giovedì 31 gennaio 2013

La Non-giornata della memoria

Estate 1988. 16 anni compiuti da poco.
Una quindicina di ragazzetti tra i 16 e i 23 anni fanno una vacanza all'estero accompagnati da un uomo di blu vestito che al confine ripone nel cruscotto del furgoncino la sua spilletta dorata a forma di croce e la sua carta d'identità ("professione: sacerdote") per estrare il suo passaporto ("professione: insegnante").
La destinazione è la Polonia, in pellegrinaggio verso un quadro con una donna scura e suo figlio. Anche lui scuro.
Entrambi con l'aureola.
C'è però un'altra tappa in questo viaggio.
Quel giorno, manco fossimo in un romanzo d'appendice, il cielo è di un grigio plumbeo e il gruppo arriva a destinazione. Un parcheggio dove sistemare i due furgoncini e due rotaie che scorrono davanti a noi.
Percorriamo a piedi le rotaie e raggiungiamo un cancello.
"Arbeit macht frei" è la scritta che lo sormonta.
"Il lavoro rende liberi".
Entriamo e la cosa che colpisce di più è il silenzio. Assordante.
Non perché il luogo sia deserto, anzi. Come noi altre persone sono in visita in quel luogo simbolo.

Sono passati 25 anni, ma ho ancora vivido il ricordo di quella giornata.
L'odore di gas mentre passavamo per le "docce", talmemte impregnate di quel tanfo che sembravano non poter esistere senza di esso.
Le mille foto delle torture, così reali da sembrare in 3D più dei migliori film di questa epoca.
Le latrine: delle assi con dei buchi tondi entro cui - nel liquame misto dell'umanità - si nascondevano i bambini per sfuggire alla morte.
Il muro delle fucilazioni dove, con le mie dita, ho toccato i fori (reali! Oh quanto erano reali) dei proiettili che hanno falciato così tante vite.
Ma il ricordo più vivido è stata la catasta degli occhiali. Una montagnetta di circa tre metri di circonferenza per uno di altezza dove erano raggruppati non so quanti occhiali.
 

Ho sempre avuto una mente abbastanza matematica e davanti a quel cumulo il mio cervello si è subito messo in moto.
Nel mio gruppo quanti dei miei amici indossavano gli occhiali? Quattro su sedici. Il 25%. Un quarto.
Quegli occhiali dunque rappresentavano un quarto delle persone che erano morte in quel luogo.
Non ho mai saputo quanti fossero esattamente gli occhiali, sebbene io abbia cercato il numero preciso in ogni targhetta o cartello che trovavo lì intorno.
Ma erano tanti.
Ed erano solo il 25% di quanti erano deceduti.
Solo ad Auschwitz.
Che non era l'unico campo in Europa.
 
Dopo quella giornata non si sono fatti grandi discorsi, non si è parlato di quanto avevamo visto e di cosa aveva provocato in noi.
Un'esperienza traumatica? Non credo.
Educativa? Di certo.
E ho molto apprezzato che il Don, il nostro Don, avesse avuto il coraggio di portarci in quel luogo. E soprattutto ho apprezzato il silenzio con cui ci ha accompagnati.
 
La giornata della memoria è passata da qualche giorno e che cosa ci è rimasto?
Le polemiche per le farneticazioni del sig. B. sulla presunta positività del fascismo?
I continui servizi sui ritardi dei treni che hanno il sapore di un beffardo richiamo ad un periodo in cui solo i treni erano in orario?
Una madre disperata che chiede al Presidente della Repubblica di tirare fuori dai guai il figlio fotografo?
I ricordi che si traformano in dimenticanze?
 
La giornata della memoria ha un senso se stimola la memoria. Ma se lo fa solo in quella giornata il senso lo perde.
È con questa consapevolezza che ho deciso oggi di raccontare la mia memoria. Anche se la quotidianità ci riempie di mille altri pensieri che possono affievolire il ricordo di ciò che è successo decenni fa.
"Il lavoro rende liberi". Mai frase fu più azzeccata. Perché il lavoro ha liberato quelle persone dalla sofferenza. Le ha liberate dall'incubo.
Ma come ogni libertà che si rispetti la si è ottenuta a caro prezzo.
La vita.
 
 
P.S. Onore a quegli "educatori illuminati" dei miei genitori che mi hanno permesso di vivere questa esperienza. E che mi hanno obbligato a dare ripetizioni per tutto l'anno scolastico per potermela pagare.

sabato 26 gennaio 2013

Quale lezione di educazione alla cittadinanza?

Ieri ero a scuola, classe seconda media, lezione di educazione alla cittadinanza.
Una volta si chiamava educazione civica, oggi alla cittadinanza. Non capisco il motivo di questo cambio di definizione ma tant'è.
Sta di fatto che si parlava di organizzazione del governo italiano, della rappresentanza parlamentare e del diritto di voto.
Dico "si parlava" ma intendo "la prof parlava" perché di certo non si trattava di una lezione interattiva. I ragazzi (alcuni di loro perlomeno) al massimo ascoltavano, pochi capivano.
Non perché la docente non fosse brava o competente nella spiegazione. Tutt'altro. Il problema è che la materia era ostica. Quantomeno per dei dodicenni scalmanati.
Ma io ascoltavo.
Sto riscoprendo molte delle spiegazioni che - a 12 anni - mi annoiavano a morte.
Con la maturità raggiunta però mi sto appassionando. Anche grazie alla competenza della professoressa in questione.
Ma sto divagando dunque torniamo al nocciolo della questione.
Si parlava, appunto, dell'elezione della rappresentanza parlamentare. E ad un mese da questo evento io ascoltavo e intanto facevo un parallelo tra la teoria e la pratica.
"Il potere è del popolo che elegge i propri rappresentanti".
Come a dire "non possiamo governare tutti quanti, quindi scegliamo chi rappresenta noi (le nostre idee, i nostri stili di vita, i nostri obiettivi di benessere e di sviluppo) perché governi per nostro conto".
Basta però entrare in un qualsiasi bar o altro luogo di aggregazione e percepire, dai brandelli di conversazione, quanto l'attuale sentimento comune sia distante da questo principio.
Ecco quindi il nocciolo della questione: come si può parlare di educazione alla cittadinanza se la teoria è distante anni luce dalla realtà dei fatti?
Come si può "educare" qualcuno ad un qualcosa che non esiste?
L'esperienza di entrare nel bar e cogliere brandelli di conversazione l'ho fatta proprio poco prima di recarmi a scuola ed assistere a quella lezione.
Il brandello di conversazione era il seguente: "Ha promesso un milione di posti di lavoro. Visto che è un imprenditore se ne avesse creati un decimo di quanti ne aveva promessi tutti avrebbero baciato la terra dove cammina".
Al momento questa frase non mi ha fatto molto effetto. Già sentita tante volte quanti erano i posti di lavoro promessi.
Poi è accaduto un altro fatto: nello stesso bar è entrato un grosso esponente politico. Quando dico "grosso" intendo di quelli che non passano inosservati perchè fa parte di quei cinque o sei personaggi che sono riconoscibili veramente da chiunque.
E li chiamo "personaggi" per un motivo ben preciso: finché li si vede nei telegiornali, nei talk show o nei programmi di ogni ordine e grado sono "a due dimensioni", privi di profondità, quasi "astratti" nel loro proporsi. All'interno del bar ho però visto l'uomo, non il personaggio. Era decisamente tridimensionale, concreto, tangibile.
Ed era vecchio!
Non per la sua età anagrafica o per la distanza tra le idee da lui proposte e le mie.
Vecchio perché mi sembrava un uomo stanco, l'ombra di sé stesso. O meglio: di quel "sé stesso" che ci è stato proposto dai mass media e dalla sua propaganda elettorale.
Ma probabilmente vi sto annoiando.
O quanto meno vi starete chiedendo quale sia il nesso tra questo aneddoto e il tema del discorso.
Ebbene, eccolo!
I tre fatti messi insieme (la lezione di educazione alla cittadinanza, il brandello di conversazione e l'incontro fortuito con l'esponente politico) mi hanno fatto riflettere sull'assurdità della situazione.
Educare i giovani al tema dell'elezione della rappresentanza popolare?
Bislacco.
È l'unico termine che mi viene in mente.
Ho compreso perché - tra i tanti motivi che già avevo in mente - ad un dodicenne non interessava quella lezione.
Perché suonava falsa alle mie stesse orecchie, figuriamoci alle sue.
Come si può pensare di educare le nuove generazioni a qualcosa che di per sé non dà più fiducia a nessuno? Come è possibile sostenere un sistema che in questo momento sembra fallace anche al mondo adulto?
Ovviamente ritengo che rimanga fondamentale trasferire i principi su cui si basa la nostra Repubblica.
Principi che sono ancora validi e condivisibili, ma che faticano a trovare una loro rappresentazione nell'agito concreto e quotidiano.
La scuola - una delle principali agenzie educative - dovrebbe educare non solo alle conoscenze, ma anche allenare allo spirito critico dei giovani. Ma la scuola non può sopperire alle carenze di altre agenzie che sono necessariamente educative.
Il mondo della politica, teorico sunto della volontà popolare, deve assumersi il compito di rappresentare la legalità, l'etica, i valori su cui si deve fondare la società civile.
E solo questo potrà davvero essere educativo.

venerdì 18 gennaio 2013

Per sempre?

Credo che quando mia figlia mi dice "Tu sarai il mio papino per sempre" dica una verità assoluta.
Ma credo che dovrò fare i conti col fatto che il contrario non sarà sempre vero.
 
Ripenso ai miei genitori. Quando ero piccolo per me erano il centro dell'universo. Non poteva esserci altro. Dipendevo completamente da loro.
Poi sono cresciuto.
Sono diventato autonomo.
Ma cos'è l'autonomia?
Molti risponderebbero che l'autonomia è "la capacità di cavarsela, di fare tutto da soli".
Perché più si cresce e più si acquisiscono strumenti, abilità e opzioni di scelta.
Ma chi di noi è davvero in grado di fare tutto da soli?
Credo nessuno.
L'autonomia è un processo di diversificazione delle dipendenze.
Da piccoli dipendiamo da pochi, da adulti dipendiamo da molti.
Se devo cambiare auto chiedo consiglio al meccanico o a qualche amico che si intende di motori.
Se devo fare una scelta lavorativa mi confronto con mia moglie.
Se voglio acquistare un libro domando opinioni a chi l'ha già letto.
Certo, la scelta finale spetta a me. Ma non posso prescindere dalle opinioni e dai bisogni di chi mi sta intorno.
Perché la dipendenza è reciproca, ed è l'altra faccia della medaglia della responsabilità.
 
Oggi mia figlia dipende esclusivamente da me e dalla sua mamma. Non solo per gli aspetti più pratici, ma soprattutto sul lato emotivo.
Poi crescerà. Avrà amici, fidanzati (speriamo non troppi!) e - prima o dopo - un compagno/marito. Infine (probabilmente) dei figli.
E allora non sarà più mia, nostra.
Allora, come accade a me ora, sarà lei a pensare a ciò che oggi fa riflettere me.
 
Credo che lo stesso valga anche per i nostri educandi: in modo certamente professionale (e non naturale) creano delle relazioni con noi, dipendono da noi.
Ma gli obiettivi del nostro lavoro saranno pienamente raggiunti solo quando loro non avranno più bisogno di noi.
O - almeno - quando non ne avranno una necessità esclusiva. Una dipendenza esclusiva.
Quando cioè saranno autonomi.
Il processo di crescita non è faticoso solo per coloro che lo percorrono, ma anche per chi questo processo lo facilita.
Anche per noi educatori. Professionali o naturali che siamo.
 
 
E... se hai bisogno
e non mi trovi
cercami in un sogno
V.Rossi
 
 


domenica 13 gennaio 2013

Credo!

 
"Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che viene a prendere l'affitto ogni primo del mese. Credo che ognuno di noi si meriterebbe di avere una madre e un padre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi. Credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa. Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio. Credo che se mai avrò una famiglia sarà dura tirare avanti con trecento mila al mese, però credo anche che se non leccherò culi come fa il mio caporeparto difficilmente cambieranno le cose. Credo che c'ho un buco grosso dentro, ma anche che, il rock n'roll, qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stro**ate con gli amici ogni tanto questo buco me lo riempiono. Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddie Merckx. Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un ca**o della vita degli altri."
 
dal film "Radio Freccia" di Ligabue (Luciano Ligabue)
Ecco arrivati al post #100... sembra l'altro ieri quando ho cominciato a scrivere, quando mi sono lanciato in questa avventura...
E quando si arriva a determinato traguardi - piccoli o grandi che siano - è importante fare dei bilanci.
Che non sempre devono essere quantitativi, ma anche qualitativi.
Ed ecco allora quello che io - in questo momento - credo:
 
... Credo che la scrittura sia un percorso per me importante, che mi permette di entrare in contatto con le persone ma - soprattutto - con me stesso.
Credo che in questo periodo storico la politica, l'economia, la religione mi hanno stancato perché sono semplicemente delle gabbie entro cui far stare la gente, per evitare che utilizzino il loro cervello.
Credo che vivere sia bello e che valga la pena, anche davanti ad ogni difficoltà, ricordarsi che abbiamo ricevuto un dono. E che i doni non vanno mai sprecati.
Credo che svegliarsi ogni mattina incavolato perché non ho voglia di andare a lavorare sia un lusso che non posso e non voglio perdere, perché anche la fatica di uscire dal letto è sempre meglio che non avere un motivo per alzarsi.
Credo che alcune volte la filosofia e la ricerca spasmodica del significato siano un'esagerazione e che sia meglio semplificare, prendere le cose come vengono e non esagerare nella ricerca. Ma solo alcune volte.
Credo che spesso la verità sia davanti ai nostri occhi, ma che siamo troppo impegnati a cercarla per trovarla veramente.
Credo che aiutare chi sta peggio di noi sia importante, ma credo anche che salutare il proprio vicino di casa e vivere in pace con lui sia fondamentale.
Credo che l'uomo sia destinato semplicemente a stare meglio, che i corsi e i ricorsi storici altro non sono che un modo per andare avanti, perché quella lezione non è ancora stata imparata dall'umanità e allora bisogna rifare il giro di giostra.
Credo che il signor B. (+L), il signor M. e il signor B. (-L) e tutti i loro compari dovrebbero andare a lavorare in un call center: lì si che potrebbero utilizzare le loro capacità comunicative per convincere le persone. E allora forse l'economia comincerebbe a girare. Posto che qualcuno abbia ancora i soldi per farla girare 'sta economia.
Credo che ognuno di noi abbia bisogno di trovare dei punti di riferimento, ma credo che essere un punto di riferimento sia una responsabilità che bisogna saper gestire.
Credo che dare sempre colpa alla società sia un modo per deresponsabilizzarci, ma si tratta solo di un boomerang perché la società siamo noi. E non possiamo sfuggire da noi stessi. Possiamo solo rimboccarci le maniche e lavorare per migliorare la situazione.
Credo che guardare negli occhi mia figlia e vedere che anche lei mi guarda nello stesso modo sia il vero significato delle mie giornate, perché a volte le parole non servono. Basta una carezza, un bacino, un sorriso o un abbraccio e sei in pace con il mondo, quindi con te stesso... E questo è impossibile da scrivere o da descrivere.
Credo che pochi riusciranno a capire il senso di questo post, ma credo che il senso di questo post sia principalmente per me: il #100 è il mio. Chi vuole condividere lo faccia, chi non vuole aspetti il #101.
 

venerdì 11 gennaio 2013

L'altra faccia della medaglia

Uno dei miei ragazzetti oggi mi ha tirato fuori dagli stracci.
Non ha fatto nulla di particolare: ha solo toccato corde che era meglio evitare.
Non l'ha fatto apposta.
È cascato dentro ad una trappola che lui stesso aveva - inconsapevolente - architettato.

Poi leggo una (feroce) discussione in un gruppo di professionisti.
Si parte da un argomento proposto da una terza persona. Su un tema non di fondamentale importanza.
Però poi i toni si alzano.

E mi vengono in mente le discussioni tra coniugi. Dove ognuno dei soggetti parte dal suo presupposto, difende la propria posizione ma - soprattutto - il proprio ruolo all'interno della relazione.
 
L'equilibrio non è mai semplice, tanto più perché non si tratta quasi mai solo di contenuti.
Ma di difendere la propria posizione nel processo comunicativo-relazionale.
Attraverso la richiesta di riconoscimento di ciò che proponiamo chiediamo, parallelamente ma in modo prioritario, il riconoscimento di noi stessi, tramite la personificazione della nostra posizione.
La teoria psico-pedagogica però non è prassi educativo-relazionale.
Per quanto io mi sia sforzato oggi di non cadere nella trappola ordita dal mio ragazzetto, non ci sono riuscito.
Per quanto le due professioniste - dopo mille riflessioni sulla difficoltà di dialogare correttamente e in modo costruttivo nel mondo virtuale dove mancano comunicazione para e nonverbale - abbiano tentato di non azzuffarsi, hanno fallito.
Per quanto le coppie vivano felici (spesso), sistematicamente si azzannano.
Per quanto...

Qual è la questione?
Le trappole comunicative?
Direi di no.
Piuttosto le corde da cui stare lontani.
Perché per quanta professionalità si possa avere ci sono degli argomenti che ci toccano più da vicino, dei temi che per noi sono più scottanti, dei nervi che sono (e rimangono) scoperti.
E non c'è vaccino professionale che tenga.
Non c'è copertura o viatico che ci possa aiutare.
Come quando abbiamo mal di schiena e altro non possiamo fare che trovare una posizione comoda (o non completamemte scomoda) che ci faccia soffrire un po' meno.
Ma, come nel mal di schiena, è solo l'esperienza che ci può aiutare: i precedenti tentivi falliti che ci indicano la strada per provare meno dolore, per evitare che la manipolazione del nervo scoperto sia letale.
Le provocazioni (consapevoli o meno che siano) sono quotidiane nella nostra professione.
La difficoltà è affrontarle senza che ci annientino.
Ribadisco sempre (e magari risulto pedante nel farlo) che l'educatore è prima di tutto un essere umano e questa caratteristica, oltre ad essere il suo miglior pregio, è anche il suo peggior difetto.
L'altra faccia della medaglia.

domenica 6 gennaio 2013

Davanti allo specchio

Basta!
Adesso veramente, basta!
La discussione si sta rivelando noisa, ripetitiva e sterile!
Scusate lo sfogo emotivo ma sto seguendo questo argomento sui gruppi di educatori di Facebook e ne ho piene le tasche.
Ieri sera la goccia che ha fatto traboccare il vaso!
Leggo su Facebook la pubblicazione di una lettera di un padre la cui figlia è stata "sfruttata" dalle cooperative ("Mia figlia, educatrice, sfruttata da una cooperativa sociale").
E giù con le invettive!
Però ieri sera ho partecipato alla discussione e ho detto la mia.
 
Come ridurre un problema reale in una battaglia contro i mulini a vento. Scusate ma mi sembra la fiera dell'ovvio dove la coop è il "diavolo incarnato" che fagocita, mastica e rigurgita poveri, sani, formati e capaci educatori. Non dico che queste realtà non esistano, ma solo che la generalizzazione è la madre dell'ingiustizia. Fate nomi e cognomi o - per favore - evitate di buttare fango su tutti indiscriminatamente. Leggo sempre questi articoli, ma la solfa è sempre la stessa e - onestamente - mi ha un po' stancato perché la ritengo sterile e improduttiva. Scusate lo sfogo ma nella mia accezione l'educatore dovrebbe essere colui che si adopera per la ricerca di soluzione di un problema e non - come sempre più spesso accade - un soggetto che si piange addosso scaricando responsabilità a destra e a sinistra. Appoggio coloro che rischiano di perdere il lavoro per colpa di un sistema che non funziona come dovrebbe, ma mi dissocio da chi si nasconde dietro un titolo di studio che certamente non garantisce una qualità professionale in automatico.
Basta lamentarsi sterilmente o inneggiare alla rivoluzione proletaria (con l'obiettivo, peraltro, di veder aumentato il proprio salario). Tutti vorremmo lavorare meglio e meglio-pagati. Cominciamo ad eliminare i rami secchi, cioè coloro che questo lavoro NON lo sanno fare, invece di difendere la categoria tutta indiscriminatamente. Proviamo a batterci perché il percorso universitario sia selettivo (non solo a livello di test d'ingresso ma attraverso tirocinii reali e significativi) ed escluda coloro che per questo lavoro non sono portati. Abbiamo il coraggio di valutare oggettivamente l'operato degli educatori? Allora la nostra professione (forse) vedrà una nuova luce e verrà riconosciuta. Io non so fare l'elettricista: sono consapevole di ciò ed è giusto che io non lo faccia!

Non voglio ripetere i concetti già espressi sul social network ma mi piacerebbe proseguire qui la riflessione, in uno spazio più mio dove (oggettivamente) posso anche dilungarmi un po', senza annoiare altri magari non interessati.
 
Intanto: perché esprimere queste idee proprio ora?
Per un motivo semplice: leggevo qualche giorno fa su un "blog amico" che è ora di diventare un po' più "rivoluzionari" in educazione, che troppo spesso si dicono banalità, pomposità e pedanterie.
E cosa c'è di più rivoluzionario che affermare che "la professione educativa non è di tutti"?
 
Nella mia esperienza professionale ho visto educatori che davanti ad adolescenti che fumavano in camera (contravvenendo ad un ovvio divieto) giravano la testa dall'altra parte affermando "non mi sono accorto..."; ho incontrato colleghi che passavano tutto il loro turno in ufficio al computer a scrivere chissà quali fondamentali ed urgentissime relazioni (in ogni turno???) lasciando i ragazzi in giro senza meta nè obiettivo; ho sopportato operatori che affrontavano la loro giornata lavorativa presentandosi in struttura con due quotidiani e una rivista; ho trovato insegnanti che mal sopportavano i loro alunni (dalla scuola materna a salire, per ogni ordine e grado); ho letto curricula di neo-laureati in cui presentavano le loro "esperienze lavorative" (che altro non erano che i tirocinii universitari) e che al colloquio ponevano loro le condizioni lavorative (le notti? no grazie. i turni festivi? no grazie. lavorare senza compresenza? no grazie. avere contatti diretti con l'utenza? no grazie.); ho incontrato educatrici che si presentavano in un nido per fare un colloquio di lavoro e non degnavano di uno sguardo i bambini che gironzolavano lì intorno; ho conosciuto giovani rampanti freschi di università che mi dicevano "io sono laureato, voglio fare il coordinatore!"...
 
Insomma... ho visto cose che voi umani... sicuramente avrete visto tanto quanto me!
 
Ecco perché il mio sdegno quando leggo della difesa della professione, della rivendicazione di riconoscimento sociale ed economico, delle cooperative "cattive" che sfruttano e maltrattano gli operatori.
Ma avete mai sentito un docente universitario dire ad uno studente: "Guarda, mi spiace, ma questo lavoro non fa per te. Prova un'altra strada"?
Io mai.
Eppure ogni volta che mi presentavo agli esami universitari osservavo il panorama umano che mi circondava e registravo discorsi, commenti, riflessioni... e mi rendevo conto di quanto alcuni fossero proprio fuori luogo, nel senso di un luogo che non gli appareteneva.
 
Ci siamo mai chiesti perché gli psicologi finiscano per fare gli educatori?
Io si: perché le università sfornano psicologi a go-go e il mercato è saturo (e, a volte, perché gli psicologi - dopo la laurea - si accorgono di aver scelto il corso di studi sbagliato).
E intanto a Roma non trovano ragazzi che abbiano voglia di fare i panettieri!!!
 
Forse la vera rivoluzione è finalmente ammettere e dichiarare che la professione educativa non è di tutti, che un titolo di studio non fa un educatore.
Certo: lo studio è importante, ma lo è altrettanto l'esperienza professionale, la formazione continua e la supervisione.
Come diceva su Facebook un collega "Prima di farsi rispettare, essere rispettabili?".
 
Non è un albo professionale che restituisce valore al nostro operato.
Non è (solo) un titolo di studio che fa di noi degli educatori.
Non basta piangersi addosso perché la nostra condizione professionale migliori.
Non funziona unirsi senza nessuna discriminante contro un "nemico" comune.
 
Il nemico comune - credo - siamo proprio noi stessi.
 
 


 

mercoledì 2 gennaio 2013

La cassettiera pedagogica

"Che ne è stato dei miei pazienti dopo che si sono congedati da me? La terapia ha veramente cambiato le loro vite? Come sono finite le loro storie?"
Questa è la fondamentale domanda che si è posto il celebre psicoanalista newyorkese Robert Akeret dopo trentacinque anni di attività professionale raccontandolo nel libro "L'uomo che si innamorò di un orso bianco" (1998)
 
Quante storie si intrecciano alla nostra durante la vita professionale?
Decisamente tante e affrontiamo ognuna di esse con grande impegno, progettualità, sacrificio, analisi ed autoanalisi... Ma poi succede che l'intreccio di queste storie con la nostra si interrompe.
Per diversi motivi.
Qualche volta perché un minore raggiunge la maggiore età, o quando un utente viene dimesso dal servizio in cui lavoriamo, oppure perché siamo noi a lasciare quel servizio per trasferirci verso altri lidi professionali, talvolta quando i progetti non hanno più ragione di essere (ebbene si! a volte capita che gli obiettivi vengano raggiunti e non ci sia più bisogno di noi) e altre se la burocrazia cambia (una variazione di residenza o una legge diversa che avvicina/allontana qualcuno dal luogo in cui è).
E cosa capita all'educatore?
Incontra nuove storie, altri intrecci, ulteriori necessità di investimento emotivo e di tempo.

Ma che fine fanno gli utenti? Come vanno avanti le loro vite? Che cosa sarà cambiato in loro o intorno a loro dopo il nostro intervento?
Le persone che incontriamo non sono solo una parentesi lunga o corta della nostra vita professionale, sono vita loro stessi.
Sempre più spesso nei miei momenti di riflessioni ragiono sull'importanza del feed back rispetto agli interventi educativi che svolgo, sia come "chiusura del cerchio" (cioè per sapere che fine hanno fatto le persone) che come momento di autovalutazione e verifica del mio operato.
Attualmente però non esistono progetti di follow up individuali sugli utenti che noi seguiamo perché le condizioni economiche ed organizzative del welfare non prevedono momenti strutturati di équipe di valutazione dopo un periodo prestabilito di tempo dal termine dell'intervento.
Raramente questi momenti ci sono sui servizi, ma mai sui singoli utenti.
Tutto troppo costoso?
O semplicemente non ritenuto importante?

Questa rifelssione mi rimanda l'immagine di una cassettiera: ogni storia è all'interno di un cassetto che ad un certo punto però viene chiuso, perché è necessario (o obbligatorio) aprirne un altro.
E che fine fa il contenuto del cassetto precedente? Rimane dentro, certo.
Ma nessuno di noi ha il tempo di andare a riaprirlo. Per vedere se sia ancora "ordinato" come lo avevamo lasciato o se ci sia ancora una (nuova o uguale) "confusione".
E quand'anche si riuscisse ad aprirne uno, come si può fare con gli altri? Con tutti i cassetti della nostra cassettiera?
Mi sembra la parte meno "umana" della nostra professione perchè involontariamente dimentichiamo che dietro all'utente c'è la persona.
Che dietro al disagio c'è altro.
E questo è un aspetto che un educatore cerca di evitare il più possibile. Come la peste.
Diventiamo come i medici davanti alla patologia?  Ci concentriamo sul qui ed ora (del disagio e del conseguente intervento) senza preoccuparci di ciò che succede dopo (cioè di come e quanto l'intervento è stato positivo sul lungo termine)?
Di come cresce e viene coltivato ciò che abbiamo seminato?

Si tratta di una necessità insuperabile o di una mancanza di restituzione del valore del lavoro svolto?
Rappresenta un bisogno solo mio o anche di altri colleghi?