lunedì 3 settembre 2012

Ci si può assuefare alle emozioni?

Ho guardato dentro un'emozione
E ci ho visto dentro tanto amore
E ho capito perché non si comanda al cuore
E va bene così
Senza parole
(V. Rossi - Senza Parole)
 
Tanti anni fa ho scelto questo lavoro perché mi faceva provare tante emozioni, mi avvicinava a ciò che le persone provavano.
Ed erano emozioni forti, sentimenti spesso estremi.
Poi ho cominciato a studiare e ho capito che il lavoro era anche una professione. Bisognava apprendere tecniche, osservare situazioni, imparare a prendere le giuste distanze dalle emozioni per non essere trascinati irrimediabilmente in un vortice da cui si faticava ad uscire. Da cui qualche volta sembrava impossibile uscire.
Alcuni luminari continuavano a ribadire il concetto del non farsi coinvolgere troppo, i miei genitori - conoscendomi molto bene - temevano che mi sarei buttato troppo, i miei "guru dell'educazione" (pochi per la verità, solo persone che stimavo e stimo ancora molto ad anni di distanza) mi davano suggerimenti e consigli.
Ho letto e studiato del burn-out, mi sono chiesto se anche io potevo caderci, ho visto colleghi che ci sono rimasti intrappolati.
E intanto continuavo a lavorare, vivendo intensamente e fino in fondo le storie e le persone che incontravo.
Provavo emozioni? Certo che si! Ma me le tenevo per me, me le gestivo. O almeno così pensavo.
Perché dopo tanti anni ho capito che le mie emozioni si percepiscono sotto pelle e che i miei ragazzi mi apprezzano, mi ascoltano e mi rispettano proprio perché non sono una "macchina da guerra".
Quando un ragazzo o un genitore mi fa incazzare mi arrabbio sul serio, quando una situazione mi annoia si vede lontano un chilometro che mi sto rompendo, quando una cosa mi fa ridere rido e se mi fa soffrire soffro.
Sono limpido, provo emozioni e gli altri le provano con me.
Tanti anni fa ho scelto di fare l'educatore perché mi faceva provare tante emozioni.
Oggi ho capito che sono proprio le mie emozioni che fanno di me un bravo educatore.
Ma ci si può assuefare alle emozioni?

6 commenti:

  1. Spero proprio di no! Se ci assuefà alle emozioni si finisce con il cercarne di nuove, con il dare per scontato quello che si prova, con lo smettere di dargli importanza. Non si lavora per provare delle emozioni ma si lavora con le emozioni, le nostre e quelle delle persone che ci sono affidate, minori, anziani, disabili che siano. E soprattutto bisogna imparare a decifrarle, le nostre emozioni, per capire bene dove sta andando una relazione ed essere consapevoli di quello che sta succedendo dentro di noi e di cosa trasmettiamo agli altri.

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  2. Assuefare in che senso? dipendere da loro, cercarle in modo quasi predatorio? Ho pensato a questa cosa pochi gg fa: tornato dalle vacanze con i ragazzi della comunità (15 intensi gg), mi sono trovato davanti un piatto martedì mattina di fine estate milanese, con i ragazzi divisi tra divano, playstation, e dannate musichette sul cellulare. Apatia che mi ha contagiato e abbattuto, fino al momento del pranzo, in cui ho ripreso un argomento che già li toccava molto in vacanza: una certa riluttanza/paura nell'esplorare la città che ci aveva ospitato, che li portava (la sera!!!) a stare passivamente di fronte alla tv e non voler uscire.
    Fuoco alle polveri! e finalmente un confronto, un'emozione che stavo aspettando in modo quasi affamato, dopo la scorpacciata fatta al mare.
    La sera ho riflettuto un po', raccontando ad amici, colleghi ecc.. e mi sono rivisto come un lupo. L'essere appena tornato da una situazione viva, il non aver ben presente che fare in un tranquillo turno di fine estate e il mio carattere, che dipende quasi tossicamente dalle emozioni forti (arma a doppio taglio anche in altre situazioni, oltre a questa) mi hanno fatto lanciare in una minicrociata un po' esagerata, che ha spiazzato anche i ragazzi; poveretti, davano l'impressione di essere ancora 'inebriati', magari pure riconoscenti a me che li avevo accompagnati, dalla bella e piena esperienza appena passata.
    CHe ci devo fare? oltre a pianificare in modo diverso i gg successivi, so che il mio carattere è così, e già si è smussato (mi piace crederci) nel tempo. E, come te, mi sembra di essere apprezzato per questo sul lavoro.. nonostante sia un fattore di non facile gestione, tipo nelle antipatie personali, o nell'imitazione delle mie reazioni da parte loro.
    saluti

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  3. Mi verrebbe da aggiungere che noi lavoriamo anche con le emozioni. Quale relazione si può costruire se non lascia scorrere sl suo interno ciò che si prova? Il problema sorge quando non riusciamo più a distinguere le mostre da quelle dell'altro; quando non siamo in grado di riconoscere quello che amano chiamare transfert e contro- transfert ( si perché riguarda anche gli educatori, non solo gli psicoterapeuti, anche se in modo meno " profondo"). E poi ogni emozione ha una ragione di essere, quando i nostri ( clienti, utenti, pazienti ... Boh) ci annoiano, e' perché ci vogliono proprio annoiare! Non consapevolmente, e' ovvio, ma anche quella e' una strategia inconscia per non entrare in intimità . E allora come fare a gestire le proprie emozioni? Forse ponendosi sempre delle domande: " perché mi sta accadendo questo?", " perchéi sta facendo arrabbiare"? Interrogarsi continuamente e non prendere decisioni con quell'automatismo che, a volte, l'esperienza ci porta ad applicare. Credo che lo studio e l'esperienza siano fondamentali se ci rendono dinamici ed introspettivi. Poi quando non c'è la si fa... C'è sempre la supervisione.....

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  4. Sì, domande, domande e ancora domande. Domande su noi stessi, sulla relazione, sulla persona di cui abbiano cura. E' l'unico modo per uscire da ogni tipo di automatismo e ridare vita ed entusiasmo al nostro lavoro quotidiano. Non dobbiamo mai permettere (e lo dico soprattutto per me) che le diagnosi mediche esauriscano la ricchezza delle persone che abbiamo davanti. E questo vale più in generale con tutte le definizioni con cui le persone ci vengono presentate nell'ambito del nostro lavoro.

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  5. Le emozioni sono il nostro pane quotidiano: dobbiamo gestire quelle dei nostri (utenti, pazienti, clienti... d'ora in poi mi sa che - come Anna - li chiamerò "Boh"), dobbiamo gestire le nostre (perché non interferiscano sulla nostra professione e in inficino la relazione educativa). Studio, esperienza, supervisione... tutto fondamentale! Ma (ripeto) le emozioni sono il nostro pane quotidiano. Da qualsiasi punto di vista le vogliamo guardare ci sono dentro (le nostre) e ci entrano (quelle degli altri). Il dubbio che ho è: c'è un limite? Io credo di no, ed è per quello che, come scrivevo, ho scelto questo lavoro perché mi fa provare emozioni. Non in senso passivo ovviamente, né ingestibili e incontrollabili. Ma io le provo: le mie e quelle degli altri. Si tratta di empatia. Si impara? Non credo. La si acquisisce? Non penso proprio. L'empatia c'è o non c'è. Ecco perché mi infervoro quando leggo di tutte le diatribe contrattuali, sindacali, concorsuali... come se il resto fosse scontato!
    Non lo è per niente!

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  6. Per evitare i vari "utenti", "pazienti" etc, ho preferito usare "persone che ci sono affidate", però in effetti è un'espressione più lunga e meno comoda di "Boh".
    Il limite è quando non distingui più le tue emozioni da quelle degli altri. O quando quelle degli altri ti invadono profondamente.

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