venerdì 24 agosto 2012

L'utero automobilistico

Nel corso dei miei studi universitari ho più volte incontrato il concetto di setting educativo e ne sono sempre rimasto affascinato.
L'importanza, la cornice, la strutturazione del setting... sono stati argomenti che ho affrontato con interesse perché ho sempre ritenuto che una sua corretta progettazione fosse come avere un educatore in più, un collega virtuale entro il quale muoversi che aiuta con i suoi strumenti intrinseci.
Viene definito come "l'insieme delle costanti nel cui ambito si svolge un progetto educativo" ed è composto dagli spazi, dai tempi, dalle regole, dai soggetti coinvolti e dal ruolo che ricoprono, dalla relazione che li lega...
Bello leggerlo e studiarlo in teoria, altro è metterlo in pratica. 
Perché spesso il setting fa parte della cultura implicita di un'organizzazione e non è oggetto di riflessione consapevole. Inoltre viene influenzato anche dalle regole sistemiche a cui deve rispondere l'organizzazione stessa (tra cui la principale che è la propria sopravvivenza, ma di questo parlerò in futuro visto che è un tema che mi sta caro... soprattutto relativamente agli enti pubblici!).
Nel corso della mia professione mi sono trovato in un mucchio di setting differenti: strutturati, non strutturati, scelti, casuali (e di conseguenza da adattare o da sfruttare al meglio), progettati, caotici...
Ma il miglior setting in cui mi sia mai trovato ad operare è... la mia auto!
Quanti colloqui, discussioni, ragionamenti, silenzi ho vissuto con i miei ragazzi in quell'antro protetto. E devo dire che è stato uno dei migliori luoghi che anche i miei utenti abbiano mai gradito.
Quante confidenze, quanti pianti, quante confessioni... e quante soddisfazioni (per entrambi) una volta usciti da quel setting. E anche un po' di frustrazione perché il momento magico era finito, si era chiuso e nessuno sapeva se si sarebbe riaperto ancora.
Mi sono chiesto più volte il motivo di questa assurda ma positiva particolarità dell'automobile.
Di certo non era connessa al tipo di automobile: come tutti ho avuto dei cassoni assurdi (mia moglie mi rinfaccia sempre la fantastica opel corsa arancione che viaggiava a 3 cilindri con cui mi sono presentato al nostro primo appuntamento) o auto decenti; veicoli "mignon" (ah la mia smart... che bella!) o "normodotati" (la comodità interna della suzuki swift non ha paragoni con tutte le mie auto precedenti).
Né la differenza poteva essere negli attori coinvolti o nella loro relazione educativa: io ero sempre io, i ragazzi erano sempre i ragazzi. Avevamo la stessa relazione anche in altri contesti...
Quindi era proprio il setting ad essere differente.
Ma cosa caratterizza (almeno per me) l'automobile come un setting favorevole? 
Intanto credo che l'auto rappresenti un po' l'umanità del soggetto che la possiede: la mia è quasi sempre sporca, con la musica che preferisco, che puzza di sigarette e caotica, molto caotica. Ma riflette la mia personalità ed ho dedotto che questo "specchio dell'anima" venga respirato anche da chi viene con me. 
Inoltre in auto mi sento proprio me stesso: canto a squarciagola (posso farlo solo lì, altrimenti rischierei un arresto per disturbo della quiete pubblica), adoro guidare, mi sento libero ed euforico perché ogni viaggio (lungo o breve che sia) per me rappresenta il raggiungimento di una nuova meta, di una nuova avventura.
E anche questo credo traspiri dalla mia auto, e venga quindi percepito da chi mi accompagna.
Ultimo (ma non ultimo) l'auto è un contenitore limitato, con dei confini precisi all'interno della quale ci si sente comodi (o ci si può accomodare): personalizzare la posizione del sedile, togliersi le scarpe, regolare la temperatura... tutte azioni che compiamo per il nostro benessere.
Stare in auto è quindi un po' come tornare in un utero materno: un luogo accogliente che ci predispone alla relazione.
Ecco perché gli interventi educativi in auto sono sempre stati così efficaci. 

3 commenti:

  1. Penso che l'auto faccia nascere una specie particolare di intimità, si condivide lo stesso spazio e di solito non ci si guarda (anche chi non guida tende a guardare la strada), ci si sente liberi di far correre i pensieri e si finisce con il parlare di tutto come se si fosse da soli.

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    1. Non avevo mai pensato al processo autoriflessivo che può avvenire in auto, al "monologo ad alta voce". Anche se si esprimono pensieri in libertà - però - si è sempre consapevoli della presenza di un ascoltatore. Mi piace questa visione del concetto che pare differente (e quindi dà una nuova spiegazione) ma non è dissimile.
      Come se ci si sentisse meno giudicati? Come se si potesse lasciare all'altro (apparentemente concentrato su qualcosa di diverso) la libertà di decidere se cogliere o meno il pensiero espresso?

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  2. Penso che sia proprio qualcosa del genere, forse la possibilità di parlare senza guardarsi direttamente annulla o comunque diminuisce il timore di essere giudicati. Mi rendo conto però che questa è una visione alquanto personale: io ho difficoltà a guardare negli occhi le persone quando parlo (di meno quando se ascolto). Se poi ho abbastanza coraggio da affrontare uno sguardo ci trovo dentro mondi infiniti... Insomma attraverso gli occhi si possono scorgere le anime e questo può essere impegnativo.
    P.s. temo di non averti risposto.

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