giovedì 16 agosto 2012

Il falso problema dell'educazione

La solita annosa questione!
Anche oggi leggevo dell'importanza del titolo di studio dell'educatore, delle lotte intestine tra classi di laurea e facoltà universitarie, di chi può o non può fare l'educatore...
"Il problema del titolo è un falso problema, il vero problema è garantire che chi lavora in ambito psico-socio-educativo faccia una reale formazione permanente, che continui a lavorare su di sé e ad interrogarsi, a mettersi in gioco." scriveva (finalmente!!!) qualcuno questa mattina...

Lo scorso anno, nel Tempo-Famiglia in cui lavoro, c'era un nonno che accompagnava il suo nipotino di due anni. Un nonno: quindi un uomo non certo giovanissimo con la responsabilità di gestire un bimbo piccolo (e non solo nel contesto del servizio, perché fa il nonno a tempo pieno dato che figlia e genero escono di casa la mattina alle 7 e tornano alla sera all'ora di cena...).
Mi ha sorpreso molto (e mi ha fatto anche pensare a quanto spesso io sia ottuso, nonostante il tentativo di avere una mente aperta) perché era davvero bravo con questo suo nipotino. Attento, accorto, presente... 
Ma più che da questo sono rimasto stupito da un aspetto ancora più importante: la sua continua voglia ("necessità" la chiamava lui) di confrontarsi con gli altri adulti e con noi educatori sul processo evolutivo, sulle modalità educative, sugli stili, sui limiti: quello che più lo preoccupava era la sua età; il fatto che il "modo" in cui aveva educato sua figlia trent'anni prima non fosse più congruente con il contesto attuale.
Il suo bisogno di confronto nasceva da un senso di inferiorità che provava, dalla profonda preoccupazione che aveva nello svolgere un "ruolo" che non aveva scelto, che gli era stato imposto ma che lui riteneva di grande valore.
Nel corso dell'anno - naturalmente - la conoscenza con questo nonno si è approfondita e abbiamo scoperto altri aspetti della sua vita.
La sua grande passione è il canottaggio: rema da sempre, rema ancora (gareggia per i "campionati over", come li chiamano loro) ed è diventato allenatore. Di bambini tra gli 8 e i 12 anni. Un'età "difficile" come la definisce lui. Un momento del processo evolutivo molto delicato e pieno di difficoltà, che spaventa molti adulti.
Beh: nonostante considerasse il suo ruolo come "marginale" nella vita di questi bambini/ragazzi ("Li vedo due pomeriggi alla settimana, come posso pensare di essere un punto di riferimento nella loro vita? Sono solo l'allenatore...") non si è posto solo come un preparatore sportivo, come un "professionista" del canottaggio. 
Ha capito che la relazione con questi ragazzi è molto più importante.
Ed ha sentito sempre di più il peso della sua inesperienza.
Ha cominciato quindi a leggere libri, ad informarsi e a formarsi, a partecipare a corsi, a confrontarsi con noi operatori non solo per l'educazione del suo nipotino ma anche dei "suoi" rematori.
Ha allargato il suo orizzonte cercando di approfondire il rapporto con i genitori di questi ragazzi, di comprendere quali stili di vita hanno, quali difficoltà, quali modalità educative... Perché ai suoi occhi di nonno apparivano evidenti le dinamiche relazionali, i limiti e le risorse di questi giovani, le difficoltà che il contesto attuale pone, la mancanza di valori, di riferimenti, di opportunità.
Il dialogo con quest'uomo è stato per me molto formativo perché le sue osservazioni, le sue riflessioni, i suoi dubbi e le sue domande potevano essere traslate anche nel mio lavoro e rispecchiavano uno spaccato di realtà giovanile importante.
Quest'uomo non è laureato, non fa l'educatore, non è un professionista.
Ma qualcuno potrebbe affermare che non è un educatore?
Io no.

Grazie Nonno Ivan.

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