“… e vissero felici e contenti”.
Così ci piaceva pensare al termine di ogni favola
infantile e ancora oggi tendiamo o speriamo in un lieto fine. Anche quando gli
eventi della nostra storia ci indicano di cambiare, di mutare ottica, di raccontarci
la nostra famiglia e le nostre scelte in modi più fantasiosi. Meno abitudinari,
meno ripetitivi. E di conseguenza di rischiare verso nuove posizioni, di
orientare la nostra vita a trasformare i limiti in risorse.
E. Longhi – Di testa e di pancia – in “Cresciuti quasi da soli” a cura di A. Fiocchi – Franco Angeli, Milano 2002
Raccontare la propria storia, analizzarla in un’ottica
differente attraverso lo strumento autobiografico, è un passo necessario per
conoscere meglio sé stessi e comprendere come e perché ci relazioniamo con gli
altri.
Il lavoro degli operatori, però, non è semplicemente quello
di sapere come relazionarsi ma, soprattutto, utilizzare metodi e tecniche che
siano produttivi per gli utenti con cui lavorano.
Passato il primo momento di empasse (quando cioè si scopre
che il detto “Medico cura te stesso” è reale e tutti coloro che scelgono di
lavorare attraverso la relazione d’aiuto lo fanno perché – loro per primi –
hanno una fame atavica di relazione e sentono la necessità di ridare un volto
nuovo ad una storia, quella personale, che richiede aggiornamenti frequenti)
occorre concentrarsi sul significato che hanno le storie degli altri – per loro
e per noi operatori –, significato da ricercarsi per noi che queste storie le
ascoltiamo e per coloro che, raccontandole, le rivivono e le rielaborano,
Il lavoro con gli altri attraverso la ricostruzione della
loro storia narrata mediante le più diverse forme comunicative (il racconto
orale o scritto, il disegno, il mimo, la recitazione, l’autovideonarrazione) implica
in primo luogo un’autoformazione da parte dell’operatore. Comporta
cioè la preventiva applicazione su di sé delle pratiche e delle tecniche che,
poi, si adotteranno con i soggetti con i quali si lavorerà, dal momento che la
raccolta delle storie di vita altrui ed i procedimenti di analisi relativi
producono effetti personali in chi studia tali racconti e invogliano ad
interrogarsi sulla propria vicenda esistenziale.
L’educatore che lavora con il metodo autobiografico incontra
spesso la difficoltà di porre le necessarie distanze tra la sua vita e il
racconto di coloro che aiuta, spesso a scapito di un sano equilibrio relazionale.
Diventa quindi essenziale lo scambio e il contatto con i colleghi, per evitare scivolamenti empatici (l’identificazione con le situazioni raccontate o
con il narratore) o retropatici (l’identificazione con gli eventi di una storia
pregressa che gli evocano momenti critici della propria). Inoltre,
parlare delle storie di vita con cui si lavora insieme ai colleghi, oltre a
portare un sollievo dalla fatica del parlare – ascoltare – pensare, è utile per
una più obiettiva ricostruzione e analisi dei racconti autobiografici.
La raccolta delle storie altrui, il fondamentale ruolo di
stimolatore che ha colui il quale ascolta la storia, l’importanza del sistema
educatore-utente per la rielaborazione del vissuto, per la ricerca di
significati latenti all’interno della propria storia, la scoperta (o la
riscoperta) di alcuni aspetti mai visti, di alcune sfumature diversamente
interpretate fanno si che la storia non sia mai raccontata solo dal narratore.
La storia – la propria storia – viene raccontata a più voci,
in un coro polifonico e sistemico, fatto di retroazioni, sollecitazioni,
ridondanze, domande, feedback, curiosità. È proprio in questo senso che il
ruolo dell’educatore che utilizza il metodo autobiografico può, in un senso
esteso, “raccontare le storie degli altri”. Perché è lui, in un atto non solo
comunicativo ma meta-comunicativo, che rende esplicita l’importanza della
storia che diventa atto di formazione solo nel momento in cui viene raccontata.
Il dispositivo autobiografico è proprio degli utenti: è una metodologia utilizzata per restituire la stessa storia
raccontata con l’aggiunta di una interpretazione che, attraverso la rielaborazione,
può diventare senso.
Il processo di formazione degli operatori che utilizzano il
dispositivo autobiografico diventa quindi “eterobiografico” perché l’educatore
deve essere in grado di raccontare all'altro una nuova storia,
che sia la sua ma che venga in qualche modo letta “tra le righe” per evidenziarne
le latenze e le discrepanze di significato.
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