruppo? Non siamo "diversi" anche se ci riconosciamo in un gruppo? Diversi dagli altri, diversi da quello che gli altri riconoscono in noi.
Una sola certezza mi viene da questa riflessione: che la discriminante viene fatta dal livello di relazione. Io esisto solo in funzione di un Altro-da-me. Questo legame fortissimo (anche se non riconosciuto) viene sempre più amplificato in caso di sua assenza.
Nella solitudine, nella mancanza di relazione è l'individuo che perde sé stesso.
Perché non può riconoscere le sue differenze se non in relazione con l'altro.

La solitudine di quel quattordicenne che si è buttato dalla finestra prescindeva forse dal suo orientamento sessuale?

mercoledì 7 agosto 2013

Bisogni evolutivi

[posa della prima pietra - nuovi progetti crescono]

Chi si occupa di educazione è abituato a ragionare sui bisogni evolutivi dei propri utenti. A prescindere dalla tipologia di utenza: età, sesso, [dis]abilità di ogni tipo, momento di processo della vita...
Ma sempre di utenti si tratta.

A me però, come sempre, piace ribaltare la frittata. 

Oggi infatti mi sono trovato a ragionare sui bisogni evolutivi [miei] degli operatori, degli educatori, dei pedagogisti, dei consulenti pedagogici... Insomma, di tutti coloro che di educazione (ad ogni livello e grado) si occupano. 
Anche noi abbiamo bisogno di evolvere. 
Ma verso dove? In che modo?
In biologia, con il termine evoluzione, si intende il progressivo ed ininterrotto accumularsi di modificazioni successive, fino a manifestare, in un arco di tempo sufficientemente ampio, significativi cambiamenti morfologici, strutturali e funzionali negli organismi viventi. (fonte: wikipedia)
Dove si posizionano, dunque, i bisogni evolutivi?
E quanto tempo occorre perché l'evoluzione [cambiamento] avvenga?
Chi si occupa di educazione è [dovrebbe essere] abituato ai processi di cambiamento, perché ogni progetto educativo che si rispetti ha obiettivi da raggiungere oltre che tempi e strumenti per il loro conseguimento.
L'educazione è però un processo circolare, dove - a prescindere dalle posizioni "asimmetriche" dei soggetti coinvolti - non ci può essere cambiamenti a senso unico.

Oggi il mio bisogno educativo si è concretizzato su una spiaggia lacustre, dove - con una collega - mi sono entusiasmato davanti ad un nuovo progetto che prevede l'evoluzione della nostra professionalità. 
E della nostra figura professionale.
Ribaltando forse la credenza comune che vede educatori e pedagogisti in posizioni differenti? 
Forse.

Perché ognuno ha i suoi bisogni.