giovedì 31 gennaio 2013

La Non-giornata della memoria

Estate 1988. 16 anni compiuti da poco.
Una quindicina di ragazzetti tra i 16 e i 23 anni fanno una vacanza all'estero accompagnati da un uomo di blu vestito che al confine ripone nel cruscotto del furgoncino la sua spilletta dorata a forma di croce e la sua carta d'identità ("professione: sacerdote") per estrare il suo passaporto ("professione: insegnante").
La destinazione è la Polonia, in pellegrinaggio verso un quadro con una donna scura e suo figlio. Anche lui scuro.
Entrambi con l'aureola.
C'è però un'altra tappa in questo viaggio.
Quel giorno, manco fossimo in un romanzo d'appendice, il cielo è di un grigio plumbeo e il gruppo arriva a destinazione. Un parcheggio dove sistemare i due furgoncini e due rotaie che scorrono davanti a noi.
Percorriamo a piedi le rotaie e raggiungiamo un cancello.
"Arbeit macht frei" è la scritta che lo sormonta.
"Il lavoro rende liberi".
Entriamo e la cosa che colpisce di più è il silenzio. Assordante.
Non perché il luogo sia deserto, anzi. Come noi altre persone sono in visita in quel luogo simbolo.

Sono passati 25 anni, ma ho ancora vivido il ricordo di quella giornata.
L'odore di gas mentre passavamo per le "docce", talmemte impregnate di quel tanfo che sembravano non poter esistere senza di esso.
Le mille foto delle torture, così reali da sembrare in 3D più dei migliori film di questa epoca.
Le latrine: delle assi con dei buchi tondi entro cui - nel liquame misto dell'umanità - si nascondevano i bambini per sfuggire alla morte.
Il muro delle fucilazioni dove, con le mie dita, ho toccato i fori (reali! Oh quanto erano reali) dei proiettili che hanno falciato così tante vite.
Ma il ricordo più vivido è stata la catasta degli occhiali. Una montagnetta di circa tre metri di circonferenza per uno di altezza dove erano raggruppati non so quanti occhiali.
 

Ho sempre avuto una mente abbastanza matematica e davanti a quel cumulo il mio cervello si è subito messo in moto.
Nel mio gruppo quanti dei miei amici indossavano gli occhiali? Quattro su sedici. Il 25%. Un quarto.
Quegli occhiali dunque rappresentavano un quarto delle persone che erano morte in quel luogo.
Non ho mai saputo quanti fossero esattamente gli occhiali, sebbene io abbia cercato il numero preciso in ogni targhetta o cartello che trovavo lì intorno.
Ma erano tanti.
Ed erano solo il 25% di quanti erano deceduti.
Solo ad Auschwitz.
Che non era l'unico campo in Europa.
 
Dopo quella giornata non si sono fatti grandi discorsi, non si è parlato di quanto avevamo visto e di cosa aveva provocato in noi.
Un'esperienza traumatica? Non credo.
Educativa? Di certo.
E ho molto apprezzato che il Don, il nostro Don, avesse avuto il coraggio di portarci in quel luogo. E soprattutto ho apprezzato il silenzio con cui ci ha accompagnati.
 
La giornata della memoria è passata da qualche giorno e che cosa ci è rimasto?
Le polemiche per le farneticazioni del sig. B. sulla presunta positività del fascismo?
I continui servizi sui ritardi dei treni che hanno il sapore di un beffardo richiamo ad un periodo in cui solo i treni erano in orario?
Una madre disperata che chiede al Presidente della Repubblica di tirare fuori dai guai il figlio fotografo?
I ricordi che si traformano in dimenticanze?
 
La giornata della memoria ha un senso se stimola la memoria. Ma se lo fa solo in quella giornata il senso lo perde.
È con questa consapevolezza che ho deciso oggi di raccontare la mia memoria. Anche se la quotidianità ci riempie di mille altri pensieri che possono affievolire il ricordo di ciò che è successo decenni fa.
"Il lavoro rende liberi". Mai frase fu più azzeccata. Perché il lavoro ha liberato quelle persone dalla sofferenza. Le ha liberate dall'incubo.
Ma come ogni libertà che si rispetti la si è ottenuta a caro prezzo.
La vita.
 
 
P.S. Onore a quegli "educatori illuminati" dei miei genitori che mi hanno permesso di vivere questa esperienza. E che mi hanno obbligato a dare ripetizioni per tutto l'anno scolastico per potermela pagare.

Nessun commento:

Posta un commento