venerdì 8 febbraio 2013

Proteggere l'angolo cieco (The Blind Side)

La storia è tra le più semplici e lineari nella filmografia americana che narra il mondo del sociale: lui è un ragazzone di colore con un background difficile vissuto in un quartiere povero-popolare; lei è una bionda ricca repubblicana dal carattere forte, madre di famiglia. Si incontrano, lei si prende a cuore il suo caso e lo adotta, lui si inserisce in famiglia, studia e diventa un campione (in questo caso di football americano).
 
Cosa c'è di diverso allora da tanti altri film simili per cui vale la pena di parlarne?
 
Intanto che mi ha fatto piangere un mucchio (e questo è abbastanza strano, visto che difficilmente mi commuovo). E non solo piangere dal piangere, ma anche piangere dal ridere.
Perché si tratta di un film davvero commovente ma allo stesso tempo molto divertente.
 
Ma la sua particolarità non è nemmeno questa.
 
Infatti la caratteristica geniale di questa storia (perché si tratta di una storia vera,  la vita di Michael Oher, dalla sua problematica adolescenza fino a quando diviene un giocatore di footbal americano professionista <fonte dei link Wikipedia>) è una strana inversione dei ruoli.
Di solito in queste trame sono gli adulti ad essere coloro che proteggono i minori mentre qui è Michael ("Big Mike") ad avere una spiccata propensione alla protezione, così come emerge da uno dei numerosi test psicologici che gli sono stati somministrati (e mi piacerebbe sapere quale!) che lo colloca al 98° percentile in materia di protezione.
Cioé solo il 2% dei ragazzi della sua età ha più senso protettivo di lui.
 
"Questa squadra è la tua famiglia. Proteggi la tua famiglia" è la metafora utilizza dalla madre adottiva che lo spinge a comprendere il ruolo che deve rivestire nella squadra di football: il lineman cioè colui che deve proteggere il quarterback dai placcaggi degli avversari, che cercheranno di bloccarlo attaccandolo proprio dai lati che il quarterback non può vedere (i blind sides appunto).
 
In un periodo in cui sono reduce dalla lettura di interessanti articoli su altri blog (come "Insegnare a proteggere") in tema di protezione da parte degli adulti, ho passato tutto il tempo della visione del film riflettendo su tutte le volte in cui mi sono sentito protetto dalle persone (per lo più adolescenti) con cui ho lavorato.
 
Come mai questo meccanismo?
Le prime volte che ho vissuto la sensazione di sentirmi "protetto" ero confuso: a tratti questo sentimento mi sembrava troppo simile all'esclusione.
Sentivo che i ragazzi volevano proteggermi/escludermi dal dolore che avevano provato nella loro esistenza, lasciandomi (fra)intendere che temevano il giudizio: come se aprire la porta delle brutture vissute gli facesse correre il rischio di apparire "brutti e cattivi" ai miei occhi, come un marchio stampato a fuoco che avrebbe potuto inficiare la qualità della nostra relazione.
Simile ad una sorta di meccanismo di autodifesa ego-centrato e strumentale.
A volte probabilmente è stato anche così, ma non sempre.
 
Perché avevo sempre la sensazione che qualcosa mancasse, che non fosse tutto lì.
Così semplice e banale, nella sua ovvietà.
 
Quindi ho approfondito e - attraverso l'osservazione di alcune situazioni - ho cominciato ad ipotizzare che la sensazione di protezione avesse un che di normalità, un senso di compiutezza.
E me ne sono accorto le volte in cui i miei ragazzi - nei diversi consolati all'affannosa ricerca di documenti d'identità - cercavano di tenermi lontano dai tipi "poco raccomandabili" che loro riconoscevano a naso, o quando - in visita alle famiglie nei quartieri di confine da cui provenivano - mi toccava fare "il giro largo" per evitare incontri spiacevoli, o quando ancora rimbombavano i silenzi davanti alle mie domande sui vissuti di guerre o conflitti inter-etinici che li aveva visti come vittime.
 
Ho sempre cercato, nel mio ruolo di adulto e di educatore, di proteggere i miei ragazzi, sostenendoli non tanto nel dimentare o nel rimuovere i vissuti, quanto nel provare ad aiutarli ad attraversare le esperienze alla ricerca di un nuovo senso, con l'obiettivo di apprendere nuove strategie o possibilità di scelta.
Ma ho capito che il meccanismo della protezione è circolare, perché proteggere quello che abbiamo (e che ci piace) significa proteggere noi stessi.
 
"Questo è quello che ho ora. Questo è quello che voglio proteggere."
 
La protezione non è solo una questione di ruolo, allora.
Probabilmente è una questione di specie.
Ed è proprio sull'angolo cieco che abbiamo bisogno di maggiore protezione. Quello che non possiamo vedere da soli.
 
"Stai cambiando la vita di questo ragazzo, Leigh Anne"
"No. Lui sta cambiando la mia."
The Blind Side - 2009
scritto e diretto da John Lee Hancok

6 commenti:

  1. Alessandro, non avevo mai riflettuto a fondo su questo senso di protezione reciproco, o meglio ancora "circolare" come l'hai definito tu...riflettendo sulla mia esperienza come educatrice mi ci ritrovo davvero. La mia reazione all'articolo: "stimolante" perché personalmente mi stimola la riflessione su un aspetto che finora ho avvertito in diverse occasioni ma forse ho sottovalutato, o ho voluto inconsciamente sottovalutare. Forse perché, come hai scritto tu, la sensazione che sia l'utente a volerti proteggere crea confusione. Sono d'accordo, direi che genera un certo spaesamento ed a volte persino un senso di ineguatezza. Michela

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  2. Accorgersi che il senso di protezione non è solo nostro ma anche del nostro "utente" lascia un po' sgomenti... ma se ci pensiamo bene non è una cosa così strana: la relazione asimmetrica - e tale deve rimanere - è così solo per quanto riguarda la "posizione". è ovvio e giusto che l'educatore sia in una posizione di "superiorità" per quanto riguarda la consapevolezza degli strumenti, ma non bisogna confondere questo aspetto con una "inferiorità" dell'utente. anche lui è portatore di valore, esperienze, conoscenze, qualità... un buon educatore deve essere in grado di riconoscere ciò che l'altro può portarci, insegnarci, regalarci... proprio perché la relazione è circolare: un educatore "insegna" ma "impara".

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  3. E' vero! La relazione è reciproca per definizione e le persone che l'educatore segue danno a loro volta molto di sé indietro...e qui torna la circolarità, anche nel verbo "seguire": chi segue chi? Anche l'utente deve seguire l'educatore: se non c'è reciprocità non c'è rapporto educativo. Sul "senso di protezione", sul fatto che un utente volontariamente cerchi di mettere il proprio educatore "al riparo" da qualcosa... questo a volte disorienta. A volte ci si chiede se c'è qualcosa che si sbaglia (almeno, a me è successo di chiedermelo). In fondo, però, credo proprio che sia così: anche questo aspetto torna indietro in maniera circolare. Come la relazione educativa stessa. Michela

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    1. "Chi segue chi" mi sembra il concetto principale ed è proprio quello su cui riflettervo. Come professionisti siamo naturalmente portati a pensare che l'utente segue noi ma... è davvero così? In una relazione circolare noi educatori apprendiamo dai nostri utenti.
      Ricordo davvero con passione quanto ho imparato dai miei (nostri, oso dire) ragazzetti di comunità che ci insegnavano in modo magistrale la loro cultura, i loro punti di vista, i loro punti deboli...
      Credo fermamente nella circolarità della relazione educativa e della comunicazione.
      Soprattutto perché ho sempre in mente quanto un vecchio supervisore ci ricordava sempre: se abbiamo scelto questo lavoro non è a caso!

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  4. Alessandro, il tuo post mi è piaciuto molto per come hai trattato il tema, per la potenza della metafora utilizzata e per lo sguardo che volgi all'interazione, a ciò che accade nella relazione e al concetto di reciprocità.
    Ho sentito l'eco delle teorie di Piero Bertolini nel suo "Esistere pedagogico" e ho trovato ricca la tua connessione con la prassi e con quanto avviene nei luoghi dell'operatività.

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  5. Grazie Irene per il tuo apprezzamento. Io non sono certo quello che si può definire un "teorico dell'educazione" perché baso le mie riflessioni principalmente sulle prassi quotidiane. Ritengo che le teorie siano fondamentali ma se non sono associate alla pratica servono a poco. Ecco perché nei miei studi e nelle mie supervisioni cercavo sempre una connessione con la pragmatica quotidiana.

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