mercoledì 25 luglio 2012

L'educatore solitario: nuove prassi di supervisione

Il mio è un lavoro solitario, nel senso che i miei interventi educativi li svolgo in autonomia, ma è anche un lavoro che necessita di confronto, di scambio, di nuove idee e risorse.
Di solito questo compito viene svolto dalla supervisione d'équipe, questo insegnano gli accademici e questo succede normalmente nelle organizzazioni.
Io faccio incontri con gli altri educatori che lavorano "con" me (anche loro in solitaria, perché così è negli interventi domiciliari) ma - in quanto coordinatore ed educatore anziano - mi occupo principalmente di supportare loro, di stimolare loro alla ricerca di nuove idee o risorse, di facilitare il loro processo di scambio comunicativo.
Lasciando poco spazio alla supervisione sui miei casi, sui ragazzi che io seguo...
E quindi come si fa? 
Una parte della mia personale supervisione viene svolta da mia moglie ("paziente" educatrice anche lei, chi si somiglia si piglia!) ma non si deve esagerare: dopo un'intera giornata di lavoro (per entrambi) non si può passare la cena o il momento della sigaretta parlando di lavoro! Certo, lo si può fare in un momento di particolare difficoltà o di crisi. Ma questo non sempre basta.
E allora?
Allora per far quadrare il cerchio (o per far "cerchiare il quadrato", come direbbe un bravo sistemico) ci si inventa altri modi come scrivere un blog con l'obiettivo di condividere con altri professionisti e ricevere da loro supporto o stimolo,  leggere (libri, altri blog di "luminari" che magari hai conosciuto all'università, articoli), cercare nelle pieghe del tempo il contatto con gli altri educatori (sui social network - se questi non sono esclusivamente deputati a disquisire di contratti, riconoscimento degli inquadramenti, lauree universitarie parificate e non... - o nelle conversazioni quotidiane) o con i propri colleghi, partecipare (quando è possibile) a corsi di formazione esterni...
Questo processo è complesso, irto di difficoltà ma - a mio parere - deve essere percorso, altrimenti l'educatore rischia di annegare nella complessità del suo operato, di annaspare nelle vecchie prassi educative che devono con costanza essere aggiornate affinché siano al passo con i tempi (nostri, degli educandi, della società), di soccombere di fronte alla caparbietà con cui il mondo, la società e i bisogni cambiano.
Ma c'è anche un'altra possibilità (complementare) di supervisione: arrivare a casa, spegnere il cellulare (quelli che riescono a farlo, io non ho ancora imparato!), guardare in faccia la propria compagna (o compagno) e i propri figli, condividere con loro momenti di gioia e serenità e "staccare" la spina.
Tanto noi educatori un contatto con la supervisione e la formazione l'abbiamo in ogni momento e in ogni contesto.
Questione di deformazione professionale o di forma mentis?

10 commenti:

  1. A volte io faccio supervisione (o forse si potrebbe anche convisione) con un collega con cui condivido il pendolarismo: mezz'ora di strada in auto, tanti problemi e qualche soddisfazione. Accolgo volentieri la proposta di scambio di riflessioni anche se mi sembra che la tua esperienza lavorativa sia molto diversa dalla mia.
    Credo che "staccare la spina" sia un gesto fondamentale di cura di sè che alla fine aiuta molto a guardare con occhio distaccato, quindi più limpido, tutta la nostra prassi lavorativa.

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    1. E qual è la tua esperienza lavorativa? Io ho passato 18 anni in comunità per minori e attualmente mi occupo di interventi educativi domiciliari, spazio neutro e visite protette, tempo famiglia e interventi scolastici.

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  2. Io lavoro con persone con disabilità intellettiva, adulte, in un centro riabilitativo - residenza sanitaria per disabili. Ho una laurea in pedagogia e il corso triennale della usl. Lavoro da sola con un gruppo di 9 persone per un turno di 6 ore, nell'altro turno c'è la mia collega ma il tempo di scambi tra di noi non è formalizzato ma è lasciato alla buona volontà di ognuno. Lei di solito arriva all'ultimo minuto e di solito ha poca voglia di condividere. Ma quello contro cui davvero lotto ogni giorno è la sensazione della mancanza d'orizzonte: i "miei ragazzi" invecchieranno e moriranno lì, non ci sono al momento reali prospettive di un ritorno ad una vita esterna. Certo non per la maggior parte di loro. Insieme a questo c'è anche il desiderio di guardare alle loro personalità con uno sguardo attento e valorizzante, per non appiattire la loro ricchezza (in cui credo) nell'elencazione di deficit e problematiche.

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  3. Credo proprio che la frustrazione peggiore lavorando con quelle che io chiamo "patologie senza ritorno" sia proprio la mancanza di orizzonti, la difficoltà a vedere un futuro "diverso". Soprattutto in queste sotuazioni è importante fare supervisione: per scaricare la frustrazione e trovare nuovi stimoli, inventarsi nuovi strumenti, progettare nuovi obiettivi. Altrimenti il rischio è di fossilizzarsi nella "pedagogia dei cesti intrecciati". Non riesci a progettare con la tua collega qualcosa di nuovo? Non ti permettono di frequentare qualche corso di aggiornamento?

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  4. Cerco di fare corsi e di tenere in movimento la fantasia. Ho diverse idee e sto cercando il modo migliore di realizzarle. Penso cmq che anche il cesto intrecciato possa trovare la sua ragione d'essere dentro un progetto e, come ti dicevo, dentro un orizzonte di valori. Cerco di lavorare su me stessa per creare dentro di me nuovi approcci verso il lavoro e verso le persone, e nutro ancora la speranza di poter cambiare qualcosa intorno a me.

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    1. Mi fa piacere leggere tra le righe la voglia di andare avanti e trovare nuovi stimoli e nuovi approcci.
      Rispetto al cesto intrecciato: anche io ritengono che tutte le attività siano utili, soprattutto la terapia occupazionale, ma - come dici tu - devono essere inserite e trovare la loro ragion d'essere in un progetto.
      La "pedagogia del cesto intrecciato" è quando l'attività o il laboratorio sono fine a sé stesse, rimangono un retaggio di un progetto obsoleto o dimenticato e non perseguono più nessun obiettivo se non quello di tranquillizzare gli operatori rispetto alla loro professionalità.
      A volte, in alcuni servizi, il progetto non viene verificato, monitorato o rivalutato e quindi si cade nella routine improduttiva.
      E purtroppo anche gli ospiti percepiscono questa improduttività...

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  5. L'attività di laboratorio servono anche a tranquillizzare il servizio, e a fare bella figura all'esterno. Sai, ripensando a quello che scrivevi nell'articolo volevo dirti che proprio oggi ho avuto l'impressione (ma non solo oggi a dire il vero) che il mio stato psicologico, la mia situazione interiore, abbiano fatto la differenza nel lavoro. Una maggiore serenità, una visione positiva, una calma profonda (anche nei rimproveri), una facilità di sorriso e di lode alla fine possono creare un clima in cui ognuno può stare bene, in cui si può essere felici, tutti, educatori e "ragazzi". Ti è mai successo? Pensi che sia una visione troppo ingenua e romantica?

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    1. Eccome se mi è successo! Quando lavoravo con gli adolescenti entravo in comunità - all'inizio del turno che sarebbe durato 24 ore! - felice di farlo! Ero contento di rivedere i ragazzi dopo il giorno di riposo, mi rallegrava pensare a quello che avrei fatto con loro.
      E questa mia gioia i ragazzi la percepivano e - di riflesso - mi proponevano la loro. Sentivano che io avevo voglia di stare con loro, anche di rimproverarli (o "cazziarli", come dicevamo noi in gergo) perché ero autentico e pensavo nel profondo ciò che dicevo con loro, ciò che facevo con loro e ciò che insieme vivevamo.
      Altri colleghi entravano in comunità con un atteggiamento diverso: già indispettiti, stanchi o arrabbiati. E come reagivano i ragazzi? Li massacravano!
      Il modo in cui si pone l'educatore (che come scrivevo in un altro post è il "primo strumento del lavoro educativo") è fondamentale e presentarsi in modo sereno, calmo, positivo crea immediatamente un clima favorevole alla creazione di relazioni educative.
      E non sei né ingenua né romantica! Devi solo tenere sempre in mente che questo tuo atteggiamento fa parte della tua metodologia di lavoro.

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  6. Infatti è un atteggiamento che io cerco di coltivare dentro di me per usarlo in modo sempre più consapevole. Mi fa piacere vedere che sei d'accordo. Una delle cose belle di questo lavoro è che non si finisce mai di imparare qualcosa su stessi e sugli altri. Ed è bello anche poter ritrovare esperienze simili negli altri, anche lontani, anche sconosciuti..

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    1. Mi piace che tu abbia colto l'essenza di questo blog. Il mio intento è proprio quello di condividere, confrontarsi, imparare, cogliere le similitudini, valorizzare le differenze. Il senso di solitudine degli educatori spesso si vive anche all'interno dei gruppi di lavoro se non c'è la comunicazione.
      Se non c'è la VOGLIA di comunicare.
      Quando invece se ne sente la necessità non è importante la conoscenza diretta e la distanza - in questo nostro super tecnologico terzo millennio - non è più un problema!

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