ore 20.30
Ricevi una telefonata...
"Non vuole lavare i denti, sta facendo scene dell'altro mondo. C'è fuori mezzo paese. Adesso chiamo i carabinieri e lo faccio portare in istituto. Non ce la faccio più..."
Clic.
La telefonata si chiude.
Tu richiami ma risponde la segreteria telefonica.
Una volta. Due volte. Tre. Quindici.
Sempre la segreteria.
Prendi la tua decisione. Guardi tua figlia (che non ha ancora 8 anni e si sta apprestando ad andare a letto) e le dici "Scusa piccola, devo uscire. Si tratta di un'emergenza." E poi parti.
Venti minuti d'auto durante i quali l'emotività, l'adrenalina e la lucidità professionale si mischiano. A tratti si confondono.
Pensi a tutti gli scenari possibili. Al paese che assiste allo scempio educativo. Ai carabinieri a cui dovrai probabilmente spiegare quanto accaduto (con tutti gli annessi e connessi). Alla mamma e al suo bimbo che "chissà come saranno messi...", all'intervento educativo che dovrai fare.
Perché questo è quello che stai andando a fare: un intervento educativo che non hai progettato, programmato e che dovrai agire entro i prossimi minuti.
Arrivi.
Di carabinieri e vicinato nemmeno l'ombra. Di urla e pianti nemmeno più l'eco.
Lui sta lavando i denti e lei lo sta aiutando.
Non è importante quello che dici o quello che fai. Non è questo il senso della narrazione.
Basta dire che cerchi di contenere la tua emotività (ma non troppo) e che ti preoccupi di tutto il sistema: madre, bimbo, vicinato... Con un occhio a quello che hai fatto fino ad ora, uno all'obiettivo di ora e di domani (quando li dovrai rincontrare!), uno agli obiettivi del servizio sociale e del tribunale.... e quanti occhi ha un educatore?
Tutti quelli appena citato più uno.
Perché quando tutto finisce ed esci da quella casa l'adrenalina cala.
E l'ultimo occhio si occupa di te lasciando uscire una microscopica (forse metaforica) lacrima.
Perché ti accorgi che la cosa più dolorosa di questa folle serata è quella frase.
"Scusa piccola, devo uscire. Si tratta di un'emergenza."
E ti accorgi che forse hai chiesto troppo. Non a te stesso, ma alla tua piccola. Che non ha ancora otto anni ma già deve fare i conti con le emergenze serali e le partenze improvvise.
Il guaio è che hai ancora venti minuti d'auto da percorrere per arrivare a casa. E che non potrai fare altro che pensare a quanto accaduto. Professionalmente e personalmente.
Emozioni, dubbi, sensi di colpa, valutazioni del tuo operato...
Poi torni a casa e l'abbracci.
"Sono tornato. Tutto a posto." dici, pensando all'emergenza che hai appena affrontato.
E lei ti risponde: "Si, tutto a posto papi." pensando a sé stessa.
Le dai il bacio della buona notte.
Torni sul divano e ti chiedi se merita un padre che la sera, invece di stare con lei, corre per altri bambini.
Una risposta arriva.
Merita questo padre che la ama tanto perché ha imparato ad amare anche altri bambini.
Un ultimo pensiero.
Vaffanculo a questo lavoro.
Domani si ricomincia.
E tutto quello che resta
sono sogni incollati fino a dentro le ossa
(Emma - Amami)
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