venerdì 31 agosto 2012

Quando la vita di coppia diventa un ring

"Ogni volta che entro in quelle due case, dove faccio i miei interventi domiciliari, trovo le due mamme con nuovi lividi. Loro li mascherano - o cercano di farlo - e se io chiedo cosa sia successo inventano un sacco di scuse. Tutte le volte lo segnalo ai servizi sociali, ma non succede mai molto. Perché non lasciano i loro mariti? Qual è il meccanismo psicologico che le tiene legate a quegli uomini? E loro, i mariti, ogni volta fanno finta di nulla e chiacchierano con me come se nulla fosse. Mi viene voglia di menarli!"
 
 
Questo è il racconto di oggi pomeriggio di un'educatrice.
Ha portato in équipe il problema perché si sente inerme davanti a queste situazioni e ha chiesto aiuto per gestie la situazione:
Che ha fatto l'équipe? Ovviamente è partita una discussione su come intervenire e i pareri sono stati concordi su alcuni aspetti, ma discordi su altri.
C'era accordo da parte di tutti sul fatto che non si può fare finta di nulla altrimenti il ruolo dell'educatore verrebbe sminuito, come se avesse le fette di salame sugli occhi.
Il disaccordo era su come affrontare la situazione: qualcuno proponeva di parlarne apertamente con le mamme, qualcun altro suggeriva di parlarne anche con i mariti, altri rimandavano il compito della segnalazione all'assistente sociale, altri ancora proponevano di non affrontare apertamente il discorso...
Tutte posizioni assolutamente corrette anche se in disaccordo tra loro.
Ma non si riusciva ad arrivare ad una soluzione, perché non avevamo affrontato ancora il vero nodo della questione.
Che è semplicemente uno: qual è il meccanismo psicologico che trasforma queste donne in pungiball senza che se ne lamentino?
La mia opinione è che sia un problema di identità personale: queste donne hanno un'identità fragile, ma talmente fragile, che esiste e si regge solo in relazione al legame con il compagno. Nel momento in cui dovessero ammettere i limiti e la condotta violenta dei mariti non metterebbero in discussione solo loro, metterebbero in discussione anche sé stesse. E la loro identità ne uscirebbe a pezzi. Come un vaso di cocci caduto per terra.
Quindi sopportano, fingono, negano... perché non si tratta di altro che di un meccanismo di difesa. E solo un pericolo più grande (la loro vita o l'incolumità dei loro figli) potrebbe - e purtroppo devo sottolinare il condizionale - scuoterle e far cambiare loro condotta o atteggiamento.
Ma come è possibile che delle donne abbiano un'identità così fragile purtroppo non ci è dato saperlo, non abbiamo abbastanza informazioni (né ce ne possono offrire i servizi sociali) sul loro passato e sugli eventuali traumi che hanno subito.
Cosa può fare quindi un'educatrice davanti ad una situazione del genere? In primo luogo mostrare alla donna che la porta è sempre aperta, che l'occasione per affrontare il discorso è sempre disponibile, che l'ascolto è attivo.
E poi evitare il giudizio, fuggire dalle risonanze di gender che potrebbero fuorviare l'intervento.
Perché anche gli uomini che hanno condotte di questo tipo hanno delle "motivazioni" per farlo. Che non significa giustificarli (lungi da me!) ma vuol dire tenere in considerazione che anche l'aggressività e la violenza hanno dei traumi alla loro base. 

11 commenti:

  1. Se si indaga sulla storia personale di queste donne, spesso, non sempre, si scopre che la violenza fa parte delle loro esperienze infantili. Spesso hanno avuto genitori violenti. Sembrerà paradossale ma e' come se il loro modo di vivere e r
    iconoscere l'affettività passasse anche attraverso le botte. Dopo le botte c'è la pace, il perdono, l'affetto. Diventa un circuito perverso che si ripropone anche da adulti se non si e' fatto un percorso di elaborazione ( con o senza aiuti esterni). Sono molto d'accordo quando si parla di fragilità, e' evidente che la stima di s'è e' molto bassa. Dietro a tutto ciò c'e un giudice interno che dice loro che in fondo... Quelle botte un po' se le meritano

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  2. Credo che da soli non si possa uscire da questo meccanismo. Esistono delle collusioni di coppia tenaci e disfunzionali che riguardano entrambi i coniugi e sulle quali è difficile intervenire. Tanto più che le persone di solito NON vogliono cambiare. Sbaglio?

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  3. Sono d'accordo con te, ognuno " gioca" un ruolo e la vittima non e' soltanto vittima e il carnefice non e' solo carnefice.

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  4. Sono d'accordo. Quella e' una modalità relazionale distorta e distruttiva ma e' quella che meglio conoscono. Spesso e' più facile stare sll'interno di una situazione così complessa piuttosto che affrontare l'incertezza del " nuovo". Sei d'accordo?

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  5. Purtroppo questo tipo di dinamiche di coppia sono davvero contraddistinte dalla confusione di ruoli. Alla vittima piace essere vittima e questo fa di lei anche un carnefice. Perché il carnefice è vittima del suo ruolo.
    È chiaro che il solo intervento educativo non è sufficiente per spezzare queste dinamiche ed è necessario un supporto di un altro livello.
    Ma voi - come educatrici - che tipo di atteggiamento adottereste? Quali interventi effettuereste? Come affrontereste la situazione?
    Senza dimenticare il possibile processo identificatorio che voi - come donne - rischiereste...
    Perché io, che sono un uomo e come tale ragioni, ho proprio bisogno del punto di vista di una donna.

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  6. Anna (che bello sapere il tuo nome): certo che sono d'accordo. Soprattutto è quello che osservo continuamente nelle persone intorno a me. Quasi tutti si lamentano, qualcuno vive situazioni oggettivamente difficili, ma quasi nessuno vuole veramente cambiare.
    Alessandro: ti dico la verità, per me sarebbe abbastanza difficile. In una situazione come quella che descrivi io oscillerei tra la "compassione" per la sofferenza della donna e la rabbia verso di lei e la sua debolezza. Sono convinta che gli altri ci colpiscano solo se glielo lasciamo fare, e glielo permettiamo, e questo vale in ogni ambito. Quindi cercherei in ogni modo di convincere la donna a maturare la consapevolezza che la vita è nelle sue mani. Temo però che potrei correre il rischio di essere troppo direttiva e impaziente mentre questi sono processi che hanno bisogno di tempo.

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  7. Credo che si tratti di quello che in Analisi Transazionale si chiama " copione perdente". E' come in Romeo e Giulietta, gli attori sanno perfettamente l'esito finale ma... Giuletta e Romeo non lo sanno. Eppure a teatro ogni volta la loro storia sarà la stessa con la stessa tragica fine. Per poter uscire da quel copione bisogna innanzitutto saperlo vedere e riconoscere, un po' come gli attori che si preparano a recitarlo. Quante diverse opzioni troveremmo se potessimo modificare l'opera? Come fare a far vedere opzioni nuove affinché Romeo e Giulietta non muoiano?

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  8. Sì, mi piace la metafora. Siamo attori della nostra vita ma molti pensano che la loro vita dipenda dagli altri, dalla società, dai genitori, dagli errori del passato. E forse basterebbe partire da piccole cose, dall'introdurre piccoli cambiamenti in routine che sembrano assestate per far vedere che anche le situazioni difficili possono cambiare. Ma si può convincere qualcuno a cambiare? Nel presente e non quando si saranno realizzate determinate condizioni (quando i figli saranno più grandi, quando avrò trovato un lavoro, quando starò meglio, quando avrò più tempo..)

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  9. Io credo che il cambiamento sia una scelta, nessuno lo può imporre. Ritengo che il dovere e il compito di noi educatori sia di creare le condizioni perché un cambiamento possa avvenire, di predisporre una possibilità di scelta alternativa, di mostrare strade che le persone - prigioniere del loro punto di vista - faticano a scorgere.
    Se Romeo e Giulietta avessero avuto accanto qualcuno che mostrava loro una via d'uscita alternativa magari sarebbero morti comunque.
    Ma avrebbero scelto la morte con più consapevolezza, non perché era l'unica via.
    Il cambiamento è una scelta, ma se una scelta non c'è come può esserci cambiamento?
    La difficoltà maggiore, davanti alla scelta, è avere un centimetro di coraggio sopra la paura. E il coraggio necessita di accompagnamento.

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  10. Sono d'accordo. Questo dobbiamo fare: mostrare scelte, far intuire nuove possibilità, copioni diversi, e al tempo stesso stare accanto e sostenere le persone durante tutto il processo di cambiamento. Però bisogna anche saper accettare la mancanza di cambiamento, la decisione di morire (mi riferisco a Romeo e Giulietta), e questo può essere molto frustrante per un educatore. Insomma, non so se si è capito, io ho sofferto di una situazione simile. La persona che chiedeva aiuto in realtà non ha voluto cambiare e rimane a soffrire.

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  11. È molto interessante la vostra discussione...
    Io come educatrice, quando mi trovo di fronte a una donna con i lividi ho difficoltà a essere cordiale con i lui, mi impegno a mantenere un apparente normalità e il mio cervello frulla per decifrare la situazione in ogni piccolo particolare (con attenzione agli atteggiamenti della coppia)...Accetto l'idea che anche il violento per essere tale ha subito dei traumi, li compatisco e questo è l'unico pensiero che mi permette di non insultarli (e la voglia è tanta).
    Credo che alla fragilità femminile si associ anche uno stallo, la donna (a volte) mi sembra “stare” .
    Queste donne sono immobili, nei momenti di tensione familiare mi sembra che non abbiano mai scelto di stare con il loro carnefice, ma nemmeno scelgono di non starci. “Stanno” e basta, senza dover prendere una scelta. La situazione si aggrava quando culturalmente la donna è stata gestita (e si è sempre lasciata gestire) da altri (genitori, marito) che hanno scelto al suo posto o quando la donna è vissuta in un ambiente privo di alternative tra cui scegliere; difficilmente questo tipo di donna avrà il coraggio e la consapevolezza di aver le capacità di decidere per un cambiamento.
    Dalle vittime della tratta ho imparato una cosa: la pazienza deve essere tanta, si possono aspettare mesi, a volte anni, molte volte il momento di apertura che precede il cambiamento non arriva. Poiché non sono molto paziente ho scelto un'altra via: ho abbassato le mie aspettative (narcisistiche), smetto di aspettarmi che una persona faccia quello che farei io.
    Frustrazione ne ho provata tanta fino a quando non ho capito, che l'educatore non è lì per aiutare/salvare o far girare il mondo dalla parte giusta. Ci ho messo tanto per capire, ma sopratutto interiorizzare, l'idea che è la persona che si aiuta da sé, noi possiamo solo mettere a disposizione degli strumenti e dispiacerci se non vengono usati.
    Personalemte la parte che trovo più difficile è come affrontare praticamente il tema con la donna, ma forse ogni situazione è a se. Io difronte alla negazione della violenza del marito mi sento di poter far poco, provo a parlare di violenza in generale, partendo da altri contesti, mettendo in evidenza come siano moltissime le donne che subiscono violenza dal marito (per non farle sentire sole e sbagliate). Ma anche affrontare questi discorsi non è facile, dipende dalla fiducia reciproca, dall'intelligenza dell'interlocutrice, dalla conoscenza della lingua e anche da quanto manca prima che la goccia faccia traboccare il vaso.

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