domenica 6 gennaio 2013

Davanti allo specchio

Basta!
Adesso veramente, basta!
La discussione si sta rivelando noisa, ripetitiva e sterile!
Scusate lo sfogo emotivo ma sto seguendo questo argomento sui gruppi di educatori di Facebook e ne ho piene le tasche.
Ieri sera la goccia che ha fatto traboccare il vaso!
Leggo su Facebook la pubblicazione di una lettera di un padre la cui figlia è stata "sfruttata" dalle cooperative ("Mia figlia, educatrice, sfruttata da una cooperativa sociale").
E giù con le invettive!
Però ieri sera ho partecipato alla discussione e ho detto la mia.
 
Come ridurre un problema reale in una battaglia contro i mulini a vento. Scusate ma mi sembra la fiera dell'ovvio dove la coop è il "diavolo incarnato" che fagocita, mastica e rigurgita poveri, sani, formati e capaci educatori. Non dico che queste realtà non esistano, ma solo che la generalizzazione è la madre dell'ingiustizia. Fate nomi e cognomi o - per favore - evitate di buttare fango su tutti indiscriminatamente. Leggo sempre questi articoli, ma la solfa è sempre la stessa e - onestamente - mi ha un po' stancato perché la ritengo sterile e improduttiva. Scusate lo sfogo ma nella mia accezione l'educatore dovrebbe essere colui che si adopera per la ricerca di soluzione di un problema e non - come sempre più spesso accade - un soggetto che si piange addosso scaricando responsabilità a destra e a sinistra. Appoggio coloro che rischiano di perdere il lavoro per colpa di un sistema che non funziona come dovrebbe, ma mi dissocio da chi si nasconde dietro un titolo di studio che certamente non garantisce una qualità professionale in automatico.
Basta lamentarsi sterilmente o inneggiare alla rivoluzione proletaria (con l'obiettivo, peraltro, di veder aumentato il proprio salario). Tutti vorremmo lavorare meglio e meglio-pagati. Cominciamo ad eliminare i rami secchi, cioè coloro che questo lavoro NON lo sanno fare, invece di difendere la categoria tutta indiscriminatamente. Proviamo a batterci perché il percorso universitario sia selettivo (non solo a livello di test d'ingresso ma attraverso tirocinii reali e significativi) ed escluda coloro che per questo lavoro non sono portati. Abbiamo il coraggio di valutare oggettivamente l'operato degli educatori? Allora la nostra professione (forse) vedrà una nuova luce e verrà riconosciuta. Io non so fare l'elettricista: sono consapevole di ciò ed è giusto che io non lo faccia!

Non voglio ripetere i concetti già espressi sul social network ma mi piacerebbe proseguire qui la riflessione, in uno spazio più mio dove (oggettivamente) posso anche dilungarmi un po', senza annoiare altri magari non interessati.
 
Intanto: perché esprimere queste idee proprio ora?
Per un motivo semplice: leggevo qualche giorno fa su un "blog amico" che è ora di diventare un po' più "rivoluzionari" in educazione, che troppo spesso si dicono banalità, pomposità e pedanterie.
E cosa c'è di più rivoluzionario che affermare che "la professione educativa non è di tutti"?
 
Nella mia esperienza professionale ho visto educatori che davanti ad adolescenti che fumavano in camera (contravvenendo ad un ovvio divieto) giravano la testa dall'altra parte affermando "non mi sono accorto..."; ho incontrato colleghi che passavano tutto il loro turno in ufficio al computer a scrivere chissà quali fondamentali ed urgentissime relazioni (in ogni turno???) lasciando i ragazzi in giro senza meta nè obiettivo; ho sopportato operatori che affrontavano la loro giornata lavorativa presentandosi in struttura con due quotidiani e una rivista; ho trovato insegnanti che mal sopportavano i loro alunni (dalla scuola materna a salire, per ogni ordine e grado); ho letto curricula di neo-laureati in cui presentavano le loro "esperienze lavorative" (che altro non erano che i tirocinii universitari) e che al colloquio ponevano loro le condizioni lavorative (le notti? no grazie. i turni festivi? no grazie. lavorare senza compresenza? no grazie. avere contatti diretti con l'utenza? no grazie.); ho incontrato educatrici che si presentavano in un nido per fare un colloquio di lavoro e non degnavano di uno sguardo i bambini che gironzolavano lì intorno; ho conosciuto giovani rampanti freschi di università che mi dicevano "io sono laureato, voglio fare il coordinatore!"...
 
Insomma... ho visto cose che voi umani... sicuramente avrete visto tanto quanto me!
 
Ecco perché il mio sdegno quando leggo della difesa della professione, della rivendicazione di riconoscimento sociale ed economico, delle cooperative "cattive" che sfruttano e maltrattano gli operatori.
Ma avete mai sentito un docente universitario dire ad uno studente: "Guarda, mi spiace, ma questo lavoro non fa per te. Prova un'altra strada"?
Io mai.
Eppure ogni volta che mi presentavo agli esami universitari osservavo il panorama umano che mi circondava e registravo discorsi, commenti, riflessioni... e mi rendevo conto di quanto alcuni fossero proprio fuori luogo, nel senso di un luogo che non gli appareteneva.
 
Ci siamo mai chiesti perché gli psicologi finiscano per fare gli educatori?
Io si: perché le università sfornano psicologi a go-go e il mercato è saturo (e, a volte, perché gli psicologi - dopo la laurea - si accorgono di aver scelto il corso di studi sbagliato).
E intanto a Roma non trovano ragazzi che abbiano voglia di fare i panettieri!!!
 
Forse la vera rivoluzione è finalmente ammettere e dichiarare che la professione educativa non è di tutti, che un titolo di studio non fa un educatore.
Certo: lo studio è importante, ma lo è altrettanto l'esperienza professionale, la formazione continua e la supervisione.
Come diceva su Facebook un collega "Prima di farsi rispettare, essere rispettabili?".
 
Non è un albo professionale che restituisce valore al nostro operato.
Non è (solo) un titolo di studio che fa di noi degli educatori.
Non basta piangersi addosso perché la nostra condizione professionale migliori.
Non funziona unirsi senza nessuna discriminante contro un "nemico" comune.
 
Il nemico comune - credo - siamo proprio noi stessi.
 
 


 

7 commenti:

  1. Sono d'accordo con te sul fatto che non tutti possono fare l'educatore, che bisogna essere chiari, noi stessi prima di tutto, sul valore e la specificità del nostro lavoro. Sono d'accordo che si debba essere rispettabili per essere rispettati però non penso che tutto questo si ponga in alternativa con le altre rivendicazioni. Certo è inutile e sterile sparare a zero su tutte le cooperative sociali ma intervenire sui casi specifici mi sembra giusto e doveroso. Insomma penso che ci sia un lavoro da fare in entrambi le direzioni.

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  2. Io mi sento di aggiungere che sento molto forte un atteggiamento autocentrato. I problemi ci sono e nessuno lo nega.
    Ma i problemi in questo nostro momento storico sono di tanti: disoccupazione a livelli altissimi, esodati, pensionati che non riescono ad arrivare alla fine del mese, famiglie intere con genitori cassaintegrati o disoccupati, laureati che lavorano nei call center ( Che chiudono anch'essi).
    Ho letto in un post un educatore parlare del burn out nel nostro mestiere; pensando a tutta la categoria dei metalmeccanici o di tutti quegli operai che svolgono lavori usuranti che si sono visti slittare la pensione in avanti.... Vogliamo davvero pensare che siamo una delle categorie meno riconosciute? Certo loro non hanno studiato ma la dignità del lavoratore e' uguale per tutti, o no?
    Io suggerirei di alzare la testa, di guardarci intorno e di renderci conto di ciò che sta accadendo nel nostro paese.
    E' una situazione difficile e credo si debba guardare anche fuori dal nostro orticello.
    Questa e' la ragione per cui anch'io mal sopporto il piagnisteo. Non ora, non adesso.
    Bisogna saper guardare la realtà tutta, non solo la nostra piccola realtà.
    Anna

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  3. Leggere alcune tue considerazioni mi ha riportato un po' indietro nel tempo, quando ancora esistevano le scuole per educatori, dove ho insegnato per quindici anni, e dove era ancora possibile dire ad uno studente che forse quella non era proprio la sua professione.
    Era giusto o sbagliato farlo? Non so. Si faceva ed era una prassi possibile, insieme ad una responsabilità che le singole scuole (non tutte!) si assumevano.
    Però oggi sono cambiate tante cose e io proverei a rilanciare altre domande. Gli psicologi sono sempre adeguati a quella peculiare professione? I medici, gli infermieri, gli assistenti sociali? Cioè, mi chiedo, il quesito non vale forse per tutte le professionalità che hanno in qualche modo a che fare con le relazioni di aiuto?
    E vogliamo dimenticare di aggiungere alla lista gli insegnanti di ogni ordine e grado, compresi quelli universitari?
    Quale sarebbe il tratto rivoluzionario nel dire che "la professione educativa non è di tutti"? Non è una provocazione, è che proprio non capisco.
    Non so, ma ho l’impressione che sia necessario fare un passo avanti e provare a intraprendere nuove strade, alla ricerca di nuovi significati. I lavativi, gli incompetenti, gli ignoranti, i cialtroni, ci sono ovunque. E allora che si fa?
    Naturalmente non mi piace incontrare situazioni analoghe ma, poichè non credo riguardi solo le professionalità educative, penso sia necessario chiedersi quale responsabilità ognuno di noi è disposto ad assumersi singolarmente, o nella sua organizzazione di appartenenza.
    A me è capitato di dire ad un collega di una sua inadeguatezza, di bloccare allievi alla scuola per educatori, di far sospendere un’insegnante e di partecipare ad una vertenza legale contro l’operato di un educatore. Non ho guadagnato molte simpatie ma, sicuramente, se insieme a me ci fossero più persone disposte a farlo, forse usciremmo dai corridoi sempre più stretti dei buoni principi e di un’etica assai stucchevole.

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  4. Infatti anche secondo me la problematica non è relativa solo al mondo degli educatori, ma di tutti coloro che hanno a che fare con le relazioni di aiuto.
    Il problema (e qui forse sta quello che io intendo per "rivoluzionario") è che non c'è oggettivitià nella valutazione del nostro lavoro.
    Cerco di spiegarmi meglio: se un panettiere fa il pane cattivo, dopo averlo comprato da lui e non essere soddisfatto ognuno è libero di andare da un altro panettiere.
    Ma se un educatore (o psicologo, medico, infermiere, assistente sociale, maestro, docente, ausiliario socio assistenziale...) fa male il suo lavoro? Come lo si può giudicare?
    Anche a me è capitato (anche se non era mia competenza) di dire a qualche collega che non stava svolgendo il suo lavoro, così come mi è capitato di lavorare in un'organizzazione che conosceva "i rami secchi" ma non aveva strumenti per liberarsene.
    Il posto in ruolo (uno dei motivi per cui tante lotte si fanno) fa gola a tutti anche perché difficilmente si può essere spostati da lì.
    Alcuni colleghi avevano una pessima relazione educativa (quando ce l'avevano!) con gli adolescenti ospiti della comunità, ma finché non mettevano le mani addosso a qualcuno o non arrivavano in ritardo più di tre volte erano intoccabili.
    La vera rivoluzione, secondo me, sta nel fatto che tutti dovremmo essere convinti che alcune professioni non sono per tutti. In primis gli enti formativi e le università.
    La scuola di cui tu parli - che conosco abbastanza bene, se è quella che credo di aver intuito - era la migliore scuola per educatori che aveva il coraggio di restituire la capacità (o l'incapacità) educativa ai suoi studenti.
    Ho anche lavorato con uno dei (pochi) studenti fermati in quella scuola (nonostante fosse maschio, merce rara a quei tempi): era decisamente inadeguato e si è sentito sollevato quando ha smesso di studiare per essere educatore ed ha cominciato a fare il falegname. In università (quella che io ho frequentato a Milano) uno studente così sarebbe arrivato alla laurea...
    Perché le università non hanno strumenti di selezione?
    Perché il primo tirocinio è solo "osservativo"? Che senso ha passare un mese in un micronido a fare tirocinio se non si interagisce nemmeno con i bambini? se non si cambia un patello? se non si imbocca o si addormenta un bimbo?
    Non si tratta solo di etica (necessaria) o di senso di responsabilità (fondamentale) di chi vuole diventare educatore, ma anche - credo - di chi gli educatori li forma.
    O mi sbaglio?

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  5. Molte delle domande che poni sono assolutamente condivisibili ma purtroppo, o per fortuna, riguardano ambienti con i quali ho poco a che fare. Alcune questioni mi sembrano poco prendibili in termini preventivi perchè le strutture formative oggi sono queste e non vorrei rischiare di diventare nostalgica.
    Ho invece molta fiducia rispetto a ciò che si può fare negli ambienti professionali e, pur non negandone la fatica e la complessità, mi pare una questione che riguarda in modo forte quella dell'assunzione di responsabilità.
    L'oggettività delle nostre professioni, così come le abbiamo nominate come area di appartenenza, a mio parere, sta nelle competenze espresse e nel sapere esibito. Sta in una ricerca che forse fatica ad essere espressa in termini quantitativi ma che certamente può essere letta attraverso parametri qualitativi.
    Decidere chi può fare alcune professioni o no, non lo trovo personalmente tanto rivoluzionario, perchè lo sento un ragionamento datato e forse anche un po' superato. Trovo che sia rivoluzionario assumersi la responsabilità del proprio contributo, delle proprie valutazioni e della propria capacità di argomentare, seriamente e utilizzando competenza tecnica e teoria.
    Temo che il nostro ambiente sia già troppo pieno di rivoluzionari capaci solo di rivendicare, sottolineando sempre e solo ciò che manca. Mi piacerebbe immaginare una rivoluzione che sappia porgere idee nuovi, pensieri e strategie capaci di parlare di nuove forme di intelligenze e saperi. E troppo?

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  6. Si, è troppo! Ma non per me!
    Questa affermazione ti sembrerà assurda ma è così. Il mondo educativo e pedagogico è - purtroppo - privo di idee nuove, pensieri e strategie. Il mondo che io valutavo in questo post è invece quello della rivendicazione (del posto fisso, di una adeguata retribuzione, di un riconoscimento sociale, di una esclusività professionale...)che poco porta all'innovazione.
    Mi piace questo approccio più pragmatico (senza dimenticare la dimensione teorica - che io identifico con la riflessione -) della situazione.
    Io sono stato poco nel mondo formativo (come "soggetto formatore") e più (quasi esclusivamente) nel mondo di coloro che l'educazione la praticano. Per questo mi sono sentito in dovere di rivendicare "la rivoluzione" di cui parlavo. Perché mi sono scontrato tantissimo con "colleghi" che avrebbero dovuto cambiare lavoro.
    Una proposta: invece di "immaginare una rivoluzione che sappia porgere idee nuovi, pensieri e strategie capaci di parlare di nuove forme di intelligenze e saperi" proviamo a costruirla?
    Insieme. E con tutti coloro che con noi la vogliono costruire.

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  7. Mi pare di aver compreso alcuni noccioli del tuo post e spero di essere riuscita a coglierli, dando valore, a spunti e pensieri.
    Condivido il tuo spirito e slancio e quindi accetto molto volentieri il tuo rilancio ... scrivendo, provando, scambiandoci pensieri forse ci stiamo già provando
    Buon lavoro a noi e alla prossima!

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