martedì 2 ottobre 2012

Le vostre storie: ecco la prima!

NON APRITE QUELLA PORTA
La storia di "Francesco"
 
Vi racconto il percorso terapeutico di Francesco, 30 anni, segnalatomi dal Ser.t. come utente tossicodipendente da eroina e cocaina.
Ricevo una relazione dalla quale emerge un profilo abbastanza comune per l'ambito in cui lavoro: percorso scolastico interrotto, problemi psichiatrici, difficolta a mantenere un lavoro, qualche precedente penale per reati di poco conto e un rapporto simbiotico con la madre.
Viene descritto come un caso disperato, gli stessi operatori del Ser.t. non credono che riusciremo nemmeno a farlo entrare nella nostra struttura, a fargli varcare quella porta.
Lo contatto e fissiamo un primo appuntamento. Il giorno dell'incontro previsto, mi telefona e chiede di rinviarlo. Incomincio a pensare che gli operatori del Ser.T. abbiano ragione, ma certo non perdo le speranze....quanti sono stati gli appuntamenti saltati nel corso del mio lavoro? Neanche si contano!
Credo che sia passato circa un mese prima di riuscire ad incontrarlo, in questo periodo, lui chiamava e rinviava, chiamava e nuovamente rinviava ma ...chiamava! e questo mi sembrava importante.
Anche se non si presentava, aveva cura di avvisarmi e, dal mio punto di vista, un "embrione" di relazione c'era. Penso a quel meraviglioso trattato di Dela Ranci sulla "Relazione a legame debole".
C'era un sottile filo tra me e lui; perché spezzarlo? Certo, ammetto che qualche volta avrei avuto voglia di dirgli:" Senti caro, quando sei pronto chiama! Io non ho tempo da perdere".
Ma non l'ho mai fatto.
Anche l'equipe mi suggeriva di " sganciarlo" e, nei momenti informali, mi si prendeva in giro per questa sorta di mio " accanimento terapeutico". Lo chiamavano " il mio Francesco"; era chiaro che dietro a quel "mio" ci stava un neon lampeggiante che diceva: "Attenzione Anna, ricorda di mantenere la giusta distanza emotiva".
ln effetti il mio era una sorta di maternage, ma ne ero assolutamente consapevole e non vedevo alternativa pensando alla simbiosi con la madre.
Finalmente Francesco si presenta: timido, impaurito, ansioso, agitato; mi guarda con gli occhi di un bambino. Iniziamo a conoscerci, cerco di fargli sentire che qui nessuno lo giudica, cerco di capire cosa posso fare per aiutarlo e ne parlo con lui. Francesco non ce la fa più, è intossicato ed è stanco, esausto di questa vita. Ha problemi psichiatrici ma non riesce a curarsi a causa della discontinuità con cui assume i farmaci.
Il suo disagio è profondo, si coglie, lo sento sulla mia pelle; Francesco rifiuta qualsiasi programma residenziale perché non vuole separarsi dalla madre e uscire dal suo " nido familiare". E' per questo che è qui, perché la mia è una struttura diurna che gli permetterebbe di tornare a casa la sera.
Si pone un problema grosso: io non lo posso accogliere se non ha almeno un mese di astensione da sostanze illecite.
Gli propongo di entrare nella nostra Pronta Accoglienza: si tratta di un percorso breve, 90 giorni per il dimezzamento e l'inserimento della terapia sostitutiva (metadone).
Francesco rifiuta categoricamente, si arrabbia con me perché l'ho deluso, non gli ho dato quello che lui voleva, non ho capito le sue esigenze.
Esce dalla mia stanza sbattendo la porta ed imprecando.
Rimango sola, in silenzio, aspetto che il cuore smetta di battere così forte; non è la prima volta che accade, quella porta è stata sbattuta un'infinità di volte e ha ricevuto anche qualche pugno; "Dovrei essere abituata", penso, invece accade sempre che mi agito davanti a tanta aggressività.
In quei secondi di blackout emotivo penso a cose idiote, penso a quanto resistente debba essere quella porta! Poi, comincio a riflettere con più serenità e realizzo che quel sottile filo si è spezzato.
Sono dispiaciuta ma relativamente tranquilla, da un lato credo di avergli mostrato disponibilità ad aiutarlo senza prestarmi al gioco manipolatorio, dall'altro mi si insinua il dubbio che i miei colleghi avessero un po' di ragione...
Passa un po' di tempo, ora non ricordo quanto, e Francesco mi telefona, chiede un nuovo appuntamento e, durante questo secondo incontro, mi comunica di voler provare a mantenere l'astinenza stando a casa. Impresa ardua per non dire impossibile; io glielo dico molto apertamente ma decido di lasciargli la possibilità di fare questo tentativo perché sono convinta che difficilmente si potrà fidare di me se non gli do l'opportunità di provare. Stabiliamo di vederci settimanalmente per verificare il raggiungimento dell'obiettivo che si è posto.
Nel frattempo la relazione si costruisce, Francesco inizia a fidarsi di me, si racconta, mi parla di sé e ben presto arriva alla prevedibile conclusione che da solo non ce la può fare. Obiettivo raggiunto! Il mio, non il suo.
Tutto ciò è avvenuto nell'arco di tre mesi circa.
Naturalmente l'equipe non condivide completamente ma mi lascia agire, ovviamente i colleghi non mi risparmiano battute ed io sto al gioco, per fortuna ho un gruppo di colleghi che ama scherzare, l'ironia è un meraviglioso metodo per alleggerirci dalla pesantezza del nostro lavoro.
I colloqui continuano nel tentativo di fargli accettare questi 90 giorni che, ai suoi occhi, appaiono come una condanna all'ergastolo. Al termine di ogni incontro Francesco esce più sereno, sollevato, ed io, invece, sento la pesantezza della sua condizione e delle sue problematiche.
Bene, volete sapere quanto tempo è passato perché si decidesse ad entrare?
Un anno! Un anno di colloqui.
Francesco poi ha portato avanti il percorso nel nostro centro, ovviamente l'ho voluto seguire io, e l'ha concluso positivamente.
Ebbene, sono passati più di 10 anni da quella porta sbattuta, e in tutto questo tempo Francesco è sempre stato bene, si è sposato, lavora stabilmente e ha una splendida bambina.
Ecco, credo che la chiave sia stata il rispetto dei tempi, dei suoi tempi.
L'aver accettato di camminare insieme a lui, cercando di sollecitarlo ma senza forzarlo, accettando che spostasse la sua dipendenza dalle sostanze alla dipendenza dalla struttura, in particolare da me, per poi accompagnarlo verso una maggiore autonomia. Ora ha una "mamma-moglie", ma va bene così. Il loro rapporto funziona in questo modo da parecchi anni ormai.
Adesso i miei colleghi non scherzano più su di lui.
Ora lo posso fare io, lo chiamo " il mio Francesco" sapendo che dietro quel " mio" ci sta solo un semplice sentimento di affetto.
Ecco la prima (e spero non ultima!) delle vostre storie.
Non voglio dilungarmi in ringraziamenti ad Anna, ma sicuramente voglio fare un plauso al suo coraggio. Che non è la prima volta che mi dimostra!
L'oggetto della sua mail è: "Questa è una storia. Non so se è tanto interessante da pubblicarla, ma te la mando. E la lascio nelle tue mani".
Questo per me è un regalo: mi racconta una storia e la lascia nelle mie mani. Con una sorta di implicita dichiarazione: fanne quello che vuoi.
E io la pubblico.
Intanto perché la ritengo interessante, e poi perché mi suggerisce stimoli su cui ragionare.
Una prima premessa: la storia l'ho letta così come la leggete voi. Contestualizzata come Anna ha deciso di contestualizzarla. Non ho altre informazioni né ho posto domande di appronfomento.
Per scelta.
Perché la storia che Anna ha scritto l'ha vissuta solo lei, e nessuna domanda può farla diventare mia.
Scelgo quindi di affrontarla così come mi è stata consegnata, nell'ottica della mia visione auto/eterobiografica.
L'autrice ovviamente si deve sentire libera di aggiungere/togliere/specificare tutto quello che vuole.
Di una cosa deve essere sicura: quella che io commento non sarà più la "sua" storia, ma "una" storia. E la invito a leggere i miei commenti in questo modo: come se fosse la storia di un altro. Anche se so quanto possa essere difficile.
Due sono gli aspetti che mi colpiscono in questo racconto.
Il primo è il ruolo dell'équipe: vi si accenna solo in termini di "dissentono" e di "mi prendono in giro". Leggo, tra le righe, un sorta di solitudine dell'operatore, che prova il coraggio di affrontare una difficoltà ma non sente l'appoggio della sua équipe. Né un accenno di solidarietà, né un suggerimento costruttivo... Solo ironia. Certo l'ironia "nei momenti informali" è un ottimo strumento, perché aiuta gli educatori ad affrontare più serenamente il proprio lavoro. Però non si percepisce (io non percepisco) altro. Sostegno, empatia, supporto...
Ci vuole coraggio (ecco Anna: torna il tema di fondo!) a portare avanti una situazione così difficile in solitudine. Come spesso capita a tanti educatori.
Il secondo aspetto che mi colpisce molto è il concetto di autonomia. Esattamente come me, Anna (e spero anche la sua équipe) vive l'autonomia come "la diversificazione delle dipendenze".
Si tratta di una visione non comune che ho già trattato in altri post precedenti a questo.
Normalmente l'autonomia viene vissuta come "la capacità di fare le cose da solo", in autonomia appunto.
Ma nessuno "fa tutto da solo".
Diventare autonomi significa semplicemente, secondo me, essere consapevoli di quanti e quali gradi di dipendenza condizionano la nostra vita.
Se devo comprare un'auto nuova mi confronto con mio padre (che ne capisce) e con i miei amici.
Se devo intraprendere una nuova avventura lavorativa ne parlo con mia moglie (con la quale devo condividere l'onere della gestione economica della famiglia).
Se mi sento in difficoltà in una situazione cerco il confronto con qualcuno che può consigliarmi, per esperienze precedenti o per similitudini di visione della vita.
Questi sono livelli di dipendenza: più dipendenze (consapevoli) abbiamo nella nostra vita e più siamo autonomi. Perché possiamo scegliere a quale soggetto di dipendenza possiamo relazionarci.
L'autonomia - quindi - è la libertà di scegliere da chi dipendere in ogni situazione.
 
Non so se Anna gradirà la lettura (semplicistica, certo, perché vorrei che altri aggiungessero ulteriori livelli di ragionamento, migliori rispetto al mio) che ho dato alla sua storia (perché è e rimane la sua), ma la invito a vivere questa restituzione semplicemente per quello che è: quando racconti una storia, il tuo ascoltatore la vive soggettivamente, secondo i suoi pregiudizi. E te la restituisce. Offrendoti la possibilità di rileggerla in modo meno soggettivo, più completo.
Grazie Anna per il tuo dono.
Spero che altri seguiranno la tua generosità e mi faranno altri regali.

2 commenti:

  1. Intanto solo grazie, grazie ad Anna per aver raccontato questa storia così bella e grazie ad Alessandro per averla pubblicata e commentata. Trovo un punto che mi risuona in modo particolare ed è quello della distanza emotiva. Credo però che ne riparlerò un'altra volta più diffusamente.

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  2. Mi sento di fare una precisazione rispetto alle tue riflessioni sull'equipe. Il lavoro in comunità e' scandito da continue emergenze, il tempo a disposizione per le riunioni e' sempre troppo poco e l'ordine del giorno troppo pieno, tanto da non riuscire ad esaurire nemmeno i casi gia' inseriti in comunità.
    Le segnalazioni, quindi, inevitabilmente vanno in coda, anche perché il numero di utenti che iniziano il percorso, in rapporto alle segnalazioni, e' statisticamente basso.
    Credo che Francesco sia stato considerato come uno dei tanti che dichiarano l'intenzione di fare un programma ma dimostrano poca motivazione ( perche' la motivazione non e' oggetto nel nostro lavoro?) Eppure la mia equipe lo sa benissimo.
    Ma tutto questo poco conta; e' vero, la mia percezione e' stata quella di lavorare in solitudine, almeno in questa situazione. Credo che il lavoro nella tossicodipendenza, in alcuni casi, indurisca gli operatori, li renda disincantati, e faccia maturare dei grossi pregiudizi. Questo rischia di offuscare la possibilita' di vedere la persona che sta dietro all'utente consumatore di sostanze.
    Invece ogni utente, anche se ha in comune tanto con gli altri, andrebbe sempre visto come unico e irripetibile, il che non significa negare il bagaglio dell'esperienza maturata negli anni, ovviamente. Certo lavorare con questo spirito e' più faticoso e ci obbliga ad uscire da quell'automatismo un po' comodo e rassicurante. Scegliere strade nuove, comporta correre dei rischi. I colloqui di un anno con Francesco uscivano dalle normali procedure standardizzate e questo spiazzava alcuni operatori, proprio quelli che descrivevo prima.

    Per quanto riguarda la " diversificazione delle dipendenze" mi trovi in assoluto accordo. Anche qui l'equipe era divisa, alcuni faticavano a comprendere questo concetto. L'obiezione era sempre la stessa:" che senso ha passare da una dipendenza all'altra?" Ha senso, eccome se ne ha, innanzitutto perché si passa da una dipendenza nociva, distruttiva, ad una certamente più sana. Inoltre, ritengo si tratti di una fase di passaggio fisiologica e quasi necessaria alla quale dovrà seguire quella che tu chiami " diversificazione delle dipendenze". Qualcuno potrebbe obiettare pensando a Francesco, :" ma che ne sarà di lui se la moglie un giorno decide di lasciarlo?".
    Io non ho una risposta a questa domanda ma penso che il suo percorso non sia stato solo quello in comunità, Francesco ha scoperto di saper lavorare bene e di essere apprezzato per questo, ha sperimentato la paternità, ha vissuto una relazione d'amore; questi anni sono stati parte integrante della sua terapia e non credo che ora sia lo stesso di 10 anni fa.

    Anna

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