venerdì 20 luglio 2012

80 km, 2 caselli autostradali, 75 minuti di auto


-         Mamma, è arrivata la lettera. Devo partire. –
-         Dove vai? –
-          A Portovaltravaglia… vado a vedere sull’atlante dov’è –
Alessandro aspettava quella lettera da cinque mesi, tutti i suoi amici ne avevano ricevuta una. Era curioso, come lo si può essere a ventuno anni, ma preoccupato. La famiglia, l’università, gli amici. Doveva prendersi una pausa dal mondo che conosceva. Per quel viaggio.
-       È sul lago Maggiore mamma. Tutti i miei amici sono andati vicino, a Milano, gli basta usare la metro. E io invece… dove me ne vado? In un posto che nemmeno conosco, che devo cercare sull’atlante! –
I loro dialoghi erano sempre così: fatti di poche battute, spesso mentre mamma faceva qualcosa e spesso da una stanza con l’altra. Sua mamma doveva sempre essere in movimento: le pulizie, lavare, stirare… instancabile.
-         Stai tranquillo – disse lei. Lapidaria, concreta e in un certo qual modo anche rassicurante.

Preparare un viaggio non significa soltanto preparare le valigie, scegliere i vestiti, non dimenticare gli oggetti personali. Bisogna abituarsi al cambiamento, aprirsi al nuovo orizzonte, ricordare tutte le esperienze precedenti per rinnovarle nel nuovo viaggio.
Alessandro si preparava ogni volta così: predisponendosi a ciò che di nuovo o di diverso avrebbe trovato, scegliendo un libro o una playlist che facesse da sfondo al viaggio, con la curiosità di incontrare altre persone, altri mondi.
Le altre volte era stato diverso: i viaggi erano stati emozionanti e pieni di sorprese ma scelti,  programmati, condivisi con gli amici o con la famiglia.
Il Muro di Berlino smembrato nel 1990 leggendo “1984” di Orwell.
Sdraiato a contemplare le stelle sulla spiaggia di Finisterre parlando con gli amici di cosa ci possa essere dopo la vita terrena.
L’abazia medievale in Austria condivisa con mamma, papà e fratello.
La Casa di Anna Frank ad Amsterdam dove le misure di vivibilità erano assurde rispetto ai canoni normali.
La biciclettata fino in Polonia per rimanere deluso davanti ad un’icona minuscola in un luogo privo di spiritualità.
La carbonara cucinata in un campeggio della Spagna, condividendola con chi vi metteva sopra il ketchup.
Ma questa volta c’era qualcosa di diverso. Un viaggio solitario in un luogo sconosciuto, senza preparazione, senza meta.

-         Ci vediamo tra una settimana, credo – disse Alessandro.
-        Va bene, mi raccomando: vai piano –.
La mamma sigillava sempre così la partenza per un viaggio. “Vai piano”. Ma non si riferiva solo alla velocità di guida, pensava anche all’indole di suo figlio e “Vai piano” significava anche “Non ti ci buttare”, “Proteggiti”, “Stai attento a non farti coinvolgere troppo”. La mamma lo sapeva: suo figlio viveva ogni cosa con trasporto, con passione, buttandosi anima e corpo in ogni esperienza, in ogni situazione.

“Vai piano” ripensò Alessandro, limitandosi ad archiviarlo come la solita raccomandazione di mamma, e salì in macchina.

Due caselli, ottanta chilometri, settantacinque minuti di macchina lo separavano dal luogo.
Arrivò sul lago Maggiore alla ricerca della sua meta. Mentre percorreva una strada in salita incontrò un ragazzo e gli chiese indicazioni.
-        Ci sto andando anche io, se mi dai un passaggio ti accompagno –.
-         Sali. Mi chiamo Alessandro – .
-         Io sono Marco – rispose laconicamente il ragazzo.
Ancora poche centinaia di metri ed arrivò: un cancello elettrico verde, un parcheggio spazioso, quattro ville immerse in un parco.
-         Ciao Alessandro, benvenuto – lo accolsero porgendogli la mano – Se vieni dentro ti presento tutti –.

Un giro di presentazione veloce e il vortice cominciò: storie, nomi, volti, ruoli. Tutto girava velocemente, senza lasciare il tempo di metabolizzare. “Arriverà questa sera ed avrò il tempo di ragionare su tutto” pensò Alessandro, ma non fu così.
Arrivò la sera e il vortice continuò.
Una fuga, quattro ragazzi ubriachi che ritornano, una doccia gelata per evitare il coma etilico, gente che va, gente che viene… e la percezione che per gli altri fosse la normalità.
“Ma dove sono capitato?” ebbe appena il tempo di pensare Alessandro, prima di trovarsi a dover portare di peso un ragazzo sotto la doccia, per poi correre a verificare se un altro stesse vomitando, per poi fiondarsi a controllare che tutti fossero al loro posto, per poi tornare immediatamente alla doccia e verificare che avesse fatto effetto sui fumi dell’alcol.
Fino al tanto ricercato momento di calma e di tranquillità.
Indossare il pigiama, fumare l’ultima sigaretta della giornata in tranquillità, lavarsi i denti, sprimacciare il cuscino: erano le due del mattino quando Alessandro, esausto, poté finalmente accasciarsi in un letto tentando di riflettere su quanto gli era accaduto, su quale giostra fosse salito, su quale viaggio stesse intraprendendo suo malgrado.
Ma la stanchezza lo prese.
Poche ore di sonno.
E poi la giostra ricominciò.

-        Ragazzi cosa volete fare questa sera? Ognuno di voi dica cosa vuole fare –.
-         Io guardo la televisione – rispose Maurizio
-         Io vado in camera a studiare – disse Daniela
-         Io vado nella macchina di Ale a sentire la musica – sussurrò Marco
-         Hai chiesto ad Ale se a lui va bene? La macchina è sua, è lui a dover decidere –
-         Per me va bene –  Ale anticipò la richiesta di Marco.
-        Perché tutte le sere chiedi di metterti nella mia auto per ascoltare la musica’ – domandò Ale sedendosi in auto a fianco di Marco.
-         Non lo so. Mi sento tranquillo qui. –
-       Cosa vuol dire che ti senti tranquillo?  Potresti senza problemi  ascoltare la musica dallo stereo di camera tua. –
-      Boh… qui mi sento tranquillo. Sono solo e posso fantasticare di viaggiare. Sono su una macchina, potrei andare ovunque –
-        Che ha questa macchina di particolare? Dove vorresti andare? –
-        È la tua macchina. Tu sei come il mio fratello maggiore che mi dice cosa devo fare e io lo ascolto. Lo faccio. Anche gli altri mi dicono cosa è giusto e cosa no per il mio futuro, ma io non lo faccio. Con te è diverso. Tu me lo dici perché ci credi. –
-         E dove vorresti andare? –
-         Da nessuna parte. È qui che voglio stare. Questo è il mio posto –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quando andò a dormire Alessandro si mise a riflettere su quanto era accaduto. Marco non voleva stare in quel posto, avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì perché quel luogo per lui significava sofferenza e diversità, ma quando era in macchina si sentiva bene, si sentiva in viaggio, si sentiva di poter andare ovunque.
“Che strana cosa –  pensò Alessandro –  Marco andrebbe ovunque, scapperebbe verso qualsiasi luogo tranne questo, ma quando è in macchina starebbe fermo, per sempre. Perché solo l’idea di avere uno spazio solo per sé e da condividere solo con chi vuole lo fa stare bene.”

-     Pronto? Pronto??? – urlava Diego nella cornetta. – Mamma? Mammaaaaa??? Guarda che arrivo tardi, prendo il treno dopo! Hai capito? Hai capitoooo??? –
-          Perché urla così tanto al telefono? – chiese Alessandro
-      I suoi genitori sono sordomuti – rispose Silvia, la collega di quel giorno – vedono che il telefono squilla perché è collegato ad una luce che lampeggia ogni volta che squilla. –
-         E perché lui telefona allora? –.
-        Qualche volta risponde sua sorella. Ma con lei non parla.  – concluse Silvia.
Una volta in macchina, in viaggio verso la Stazione Nord di Laveno, Alessandro chiese a Diego perché urlava al telefono.
-        Vorrei che mi sentissero. – rispose tristemente.
-        Sono sordomuti, come fai ad aspettarti che ti sentano? –.
-      Lo so. Ma con mia sorella è diverso. Con lei leggono le labbra. La guardano in viso quando parla. Io ho bisogno di urlare, di sbattere le cose o di rompere i mobili perché mi guardino. Non mi guardano mai… -
Il resto del viaggio continuò nel silenzio.
Diego urlava, non per essere ascoltato, ma per essere guardato. E in macchina, una volta guardato anche solo di sottecchi nel retrovisore, si godeva il silenzio.
Tutta la strada in silenzio. Un lungo viaggio nel silenzio che entrambi si erano goduti.

-         Qual è il tuo vero nome? Dove sei nato e quando? – chiese Alessandro.
-         Mi chiamo Almir e sono nato in Yugoslavia. Ma non chiedermi quando, non lo so. –
-         Che vuol dire che non lo sai? – incalzò Alessandro.
-        Nel mio paese non registrano il giorno in cui sei nato, non importa a nessuno. –
-         E i tuoi genitori non te lo hanno detto? Non festeggiavi con loro il tuo compleanno? –
-       I miei genitori? Mi hanno venduto agli zingari quando ero piccolo. Ti pare che gli importasse festeggiare il mio compleanno? Erano interessati solo a quanto potevano guadagnare vendendomi… –
-         E come ci sei arrivato in Italia? –.
-         Con gli zingari. –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quando a notte fonda Alessandro si sdraiò sul letto ripensò ad Almir, ad un viaggio verso un nuovo paese con persone sconosciute, con l’angoscia di essere stato venduto. Dai propri genitori.
Forse il viaggio era stato il minore dei mali, forse Almir non si era nemmeno accorto del viaggio. O forse il viaggio era stato la sua salvezza: andare quanto più lontano possibile da chi ti ha partorito e poi venduto.
Forse quel viaggio lo aveva salvato.

-         Pronto mamma? –
-         Ciao Ale, come stai? – 
-       Bene mamma. Devo dirti una cosa. Ho deciso che questo posto mi piace. Voglio farlo diventare il mio lavoro. -
-         Sei sicuro? È passato così poco tempo. – La voce della mamma era traballante. Percepiva che la decisione era irrevocabile, come lo erano spesso le decisioni di suo figlio. Ma questa volta sperava di sbagliarsi.
-       Ho cominciato questo viaggio e lo voglio portare a termine. Passami papà… Ciao papi. Hai sentito quello che ho detto a mamma? –
-          Si Sandro. Ho sentito. Sono contento. Fai quello che devi fare. –
-          Grazie papà. –
Suo padre era sempre così: di poche parole ma molto chiaro. Sempre dalla sua parte. Forse coraggioso come lui. Forse avventato come lui.

Finalmente un giorno di riposo. Alessandro era nel suo monolocale tranquillo, godendosi il rientro dopo il pic nic di pasquetta. Il ritorno a casa era sempre fonte di gioia.
Ritornare al proprio caricabatterie da tavolo. Si, perché la sua nuova casa era poco più grande di un tavolo, ma lo ricaricava.
Suonò il citofono. Alessandro non aspettava nessuno.
-         Sono la Laura, disse una voce da bambina, sono qui sotto con Cristian e la mamma. Puoi scendere? –
-         Arrivo subito –.
Trovò i due bambini confusi tra un misto di vergogna e di sofferenza, la madre era scesa dalla macchina ma aveva lasciato il motore acceso, pronta ad un nuovo viaggio, una nuova fuga.
-      Scusi Alessando, domani devo andare a lavorare e non avrò tempo di riportarli. Ecco li ho riportati oggi. Arrivederci. – disse tutto d’un fiato la donna.
Non attese una risposta, non salutò i suoi figli, risalì velocemente in macchina e partì subito, verso una qualsiasi meta purché lontana dai propri figli.
-     Venite, saliamo in macchina e andiamo, torniamo in comunità – disse Alessandro con tono volutamente sereno ai due bimbi che si stropicciavano le mani.
Dopo aver messo a dormire i due bambini, una volta che il sonno li aveva finalmente avvolti, si mise a leggere un libro.
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quella volta non aveva voglia di riflettere e di analizzare quanto accaduto. Quella volta provava solo una gran rabbia.

-      Alessandro, voglio andarmene da qui. Se non me ne vado subito impazzisco. – disse fermamente Valerio.
-      E dove vuoi andare? –.
-      Non lo so. L’importante è che io me ne vada. –
-      Ma… io sarò preoccupato per te. Vorrei sapere dove vai e cosa farai. –
-     So che sarai preoccupato. Ma io devo partire. Ho passato qui quasi tutta la mia vita. E non ce la faccio più. Ho bisogno di andare altrove. – 
-       Fammi sapere almeno quando sarai arrivato –
-       Lo farò. – rispose con un mezzo sorriso Valerio.
Il viaggio di Valerio è un viaggio lungo, forse senza ritorno, alla ricerca di sé stesso e delle proprie origini. Alla ricerca di una motivazione per la malattia mentale di sua madre, alla scoperta di un padre violento che ha avuto l’ardire di morire prima che lui potesse dirgli tutto ciò che pensava, alla ricerca di sé stesso.
“Buon viaggio” gli augurò mentalmente Alessandro.
“Speriamo davvero che sia buono…”

-   Allora Thomas, ascoltami bene. Questo è un nuovo progetto. Una delle attività del laboratorio autobiografico è il racconto del proprio viaggio, tutto ciò che hai fatto da quando sei partito da casa a quando sei arrivato in Italia. È chiaro Thomas? –.
-        Dovrò raccontare tutto io o mi farai delle domande tu? –.
-     Ti farò delle domande io, stai tranquillo. Dobbiamo ripercorrere il tuo viaggio dalla Romania all’Italia, con quale mezzo sei partito? –
-         Con la macchina –
-        E come li hai salutati mamma e papà? –
-        Non li ho salutati. Sono salito in macchina e basta. –
-        Non li hai salutati? Nemmeno quando sei salito in macchina? –
-         No. Non mi sono voltato indietro per guardarli. Sono salito in macchina e ho pensato “Andiamo!” –
Il resto del racconto aveva meno importanza per Alessandro. Le emozioni, le sensazioni, le paure provate durante il viaggio erano state tante: i colori, i suoni, le strade, i palazzi e le grandi città così differenti tra l’Italia e la Romania, la vista del mare.
Alessandro di quel viaggio aveva colto l’importanza di quell’”Andiamo”, lo aveva sentito come lapidario, come atto del coraggio e della sofferenza di Thomas.
“Andiamo. Subito. Prima che cambi idea”.

-         Che lavoro faceva tuo padre? – chiese Alessandro.
-        Capo ufficio in una fabbrica di caffè – rispose Iliass.
-        In Marocco quanto guadagna un capo ufficio? –
-         Boh… non lo so. –
-         Di più o di meno di un muratore? –
-    Molto di più. Fai conto che noi abitavamo sul Belvedere, una casa singola con giardino. Mia sorella fa l’università e io ho fatto una scuola superiore privata. Solo i primi due anni però –.
-       E allora perché sei venuto in Italia? Perché hai affrontato un viaggio così difficile e pericoloso se non ne avevi bisogno? Perché sei stato chiuso in un camion per quasi ventiquattro ore? –
-          Lo facevano tutti i miei amici. Ho deciso di farlo anche io. –
-          Come sarebbe stata la tua vita se fossi rimasto al tuo paese? –
-         Sicuramente meno faticosa. Ma non mi pento. In questo viaggio ho imparato molte cose e conosciuto molte persone. Se anche dovessi ritornare sarei felice. –
Quando Iliass venne rimpatriato Alessandro era sereno. Non aveva sofferto una decisione altrui che decretava il suo ritorno a casa. Aveva affrontato bene il viaggio. Aveva scoperto un mondo diverso e se lo portava dentro ritornando al suo mondo.

Alessandro chiese a Ahmed se fosse partito dalla Libia.
-         Si –.
-         E quanto è durato il viaggio?  –
-         Quattro giorni –
-         In quaranta su un gommone per quattro giorni?? –
-      Quattro giorni e quattro notti. Con il mare in tempesta. Avevo con me solo una bottiglietta da mezzo litro d’acqua. E il passaporto nascosto nelle mutande, rinchiuso in un sacchetto di plastica perché non si bagnasse. Vicino a me un uomo vomitava, altri uomini piangevano, una donna incinta ha perso i sensi. Un ragazzo è caduto in mare. Era buio e nessuno ha allungato il braccio per riportarlo sul gommone. –
-          Tu cosa hai fatto per tutto quel tempo? –
-      Ho continuato solo a sperare di non morire. Ti giuro che ho avuto paura di morire. Ero quasi sicuro di morire. Quando sono arrivato a riva, in Italia, ho baciato la terra. Non riuscivo più a rialzarmi. Non ero felice di essere arrivato in Italia. Ho solo pensato “Non sono morto”. –
-           In quanti siete arrivati in Italia? –
-           Credo diciassette. Credo. –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: quella sera Alessandro non ripensò ai ventitré che non ce l’avevano fatta, ai due mesi di carcere che Ahmed aveva passato in Libia perché non aveva il permesso di soggiorno, alle successive difficoltà che aveva affrontato per il viaggio da Lampedusa a Milano o a ciò che aveva lasciato a casa.
Riuscì a pensare soltanto al ragazzo caduto in mare, e alla disperazione di quelli che gli stavano intorno che non erano nemmeno riusciti a muoversi per aiutarlo.
Un viaggio della speranza si era trasformato in un viaggio della morte.

-         Robert, a quanti anni sei partito dall’Afghanistan? – .
-       A undici anni circa, nel nostro paese non sappiamo esattamente quanti anni abbiamo. Non esiste un ufficio anagrafe. –
-         E sei arrivato a sedici… È durato così tanto il tuo viaggio per l’Italia? –
-     Non sapevo che sarei arrivato in Italia. Sono partito dal mio paese perché là c’è la guerra e non sai se il giorno dopo ti sveglierai oppure no. Non sapevo dove sarei arrivato. Sono stato due anni in Iran, un po’ in Pakistan, due anni in Turchia e un anno in Grecia. In ogni paese cercavo lavoro e cercavo di guadagnare soldi. Poi quando mi sentivo in pericolo partivo. –
-         Ti piace l’Italia?  –
-         Non lo so. Non la conosco abbastanza ma qui, per la prima volta nella mia vita, non ho paura. Per la prima volta nella mia vita vado a dormire sereno, spengo la luce e sono certo che domani mattina ti troverò sveglio e berrai il caffè con me. –
Pigiama, sigaretta, denti e cuscino: qualche volta andare a dormire aspettando con gioia il caffè del giorno successivo permette bei sogni, o almeno nessun brutto sogno, a tutti.

Il viaggio di Alessandro era cominciato a ventun anni e sarebbe dovuto durare un solo anno. Doveva portarlo ad ottanta chilometri di distanza da casa sua, solo due caselli di autostrada, settantacinque minuti di macchina ad una velocità media.
A trentanove anni Alessandro era ancora in viaggio.
Nel suo percorso aveva conosciuto l’Italia della povertà, della sofferenza, della violenza. E poi fuori dall’Italia aveva conosciuto l’Albania, il Marocco, l’Egitto, l’Afghanistan, la Tunisia, il Cile, l’Argentina, l’Uzbekistan...
Ma soprattutto aveva conosciuto le persone che arrivavano da quei paesi e che lo avevano accompagnato.
Ottanta chilometri, due caselli autostradali, settantacinque minuti di auto. Mai un viaggio era stato così lungo e così faticoso ma anche così entusiasmante e appassionato.
Attraverso gli altri, Alessandro aveva viaggiato dentro sé stesso. Aveva appreso culture, aveva conosciuto e condiviso la sofferenza, aveva vissuto la gioia della scoperta.
Ricorda ancora oggi la raccomandazione di sua madre.
“Vai piano”.

Non so mamma se andrò piano. So che andrò ancora, perché il viaggio non è finito. Le tappe saranno ancora molte. La stanchezza nelle ossa verrà mitigata dalle esperienze che farò. Non so quando finirà il mio cammino, mamma. Come diceva un saggio “L’importante non è la meta, ma il viaggio”. Secondo me, mamma, l’importante sono le persone che ti accompagnano.
Loro sono il mio viaggio.

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