sabato 25 maggio 2013

Quando la normalità diventa a-normalità


Questo mese sono vent'anni che faccio l'educatore.
Da due decenni opero nell'area del disagio.
Ho passato metà della mia vita in mezzo alle difficoltà (mie e altrui) cercando un modo per superarle, per uscirne, o quantomeno per non soccombervi.
Mi è venuta quindi una sorta di deformazione professionale. O l'antennina come la chiamo io.
Sono così abituato a scorgere e affrontare il disagio che ormai è lui stesso che viene da me.
Se sono in spiaggia posso star certo che il mio vicino di ombrellone mi racconterà del suo matrimonio infelice e della conseguente separazione conflittuale.
Se vado al supermercato so per certo che, carrelli in coda, mi toccherà sentire dei disturbi di apprendimento dei figli di chi mi sta davanti.
Se esco a cena con 'amici di amici' finirò la serata davanti ad un bicchiere di qualcosa parlando con qualcuno che mi racconta della sua infanzia travagliata.
Ormai lo so, è così che funziona.


Ma dopo vent'anni riesco ancora a stupirmi.
Di me stesso.
Ma soprattutto del mondo.
È da un paio di settimane che mi sono imbarcato in una nuova avventura personal-professionale.
Un gruppo di adolescenti.
Di quelli "normali" per chi (come me) è fin troppo abituato al disagio.
Non si tratta di puzza sotto il naso o di categorizzare. Sto semplicemente cercando di spiegare ciò che vivo.
È difficile definire ciò che è normale soprattutto per chi - come me - è abituato a considerare l'altro da me (il diverso) come una risorsa, come un qualcuno di cui non avere paura ma - anzi - da cui trarre conoscenza, insegnamento.

Chi è abituato ad un certo linguaggio, ad un determinato gergo tecnico che utilizza quotidianamente nella sua professione fatica ad esprimere concetti utilizzando un dizionario differente.
O forse - più semplicemente - è così abituato ad uno schema mentale che fatica ad uscirne.
Come tutti, peraltro.
Cerco allora di usare un linguaggio semplice, quello che potrebbe utilizzare la signora che abita due porte più in là.

Da un paio di settimane ho a che fare con un gruppo di adolescenti normali e mi sono stupito della loro normalità.
Ho riscoperto le risate fine a sé stesse, la possibilità di allontanarmi da loro un quarto d'ora senza dovermi preoccupare delle possibili conseguenze, la bellezza di proporre delle attività e vedere nei loro occhi l'entusiasmo e non la critica o il sospetto, mangiare insieme una pizza e bearmi del loro alzarsi per sparecchiare e riordinare a prescindere dalle mie indicazioni.

Può sembrare che la mia vita professionale sia deludente o massacrante.
Non è così.
È costellata da disagi gravi associati a sistemi familiari multiproblematici in situazioni sociali spesso al limite.
Per questo mi sto beando di questa esperienza differente dalla mia quotidianità, di questa parentesi nella normalità.

Dove mi sembra di imparare più che di insegnare.

So che la normalità non esiste. Che è una categoria insensata.
Ma mi piace godere di questa parentesi differente dalla mia quotidianità professionale.
Una nicchia "anormale" nella mia "normalità"?

mercoledì 15 maggio 2013

Forurensning av språk (contaminazione di linguaggi [trad.])

Fino a quando uno parla la sua lingua è sicuro di essere compreso.
Poi ci sono le volte in cui non parli proprio lo stesso linguaggio del tuo interlocutore, ma ci si capisce ugualmente. I gesti, la comunicazione non verbale, gli sguardi, le espressioni del viso aiutano.
Un dialetto, un'assonanza.
Ma la vita non è sempre così semplice.

Capita che devi dialogare con qualcuno che la tua lingua non solo non la conosce, ma nemmeno gli interessa impararla.
E allora dipende dall'obiettivo che vuoi raggiungere.
Certo: se sei in vacanza in Burundi e parli con un Burundese (chissà se si chiamano così?) che non è interessato a conoscere né imparare la tua lingua (o quella internazionale) sopravvivi comunque. 
Sorridi, lasci stare, ti rivolgi altrove, a qualcun altro.
Ma proviamo ad immaginare che il nostro Burundese debba fare qualcosa per noi che sia "questione di vita o di morte".
Che siamo obbligati a comunicare con lui. 
Che non possiamo farne a meno...

Oggi non ho parlato con un Burundese ma mi capita - in questo periodo - di dover dialogare con soggetti che non parlano la mia lingua. E che non sono interessati nemmeno ad impararla.
Mi capita, mi capita spesso.
Per un Educatore è normale dover tradurre il proprio linguaggio in Scolastichese o in Psicologese o in Adultese.
Perché questi sono i contesti in cui normalmente si lavora.
Occorre quindi riuscire a tradurre il proprio messaggio in modo che l'Altro [da me] possa comprendere.
Un professore che riesca ad uscire da una logica di Didattica per entrare in un mondo Progettuale.
Uno psicologo che riesca a cogliere la parte sana dell'oggetto della conversazione e non per forza la parte malata.
Un genitore che riesca a superare la propria emotività ed il proprio egocentrismo per concentrarsi su qualcosa di diverso dall'immagine fantastica che ha del proprio figlio.

Ma c'era un mondo con il quale (professionalmente) non mi ero ancora confrontato. Che non avevo ancora cercato di contaminare.
Non voglio svelare quale sia.
Non è importante.
Ciò che è importante è che devo fare uno sforzo per riuscire a comunicare, per farmi comprendere.
E non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Ma l'obiettivo da raggiungere va oltre il fastidio, oltre l'orgoglio, oltre la modalità comunicativa.
Un bravo educatore deve riuscire, in un modo o nell'altro, ad imparare il linguaggio altrui, farlo proprio e comunicare.
Ne va del suo lavoro.
Dell'obiettivo.

Anche se la Torre di Babele è proprio una loro invenzione.


mercoledì 8 maggio 2013

Padri imperfetti, ma padri [reloaded]

Ripropongo qui un guest-post che ho pubblicato su Ibrido Digitale nel mese di febbraio scorso. 
Mi spiacerebbe che qualcuno se lo fosse perso. 
Su Ibrido Digitale potete trovare i commenti che questo post ha scaturito e anche diversi blog di genitori che si interrogano sull'educazione dei propri figli.
Ibrido Digitale è un personaggio interessante: [come anche lui scrive nell'intro del guest-post] l'ho conosciuto in rete e sono rimasto affascinato dal suo essere padre in modo assolutamente distante dal mio. Nonostante sia una padre "solo naturale" (si occupa di ben altro e potete ben vederlo dal suo blog) parla di educazione quasi a livello professionale.
E questo è strano già di per sé.
Inoltre fa il padre nel modo in cui lo intendo io. E anche questo a volte pare strano.
Ma speriamo che sia così ancora per poco.

[Ammesso che lo sia ancora]


Padre e figlio in completo relax (foto by Klaus Tiedge)

Ho conosciuto Alessandro Curti in rete, mi ha colpito l'affinità di pensiero e la non disponibilità a rinunciare al ruolo che la famiglia richiede ad uomo padre, ma oltre a questo ho voluto trattare questo tema per mezzo di un addetto ai lavori, infatti oltre ad essere marito e papà, ricopre il ruolo di educatore  Coordinatore presso "Il Filo di Arianna - Società Cooperativa Sociale"





Questa strana fissa sulla paternità mi è venuta un giorno di gennaio di sette anni fa.


Non ricordo che giorno della settimana fosse, se fosse soleggiato o nuvoloso, o che vestito indossassi. Ma rammento, come se fosse oggi, che tornai dal lavoro e la mia compagna mi consegnò un pacchettino.

"Strano" mi venne da pensare, perché lei non è certo una donna dai doni inaspettati. Ma un regalo è sempre gradito e così lo scartai.

Mi ritrovai davanti ad uno strano aggeggio bianco e rosa, simile ad un termometro elettronico, con due righette rosa parallele.
Mi sento un po' idiota ad ammetterlo, ma ci ho messo decisamente più di qualche secondo per capire.
Poi però ci sono arrivato e, con una scossa elettrica fino a terminazioni nervose che nemmeno sapevo di avere, ho realizzato che stavo diventando padre.

Chiariamo alcuni punti perché non sembri che la notizia mi abbia colto impreparato.
Intanto la stavamo cercando, anche se tutti gli amici con cui avevamo parlato raccontavano di lunghe attese e molteplici tentativi.
In secondo luogo, per professione, ho sempre rivestito un ruolo educativo maschile (in un mondo di cura e assistenza in cui la presenza femminile è in percentuali altissime) ed ero quindi abituato ad assumermi la responsabilità dell'educazione di altri.
Ma quando scopri che stai diventando padre... è come nei cartoni animati, quando il pianoforte cade dal centesimo piano e si schianta sulla testa del protagonista.

O almeno così è stato per me.

Da allora la mia privata è stata ribaltata come un calzino, ma mi sono reso conto che anche quella professionale è variata parecchio.
Non so se per caso o che altro, ma negli ultimi anni mi è capitato di lavorare con tanti padri e i loro figli.
Padri abbandonati, abbandonici, conflittuali, poveri di risorse, aggressivi, incattiviti, estremamente deboli, volenterosi, imbranati, impauriti...
O addirittura con padri invisibili, la cui assenza ha però un peso tale che sarebbe meglio fossero presenti.
Come la scoperta dell'acqua calda.
Vista la concomitanza delle due situazioni – quella privata e quella personale – ho cominciato a leggere, studiare, approfondire, indagare le diverse posizioni psicopedagogoche sul ruolo del padre e sull'evoluzione sociale di questo ruolo.
Tante sono state le definizioni che ho sentito affibbiare ai padri della nostra generazione, fino a quella che ritengo la peggiore (anche se per la società sembra essere un complimento) cioè "mammo".
Ma nel confronto con i padri reali che ho incontrato e con cui lavoro tutti i giorni un unico pensiero mi accompagna costantemente.

Io che tipo di padre sono?

Ecco perché parlo di "strana fissa sulla paternità".
Perché non mi sono soffermato su che tipo di padre vorrei essere, o sul rapporto con l'immagine (reale o fantastica) che ho di mio padre, o ancora su quello che gli altri si aspettano da me nel mio ruolo paterno.
Ho semplicemente scoperto che fare il padre è tutt'altro che semplice.
Non è solo adorare la propria bambina sopra ad ogni cosa.
Non è solo cercare di proteggerla dalle difficoltà del mondo perché ci sembra troppo piccola per affrontarle o tentare di spiegarle quali sono i valori della vita e quanto sia difficile rispettarli.
È vestirla correttamente al mattino prima di andare a scuola rispettando l'accostamento di colori come farebbe sua madre.
È cucinarle la cosa giusta e non quello che entrambi vorremmo mangiare, come farebbe sua madre.
È ricordarsi di metterle la crema idratante dopo il bagnetto, perché non è importante solo essere puliti, ma pensare anche alla morbidezza della pelle.
Come farebbe sua madre.

Ma fare il padre non significa essere un buon surrogato di madre.
Essere un padre significa essere un uomo che si occupa del proprio figlio.
Dimenticando che il giallo e il viola insieme non ci stanno, che wurstel e patate non sono un'alimentazione sana, che la crema idratante non è solo qualcosa che appiccica le mani.
La società (e forse anche le madri, le nostre compagne e mogli) ci vorrebbero come delle perfette copie delle donne che sanno - per istinto - proteggere, curare e crescere i propri cuccioli.
Ma per questo ci sono già le madri, non serviamo noi.
Sono bravissime in questo ruolo: perché dovrebbero anche solo pensare di forgiarci a loro immagine e somiglianza?

Noi siamo dei padri e dobbiamo fare i padri.
Rivendicando il nostro ruolo, le nostre peculiarità e le nostre debolezze, in modo che i nostri figli non risentano di una mancanza nella loro crescita e ci riconoscano proprio come padri.
Padri imperfetti, ma padri.
Sempre.

martedì 7 maggio 2013

[Pre]Adolescenza. Scriviamo un nuovo manuale?

(illustrazione di Laura Bonariva)

Con il termine preadolescenza si intende un'età dell'individuo inclusa tra gli 11 e i 14 anni.Questa si differenzia dall'adolescenza, il periodo successivo, che varia a seconda dei sessi ed è compresa tra i 15 e i 21 anni esclusi.Quest'età è differente dall'adolescenza vera e propria, poiché in teoria i cambiamenti fisici (dovuti agli ormoni risvegliati nel corpo) cominciano appena ad accennarsi. L'adolescenza è l'età in bilico tra l'infanzia e l'età adulta, invece la preadolescenza è l'età in bilico tra l'infanzia e l'adolescenza.Il preadolescente è poco più di un bambino, caratterialmente pensa come un bambino, le caratteristiche che lo differenziano da esso fisicamente sono l'altezza un po' più sviluppata dei suoi coetanei e un leggerissimo accenno del seno nelle femmine.Egli si rende conto che sta cambiando e cerca di ignorare finché può questi cambiamenti che lo possono angosciare brevemente se sono improvvisi.Quest'età comunque è molto breve, poiché dopo questi piccoli cambiamenti il corpo continua a cambiare sempre più velocemente.


Questa è la definizione che Wikipedia da del termine preadolescenza. La leggo e poi vado in una seconda media. In questa classe hanno 13 anni, quindi sono in piena preadolescenza.Li guardo e penso:

  • i cambiamenti del corpo sono appena accennati? e allora perché le ragazzine hanno dei seni prosperosi, i fianchi già allargati e uno sguardo ammiccante? e perché i maschietti hanno già i baffetti e fanno battute con non molto celati doppi sensi di tipo sessuale?
  • sono poco più che bambini? sarà per questo che (come appena detto) fanno battute con doppi sensi espliciti? o si ribellano all'autorità costituita rappresentata dai docenti? se gli si propone un gioco sbuffano, si girano e se ne vanno?
  • fingono che i cambiamenti non esistano e cercano di ignorarli? per questo si vestono alla moda e cercano di avere un'immagine "da grandi"? sottolineano ogni cambiamenti e ogni centimetro guadagnato con un'enfasi esagerata?
Diciamo la verità: della definizione di wikipedia l'unica cosa che ho verificato questa mattina in classe era l'altezza "un po' più sviluppata"Beh, ripensandoci bene nemmeno quella. Erano tutti più bassi di me, che non sono certo un gigante con il mio metro e settantaquattro appena appena raggiunto. Però nelle terze medie ci sono un paio di stangoni/e che mi superano di almeno 10/15 centimetri...
Questo però non è sufficiente a confermare la definizione.


Esco dalla classe e controllo su facebook. Mia nipote ha postato una foto di un cartonato di Justin Bieber con un paio di ragazzine davanti che... quasi quasi mi risulta difficile dirlo.
Senza il "quasi quasi" in realtà...
Basti solo dire che una delle ragazzine non lo stava baciando sulla bocca... e che sul cartonato dell'anno successivo Justin aveva le mani davanti ai "gioielli di famiglia".
Alla faccia dei bambini!


Fino a poco tempo fa l'adolescenza era l'età della confusione, la terra di nessuno, il limbo tra l'infanzia e l'età adulta.
Adesso c'è un nuovo limbo, una nuova terra di nessuno.
E proprio di nessuno, visto che anche Educazione e Pedagogia poco se ne occupano.
Tanto che anche la Chiesa se ne accorge e - nel manuale di organizzazione dell'oratorio estivo - auspica che "la proposta di questo oratorio estivo è [sia] quella di trovare un piccolo spazio pensato proprio per i ragazzi delle medie. Un tempo settimanale dedicato a loro, per poter riflettere attraverso alcuni piccoli giochi."
Peccato che l'approccio non sia propriamente quello corretto e coerente con la nuova frontiera della preadolescenza.
Alcuni piccoli giochi? Cosa ne penserebbe Principessa, la protagonista di "Ho dodici anni e faccio la cubista mi chiamano Principessa (Storie di bulli, lolite e altri bimbi)"?


E che dire del web? Per iscriversi a facebook, ad esempio, occorre dichiarare di avere 13 anni. Ma quanti minori di 13 anni hanno un loro profilo? Quanti ragazzini o ragazzine della scuola media sono iscritti?
Credo almeno il 50%.
Mentendo sulla loro età.
Spesso con il benestare dei genitori.
E penso anche di aver sbagliato la percentuale, per difetto.
Senza parlare di YouTube e di Twitter.
Il primo ha canali su canali di ragazzine che - se va bene - fanno le parodie delle loro beniamine (o meno) mostrandosi nelle loro camerette.
Il secondo è noto - ai meno addetti ai lavori - per l'hashtag #letroiedellamiascuola... Chissà quanto avrebbero da aggiungere gli internauti più esperti...


Credo sia arrivato il momento di imparare a non sottovalutare il problema preadolescenza con tutti gli annessi e connessi che, quotidianamente, ci troviamo davanti.
Il mondo delle scuole medie (e della quarta/quinta elementare perché - come sempre - quando si comincia ad affrontare un problema noi educatori siamo in ritardo almeno di una generazione), attualmente terra di nessuno se non di docenti che - più o meno consapevolmente - combattono contro i "nuovi mostri" della maleducazione, va esplorato, indagato ed affrontato nel giusto modo.
Non solo dai docenti (che io reputo inesperti, con le armi spuntate) ma dai genitori, dagli educatori, dagli animatori e catechisti dell'oratorio.

Basta pensare che i preadolescenti siano dei bambini "che stanno crescendo".
Non sono più bambini.
Sono preadolescenti.
Che non è una definizione vuota, ma una nuova categoria di persone da conoscere e sostenere nel processo di crescita.
Con i giusti strumenti.

È IL MIO CORPO CHE CAMBIA
(Litfiba)


Cos’è cos’è questa sensazione

è come un treno che mi passa

dentro senza stazione

dov’è dov’è il capostazione
sto viaggiando
senza biglietto
e non ho direzione.





venerdì 3 maggio 2013

Ecologia di un Sistema


Ci sono giorni in cui ti alzi e pensi che la giornata andrà come le altre.
Ma hai un piccolo tarlo, una distorsione dalla norma che ti incuriosisce, un appuntamento fuori dalla routine.
Non sai (o sai solo vagamente) quale sarà il tema dell'incontro e quindi - con la naturale curiosità che ti contraddistingue - ti presenti puntuale e pieno di aspettative.
In fondo, tutto sommato, sai che cosa ti puoi aspettare visto che non sei un pivello dell'ambiente.
Poi ti scontri/incontri con un concetto che da tempo faticavi a trovare.
Ecologia di un sistema
Una definizione che hai già incontrato, ma che non hai mai trovato in modo concreto. 
Perché ti affanni a far quadrare il cerchio, ma son più le difficoltà che incontri che le possibili soluzioni che trovi.
Una complessità quotidiana.
Poi qualcosa si compie. Da un piccolo ragionamento nascono nuove (o vecchie?) idee che ri-trovano forma. E che riescono a coniugare aspirazioni professionali, necessità familiari, obiettivi sociali, congruenze scolastico/territoriali, nuove (in)congruenze politiche.
Appunto: ecologia di un sistema.
Il tuo sistema, quello che da tempo ti affanni a far diventare ecologico. Funzionante sotto tutti gli aspetti.
Esci da quell'incontro con un pensiero fisso: "Siamo dei visionari. Lo siamo sempre stati."
Però hai uno strano sorriso soddisfatto, una nuova spinta propulsiva che ti fa mettere le ali ai piedi (e al cervello), nuovi obiettivi.
E in educazione cosa c'è di più positivo che avere nuovi obiettivi? Nuove spinte propulsive che ti invogliano ad intraprendere nuovi percorsi?
Che poi tanto nuovi non sono, perché sembrano il congiungimento di tutte le strade - apparentemente distanti tra loro - che hai percorso finora.
Ecologia di un sistema. Il tuo sistema.
O Labirinto Pedagogico che si dipana?